L'Iqṭāʾ (in arabo اقطاع?), fu una tassazione pressoché equivalente al kharāj che, nel mondo islamico fin dall'epoca buwayhide, riguardava i fondi agricoli, assegnati per carenza di numerario a funzionari e generali del califfo (e poi dei Sultani), affinché ricavassero da esso le risorse necessarie a pagare il soldo alle proprie truppe.

Erroneamente - come sottolineato da Claude Cahen - il termine viene spesso tradotto "feudo", ma da esso se ne differenzia per vari e tutt'altro che secondari aspetti. Dice lo storico islamista francese:

La natura dell'iqṭāʿ variava in base al tempo e al luogo e una traduzione presa in prestito da altri sistemi di istituzioni e concezioni è servita troppo spesso per fuorviare gli storici occidentali e anche quelli orientali.[1]

Il fruitore di un iqṭāʾ - che non aveva diritto di lasciare il bene così ottenuto in eredità, e che era chiamato muqṭiʿ - traeva da quanto assegnatogli da un'autorità formalmente suprema le risorse necessarie, spesso anche cospicue tali da poter pagare o armare un esercito, e destinava sovente a chi lo aveva beneficato una somma tale da cautelarsi da un'eventuale e sgradita rimozione del beneficio ricevuto.

Nell'India musulmana il termine muqṭiʿ equivaleva a quello di Governatore di una provincia.

Note modifica

  1. ^ Claude Cahen, lemma «Iḳṭā», su: EI2, ed. francese, vol. 3, p. 1088.

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