Entra nel petto mio, e spira tue

Entra nel petto mio, e spira tue è il 19° verso del I canto del Paradiso di Dante. Introduce la terzina (Paradiso, vv. 19-21)

Dante, particolare della Disputa del Sacramento

«Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsia traesti
dalla vagina delle membra sue.»

Per rappresentare la materia del Paradiso occorrono virtù poetiche sovrumane e pertanto il poeta invoca il dio Apollo (naturalmente come personificazione dello Spirito Santo)[1]: «entra nel mio petto e spira tu» (tue, con la e epitetica) in me un canto altissimo come quello con il quale vincesti Marsia nella gara musicale che gli costò la vita.

Interpretazione modifica

Secondo il racconto di Ovidio (Metamorfosi, VI, vv. 382-400), Apollo scorticò il satiro Marsia per punirlo di aver avuto la folle presunzione di sfidarlo; Dante rivolge dunque a se stesso un invito a un umile ascolto dell'ispirazione soprannaturale divina, per non cadere nella presunzione di pensare di agire con le proprie forze soltanto umane. Evitando i particolari del supplizio minutamente descritti da Ovidio, Dante immagina che Apollo abbia tirato Marsia fuori dalla sua pelle così come si estrae una spada dal fodero (vagina).[2]

Tutti i commentatori di Dante concordano con questa interpretazione. Tuttavia, come segnalato da Carlo Ginzburg,[3] una diversa ed erronea interpretazione è presente nei Pagan Mysteries of the Renaissance dello studioso dell'iconologia rinascimentale Edgar Wind, secondo il quale Dante indirizza una preghiera ad Apollo: «Entra nel mio petto e infondimi il tuo spirito come facesti con Marsia quando gli strappasti la pelle».[4] In base a questa esegesi, «per ottenere l'amato alloro di Apollo[5] il poeta deve passare attraverso l'agonia di Marsia. Anche qui si applicano le parole di Lorenzo de' Medici: "La via alla perfezione passa da questa strada" ».[6]

Wind trova una conferma della propria interpretazione nel fatto che in Vaticano, nella Stanza della Segnatura affrescata da Raffaello e dai suoi collaboratori, tra le due pareti della Disputa del Sacramento e del Parnaso, in entrambe le quali è raffigurato anche Dante - che dunque in una appare come teologo e nell'altra come poeta - è posto il riquadro dell'Apollo e Marsia, che « è un esempio di teologia poetica raffigurante un mistero pagano posto da Dante all'inizio del primo canto del Paradiso».[7] Secondo Ginzburg, il fraintendimento di Wind dei versi di Dante non è casuale: egli «legge a tal punto i suoi autori con gli occhi di un neoplatonico fiorentino, da introdurre, come qui, allegorie neoplatonizzanti dove non ci sono».[8]

Note modifica

  1. ^ Così come Dante chiama Cristo «sommo Giove» in Purgatorio, VI, v. 118. Qui però, con la presenza del mito di Apollo e Marsia, esiste una contraddizione, risolta dai commentatori come inserimento di una «bella menzogna» priva di valore reale: cfr. L. Pietrobono, Paradiso, p. 5.
  2. ^ La "possessione" divina, nel mondo pagano, era ad esempio il furore dionisiaco e il delirio delle Menadi, o l'invasamento da parte di Apollo della Sibilla Cumana (nel VI libro dell'Eneide di Virgilio, 77-97).
  3. ^ C. Ginzburg, Miti emblemi spie, pp. 67-69.
  4. ^ E. Wind, Pagan Mysteries, p. 144.
  5. ^ Come dimandi a dar l'amato alloro è il v. 15 dello stesso canto. L'alloro, quale simbolo di virtù poetica, è amato da Dante ed è amato da Apollo quale segno di Dafne.
  6. ^ E. Wind, ibidem.
  7. ^ E. Wind, ibidem.
  8. ^ C. Ginzburg, cit., p. 69.

Bibliografia modifica

  • Dante Alighieri, La Divina Commedia. Paradiso, a cura di L. Pietrobono, Torino, Società Editrice Internazionale, 1964
  • Carlo Ginzburg, Miti emblemi spie, Torino, Einaudi, 1992 ISBN 88-06-12896-5
  • Edgar Wind, Pagan Mysteries of the Renaissance, New Haven, Yale University Press, 1958