Gambatesa: differenze tra le versioni

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=== Cappella santuario di Maria Santissima della vittoria ===
È una chiesa campestre, ad una navata, situata nelle vicinanze del paese. Un'antica tradizione popolare ne attribuisce la costruzione alla volontà dell'imperatore Federico Barbarossa. In origine forse Abbazia con annesso monastero. Probabilmente rovinata dal terremoto del 1279 o da altri eventi, fu fatta ricostruire dalle fondamenta dal conte Riccardo di Gambatesa verso il 1313. Pur avendo subito, lungo i secoli, vari rifacimenti, la chiesetta conserva ancora la linearità della primitiva struttura architettonica d'impronta rurale. La facciata liscia e compatta e nella lunetta del portale, in pietra nuda, è presente lo stemma dell'Agnello Crocifero. All'interno di pregevole il soffitto a capriata e la statua lignea della Madonna della Vittoria del 1714. Del monastero restano solo dei ruderi.
 
'''Personaggi Illustri<ref>questa sezione è tratta dalla raccolta pubblica in Carozza Francesco, Gambatesa, la sua gente. Da Riccardo Pietravalle a Guglielmo Josa. Dal passaggio di Re Manfredi alla Battaglia di Gambatesa del 7 ottobre 1943”, Ausiliatrix, Benevento, 2012.</ref>'''
 
'''Avv. Prosdocimo Rotondo
'''''Patriota'''''
Gambatesa 14 aprile 1771 – Napoli 30 settembre 1799'''
La figura di Prosdocimo Rotondo merita, senz’altro, un’attenzione del tutto particolare. Discendente dagli illustri e ricchi Rotondo di Gambatesa, dalla famiglia aveva attinto, con i quattro fratelli, un vero spirito patriottico e liberale e, difatti, nel 1799 li ritroviamo tutti coinvolti in quel movimento giacobino e rivoluzionario che, purtroppo, si diffuse soltanto tra i colti professionisti e intellettuali molisani. A questo riguardo, è sempre lucida l’analisi che ne fece Vincenzo Cuoco quando scrisse che: ''“Era obbligato il popolo a saper la storia romana per conoscere la sua felicità?”'', nel senso che gli intellettuali dell’epoca, avrebbero preteso una adesione piena e immediata del popolo alla rivoluzione, mentre la povera gente ancora conduceva una vita talmente degradata e misera che neppure osavano sognarne una diversa. Sempre Cuoco, infatti, aggiungerà alla sua analisi che: “''Se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un’autorità, che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato de’ beni reali, e liberato lo avesse da que’ mali che soffriva; forse... noi non piangeremmo ora sui mi-seri avanzi di una patria desolata e degna di una sorte migliore”''<ref>V. Cuoco, Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli, Torino, Cugini Pomba e C. Editori, 1852.</ref>.
Tale triste ma profetica analisi, ebbe il conforto della storia e, duole riconoscerlo, ancora oggi si trovano uomini politici immemori di essa che, tronfi e orgogliosi, pretendono di muovere il popolo senza degnarsi di condividerne sofferenze e tribolazioni.
Prosdocimo Rotondo fu il più giovane dei cinque fratelli Rotondo, ma fu quello che rifulse più di tutti, oltre a lui vi erano, infatti:
- '''GIAMBATTISTA ROTONDO''' (1749-1837), che fu sacerdote ed ardente patriota.
- '''ELIGIO ROTONDO''' (1752-1817) anch’egli sacerdote e liberale che, durante la Repubblica Partenopea, fu anche Comandante delle truppe patriottiche.
- '''GENESIO ROTONDO''' (1759-1840) fu un esimio professionista e, come repubblicano nel 1799, dovette andare in esilio, ma tornò a Gambatesa dove mori nel 1840.
- '''POLICARPO ROTONDO''', nato nel 1765, esercitò l’avvocatura a Napoli e, nella Repubblica Napoletana, assunse il ruolo di Comandante delle truppe regolari. Dopo la fine di tale esperienza fuggì in esilio a Marsiglia, dove morì esule, senza poter torna-re a Gambatesa, diversamente da quanto era accaduto al fratello.
Non meravigli di trovare sacerdoti rivoluzionari, questo accade-va spesso e per diverse ragioni. Una di esse è, certamente, addebitabile al fatto che, spesso, il sacerdote era la “professione” a cui era-no obbligati i figli non destinatari della parte principale del patrimonio di famiglia. Un’altra ragione, altrettanto frequente, era la sincera passione “rivoluzionaria” di tanti sacerdoti che intendeva-no sostituire al regno dell’uomo il Regno di Dio e, a quanti pretendevano una religione tranquillizzante e placatrice degli animi, opponevano '''(servatis servandis)''' la vigorosa esclamazione di Gesù: “Sono venuto a portare il fuoco e come vorrei che già ardesse” (Lc 12, 49).
Veniamo, quindi, al nostro Prosdocimo Rotondo. Fece i suoi studi a Napoli e si laureò in giurisprudenza. Si dedicò alla sua professione, divenendo un avvocato nel foro di Napoli con una vasta clientela nella Capitanata e nel Molise. I moti intellettuali e rivoluzionari di quegli anni stimolarono molto la sua indole e, abbandonata la professione forense, si trasferì a Napoli, per dedicarsi appieno alla causa rivoluzionaria. La rivoluzione partenopea del 1799, è bene ricordarlo, fu una rivoluzione giovane, anche perché giovanissimi furono i protagonisti di quei moti. Prosdocimo Rotondo si unì, infatti, ai tanti e valenti giovani intellettuali meridionali che decisero di assumere su di se le sorti della società e di intervenire, in profondità, per la sua salvezza. Da Napoli, Prosdocimo Rotondo mantenne i contatti con gli intellettuali del basso Molise e si prodigò per trasmettere loro le idee che circolavano nella capitale. Costantino Lemaìtre di Lupara, Marcello Pepe di Civitacampomarano, Vincenzo Ricciardi di Palata, Vincenzo e Giuseppe Sanchez di Montefalcone nel Sannio, Nicola Neri di Acquaviva Collecroce, Scipione Vincelli e Domenico De Gennaro di Casacalenda, Giovanni Belpulsi di San Martino in Pensilis, Andrea Valiante di Ielsi, sono alcuni dei molisani con i quali tenne i contatti che, per eludere la vigilanza della polizia borbonica, si riunivano a convegno nell’abitazione di campagna della Baronessa di Castelbottaccio.
Il 22 gennaio del 1799 il generale francese Championet entrò in Napoli, dichiarando decaduto il regno borbonico ed instaurando la Repubblica Partenopea. Uno dei primi atti fu, ovviamente, di insediare un Governo provvisorio e nominò i 25 membri della Rappresentanza Nazionale con funzioni di assemblea legislativa. Prosdocimo Rotondo fu scelto come unico rappresentante del Contado del Molise con l’incarico del Ministero delle finanze.
L’invidia e la divisione tra gli uomini, oggi come allora, sono il più grande ostacolo al progresso e allo sviluppo e fu così che, come annotò Vincenzo Cuoco: ''“Prosdocimo Rotondo, eletto rappresentante, offese l’invidia di qualche suo nemico”''<ref>V. Cuoco, op. cit., p. 149</ref>, che non era stato preferito nella nomina al governo e dovette subirne le calunnie. Per primo ad accusarlo: ''“Si mosse Nicola Palomba''<ref>Di Nicola Palomba ecco quanto riferisce Masciotta: “Nicola Palomba, nato in Avigliano di Basilicata il 23 ottobre 1746, era prete e giacobino esaltato. Fu spedito Commissario nel Dipartimento della Lucania, e non fece una bella figura allorchè i reazionari di Matera (che facevan parte della giurisdizione cui era preposto) insorsero per fraternizzare con quelli della Calabria militanti a massa sotto le insigne di Ruffo. Era inadatto al posto ambito, che aveva sollecitato nei “clubs” e nel Palazzo Nazionale; ma innanzi al patibolo, ad un funzionario che gli prometteva la grazia se avesse date notizie sulla residenza di altri giacobini ricercati dalla polizia, rispose: Io non compro la vita con l’infamia! Penzolò dalla forca il 14 ottobre 1799”. G. Masciotta, op. cit., p. 430, nota 190.</ref> ''che non conosceva Rotondo'', ma - opportunamente annota Cuoco ''- entusiasta, ed in conseguenza poco saggio, credeva che ei fosse indegno della carica sol perché qualche suo amico lo credeva tale.'' - Cuoco stesso mosse gravi critiche alle modalità con cui la neonata repubblica partenopea gestì la vicenda - ''Un’accusa di tale natura non avrebbe dovuto ammettersi, poiché l’indegnità di taluno potrà far si che il sovrano non lo elegga, ma eletto che l’abbia, per-ché sia deposto prima del tempo stabilito dalla legge, vi è bisogno d’un delitto. Ammessa però una volta l’accusa, conveniva esaminarla; nella repubblica deve essere libera l’accusa, ma punita la calunnia.'' - Cuoco si prodigò anche nel tramandare le ragioni di Prosdocimo Rotondo, riportando la sua difesa e la eco che ebbe presso le autorità repubblicane - ''Io non so se Rotondo fosse reo; so però ch’egli insisteva perché fosse giudicato, so che dimesso dalla carica, pubblicò il conto della sua amministrazione e tutti tacquero. Il presidente allora del Comitato Centrale vedeva in questo affare, in apparenza privato, quanto importasse conservarsi il rispetto alla legge, senza di cui non vi è governo, ed intendeva bene, che una folla di patrioti poteva diventar fazione subito che non fosse più nazione. Ma poco di poi alcuni disperando di farsi amare e rendersi forti con la nazione, vollero adulare la fazione, e non si permise che dell’affare Rotondo più si parlasse. Palomba parti pel Dipartimento del quale era stato nominato Commissario. Gli fu data, è vero, la facoltà di proseguir l’accusa per mezzo dei suoi procuratori; ma non si trattava di dargli una facoltà; era necessario imporgli un’obbligazione. Palomba non avrebbe dovuto partire se prima non adempiva al dovere che gl’imponeva l’accusa. In un governo giusto l’accusatore e nel tempo istesso accusato, e mentre si disputava se Rotondo era degno o no di sedere tra i legislatori, Palomba non aveva diritto di essere eletto Commissario. Dispiacque a Rotondo ed a tutti i buoni un silenzio che sacrificava il governo alla fazione, e la fazione all’individuo”.''
''“L’affaire Rotondo”'' offrì un’ulteriore spunto al Cuoco per criticare le ingenuità e le fragilità della Repubblica Partenopea del 1799. Sottolineò, quindi, i principi di diritto e di giustizia che uno Stato dovrebbe porre alla propria base per potersi definire tale e si produsse in una conclusione amara e rassegnata, come amari e rassegnati furono i sogni e le aspirazioni di quanti avevano creduto in quella esperienza: ''“Prosdocimo Rotondo fu, perciò, vittima prima della Repubblica che non procurò purgano dell’accusa e promosse l’accusatore ad alto ufficio; e poi della reazione monarchica che lo trascinò al patibolo pel solo fatto di essere stato al governo della Repubblica! Il Rotondo fu giustiziato il 30 settembre 1799 nella Piazza del Mercato”''<ref>G. Masciotta, op. cit. Vol. II, p. 184.</ref>.
Cerchiamo, quindi, di esaminare quanto accadde e quali furono le mosse di Prosdocimo Rotondo. Come visto, pubblicò una “Risonanza” per difendersi in cui affermò di neppure conoscere Nicola Palomba e di essere stato ''“vittima della sua credulità e del suo indiscreto zelo”''<ref>V. Cuoco, op. cit., p. 148.</ref>.
Il Palomba continuò con le sue accuse e, per farlo tacere ed accontentarlo nelle sue ambizioni, fu mandato come Commissario del Bradano (Matera). Al Palomba seguì un altro accusatore, il Tenente Rosario Licopoli, che in una “Memoria presentata al dì 7 germinale (27 marzo) al governo provvisorio della deputazione patriottica”, accusò anche lo stesso Presidente della repubblica (Lauberg), Fasulo, Paribelli e Rotondo contro cui produsse 22 capi di accusa. L’accusa di Licopoli fu interamente rigettata per la manifesta insussistenza<ref>V. Cuoco, op. cit., p. 148.</ref>. Il Rotondo, evidentemente disgustato per tutti questi intrighi che tanto stridevano con la purezza e nobiltà delle sue intenzioni, si dimise dall’Assemblea nazionale, ma il Governo il 3 fiorile (22 aprile) 1799, che ben lo apprezzava per i suoi meriti, non accettò che si ritirasse a vita privata e volle valorizzarlo affidandogli l’alto incarico di “Commissario del Sangro” (Lanciano) di cui faceva anche parte il Cantone di Riccia<ref>V. Cuoco, op. cit., p. 148.</ref>.
L’esperienza della Repubblica Partenopea durò soli quattro mesi, ma furono densi di significato e forieri di non sopite tensioni e pulsioni positive. La fragilità su cui poggiava e la cruenta reazione borbonica, che mandò al patibolo le migliori giovani menti del meridione, impedirono a lungo, alle nostre terre, di vivere un risorgi-mento delle coscienze e della società, ma merita di essere ricorda-ta e tramandata, per l’esempio e le idealità che incarnò.
Per completezza, ricordiamo che il “Re borbone”, con l’aiuto del-la flotta e dei soldati inglesi, comandati da Nelson, delle forze russe, guidate dal Souvaroff, delle truppe austriache, dirette dal Meles e dal contingente turco di Acmet, il 19/06/1799, dopo un formidabile assedio al Castel Nuovo, al Castel dell’Ovo ed al Castel Sant’Elmo, co-strinse gli ultimi 500 patrioti resistenti alla capitolazione. Vincenzo Cuoco, amico di Prosdocimo Rotondo e vivente all’epoca di quegli avvenimenti, concluderà in questo modo la narrazione di quella avventura: ''“Si sono tanto ammirati i trecento delle Termopili, perché seppero morire; i nostri fecero anche di più, seppero capitolare coll’inimico e salvarsi; seppero almeno una volta far riconoscere la Repubblica Napolitana"''<ref>V. Cuoco, op. cit., p. 286.</ref>
Per gli arresi nell’Articolo V della capitolazione era stato stipulato: ''“Tutti gli suddetti individui potranno scegliere di imbarcarsi sopra i bastimenti parlamentari, che saranno loro presentati per condursi a Tolone (Francia) o di restare in Napoli senza essere inquietati né essi, né le loro famiglie”''. Sappiamo che non fu così, giacché il 20 giugno fu istituita una Giunta di Stato: un tribunale speciale per i patrioti. Senza pietà e senza giustizia furono mandati al supplizio 120 imputati e furono emesse 12 5 1 condanne diverse. Solo nella sessione del 7 settembre, dietro la requisitoria di Carlo Vanni, la Giunta di Stato decretò la condanna di 80 repubblicani, i quali, dopo aver trascorso il carcere nel Castel Nuovo, furono giustiziati nella Piazza del Mercato a Napoli. Tra questi vi furono quattro patrioti molisani: Prosdocimo Rotondo, di Gambatesa, Gian Leonardo Palomba di Campobasso, Nicola Neri di Acquaviva Collecroce e Carlo Borneo di Guardialfiera<ref>V. Cuoco, op. cit., p. 286.</ref>.
 
 
 
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