Inferno - Canto tredicesimo: differenze tra le versioni

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===La selva dei suicidi - versi 1-30===
[[File:Blake Dante Hell XIII.jpg|thumb|upright=1.4|La scena del XIII canto, immaginata da [[William Blake]]]]
[[Dante]] e [[Publio Virgilio Marone|Virgilio]], attraversato il [[Flegetonte]] grazie all'aiuto del [[centauro]] [[Nesso (mitologia)|Nesso]], incontrato nel precedente canto, si ritrovano in un [[bosco]] tenebroso (l'intero episodio ha un precedente nell'''[[Eneide]]'' virgiliana, al canto III, vv. 22 sgg.). Non ci sono sentieri (vedremo poi che ciò è dovuto alla nascita casuale delle piante e al fatto che il dover farsi strada tra gli sterpi sia parte della pena degli scialacquatori) e Dante evoca il sinistro luogo con una famosa terzina scandita dalla tecnica della "Privatio" -o antitesi- "Non... ma...", anafora che si ripete nei vv. 1-4-7.
{{Citazione|Non fronda verde, ma di color fosco;<br />
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;<br />
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È la selva dei violenti contro se stessi, [[suicidio|suicidi]] e scialacquatori, come preannunciato nello schema dell'Inferno nell'[[Inferno - Canto undicesimo|XI canto]]. Per Dante la violenza contro se stessi è più grave della violenza contro il prossimo, confermando in pieno la visione teologica di [[san Tommaso d'Aquino]]: il comandamento di "amare il prossimo tuo come te stesso" postula prima un amore verso la nostra persona in quanto riflesso della grazia e della grandezza divina.
 
Questa selva richiama l'immagine del ''locus horridus'', caratterizzato da una natura cupa, accidentata, squassata da terribili sconvolgimenti ed animata da paurose e misteriose forze soprannaturali. Nelle letterature classiche ne troviamo testimonianza in [[Euripide]], [[Virgilio]] (''[[Eneide]]'', III, vv. 13-68), [[Ovidio]] e [[Seneca]].<ref>Beatrice Panebianco, Cecilia Pisoni, Loretta Reggiani, Marcello Malpensa, ''Antologia della Divina Commedia'', ed. Zanichelli, 2009, pag. 54</ref>
 
===L'arbusto sanguinante - vv. 31-54===
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Il tronco, adescato dalle dolci parole, non può tacere e spera di non annoiarli se li "invischierà" un po' con i suoi discorsi: si notino due verbi tipicamente mutuati dalla pratica venatoria, passatempo tipico della corte di [[Federico II di Svevia]], come ''adescare'', prendere con l'esca, e ''invischiare'', afferrare con vischio. Il tono della conversazione si alza e diventa ricercato e artificioso, con rime difficili, discorsi intricati e ricchi di figure retoriche come [[ripetizione|ripetizioni]], [[allitterazione|allitterazioni]], [[metafora|metafore]], [[similitudine (figura retorica)|similitudini]], [[ossimoro|ossimori]], ecc.
 
L'anima finalmente si presenta: egli è colui che tenne entrambe le chiavi del cuore di [[Federico II di Svevia|Federico II]] (quella dell'aprire e del chiudere, ovvero del sì e del no, immagine presente anche innel ''[[Libro di Isaia]]'' a proposito di [[Davide|Re Davide]]<ref>"Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide; se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire". (''Libro di Isaia'', 22; 22).</ref>), e che le girò aprendo e chiudendo così soavemente da diventare l'unico partecipe dei segreti del sovrano; compì il suo incarico glorioso con fedeltà, perdendo prima il sonno e poi la vita; ma quella meretrice che non manca mai nelle corti imperiali (dall'"ospizio di Cesare"), cioè l'[[invidia]], mise gli occhi su di lui e infiammò contro di lui tutti gli animi; e questi infiammati infiammarono a loro volta l'Imperatore (si noti la ripetizione di ''infiammò, 'nfiammati, infiammar''), che mutò gli onori in lutti. Il suo animo allora, per spirito di sdegno, credendo di sfuggire lo sdegno del sovrano con la morte (''disdegnoso/disdegno'', altra ripetizione), fece contro di sé ingiustizia sebbene fosse nel giusto (''ingiusto/giusto'', terza ripetizione). Ma giurando sulle nuove radici del suo legno (la sua morte non è avvenuta da molto), egli proclama la sua innocenza, e se qualcuno di loro (dei due poeti) tornasse nel mondo dei vivi, il tronco prega di confortare lassù la sua memoria, ancora abbattuta del colpo che le diede l'invidia.
 
In tutta questa lunga perifrasi il dannato non ha mai pronunciato il suo nome, ma ha lasciato elementi sufficienti per la sua identificazione: si tratta di [[Pier della Vigna]], ministro di Federico II che ebbe una brillante carriera nella corte imperiale, almeno fino al culmine nel [[1246]], quando fu nominato [[protonotaro]] e [[logoteta]] del [[Regno di Sicilia]] ed era di fatto il consigliere più potente e vicino al sovrano. Nel [[1248]], dopo la sconfitta di [[Vittoria (Italia)|Vittoria]], l'Imperatore cominciò a perdere fiducia nel suo consigliere e un anno dopo, forse a causa di un sospetto di complotto, venne arrestato a [[Cremona]] e incarcerato a [[San Miniato al Tedesco]] (o a [[Pisa]]), dove venne accecato con un ferro arroventato; dopodiché si suicidò pare fracassandosi la testa contro il muro della cella. La sua vicenda atroce destò molto scandalo all'epoca e molte storie circa suoi presunti complotti, spesso frutto di voci non vere. In ogni caso la storiografia moderna ha trovato a suo carico un colloquio sospetto con [[Papa Innocenzo IV]] a [[Lione]] e alcuni rilevanti abusi di potere.
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Dopo la parentesi della caccia infernale, la scena torna silenziosa e meditativa: Virgilio indica a Dante il cespuglio dove si era riparato Jacopo e questi lo vede tutto piangente per le numerose ferite riportate durante l'assalto. Esso si lamenta contro Jacopo da Sant'Andrea ("Che t'è giovato di me far schermo? / Che colpa ho io della tua vita rea?", vv. 134-135), poi Virgilio gli chiede di parlare un po' di sé.
 
Il cespuglio prega prima malinconicamente i due pellegrini di raccogliere le sue fronde e metterle ai suoi piedi. Poi inizia a dire che è fiorentino, non nominando la città ma compiendo una lunga perifrasi: dice che era della città che cambiò il primo patrono in [[San Giovanni Battista]], riferendosi alla diffusa leggenda che l'antica [[Florentia]] romana fosse una città dedicata al dio [[Marte (divinità)|Marte]]. Per questo il primo padrone, dio della guerra e della discordia, continua a perseguitarla "con la sua arte", rendendola sempre triste."Per fortuna che almeno resti un frammento di statua colloco al passaggio sull'[[Arno]], altrimenti coloro che la ricostruirono dopo la distruzione di [[Attila]] avrebbero lavorato invano. "Il cespuglio si sta riferendo alla statua che i fiorentini credevano raffigurasse Marte e che si trovava alla testa dell'antico [[Ponte Vecchio]] (ricostruito nel Trecento). Questa statua smozzicata, citata da vari cronisti, era il rimasuglio di un cavallo di una statua equestre della quale nessuno ricordava l'origine. Poiché non si conoscono statue equestri di Marte, gli storici moderni hanno avanzato l'ipotesi che si trattasse forse di un'effigie di [[Totila]], il re degli [[Ostrogoti]], che fu responsabile della distruzione di Firenze nel [[550]] (e non Attila re degli [[Unni]] che Dante ha indicato confondendosi).
 
La presenza di questo "[[palladio (mitologia)|palladio]]" veniva vista come una protezione per la città: nel [[1333]] fu travolto da un'[[alluvione]] e i più pessimisti vi videro un preannuncio della [[peste nera]] ([[1348]]). In ogni caso al tempo di Dante esso esisteva ancora.