Bucoliche: differenze tra le versioni

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Come le altre egloghe di numero pari, l'egloga VIII reca una premessa in cui il poeta introduce il ''canto a gara'' tra Damone e Alfesibeo. Probabilmente l'egloga celebra la fama poetica di [[Gaio Asinio Pollione|Asinio Pollione]], che anche se non viene nominato è sicuramente identificabile dai fatti<ref>A. Cucchiarelli, ''Introduzione e commento'', in Virgilio, Bucoliche, Roma 2012, p. 405.</ref>.
 
Il primo canto è quello di Damone, che dà voce ai pensieri di un infelice amante, anonimo, disperato perché la fanciulla che ama, Nisa, ha preferito Mopso e per questo egli ha intenzione di suicidarsi ("Comincia con me, mio flauto, i versi menalii. Tutto diventi alto mare. addio, boschi! Mi getterò giù dalla vetta di un aereo monte nei flutti: sia questo il mio ultimo dono per te, la mia morte.")<ref>A. Cucchiarelli, ''Introduzione e commento'', in Virgilio, Bucoliche, Roma 2012, p. 121, vv. 57-60</ref>. Nel secondo canto troviamo Alfesibeo, il quale racconta di una donna, anch'essa innominata che, con l'aiuto dell'ancella Amarillide, compie un rito magico per far sì che l'amato Dafni ritorni ("Riportatemi dalla città, miei incantesimi, riportatemi Dafni. Intreccia in tre nodi, Amarillide, i tre colori, intrecciali presto, Amarillide...")<ref>A. Cucchiarelli, ''Introduzione e commento'', in Viriglio, Bucoliche, Roma 2012,p. 123, vv.76-78</ref> Ci sono delle descrizioni pittoresche che sono prese dall'esperienza teocritea; in generale tutta la scena ricorda l'autore greco: l'atrio della casa, l'ancella che porta gli ingredienti, il cane sulla soglia, il fuoco, la cenere e gli altari; ancora Dafni che è fuggito in città. La maga a poco a poco cessa di essere irreale, sovraumana, fittizia e diventa sempre più donna; il suo dolore è profondo e universale, è il dramma dell'amore infelice<ref>''Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII'', p.565.</ref>. L'obiettivo della donna è di far impazzire d'amore Dafni, poiché essendo in città, la sta trascurando. L'incantatrice immagina di rivolgersi al pastore che viene nominato nel ritornello, in quanto ne ha il ritratto innanzi a sé. Cinge la sua immagine tre volte con tre fili di colore diverso, per un totale di nove: tre per ciascuna volta e per ciascun colore. Il rituale termina con lo spargimento delle ceneri nel ruscello vicino l'abitazione della donna, subito dopo sente dei passi sulla soglia: è Dafni, l'incantesimo è riuscito<ref>''Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII'', p. 566.</ref>.
 
Damone canta in prima persona, ma la sua disperazione è diversa da quella espressa da Coridone nella II, piuttosto si avvicina a quella di [[Pasifae]] nella VI e di [[Gaio Cornelio Gallo|Gallo]] nella X; Coridone nella II si consola cercando un nuovo Alessi ("Coridone, Coridone, quale follia ti ha preso! Hai lasciato sull’olmo frondoso le viti potate a metà. Perché almeno non prepari qualcosa che occorre,non intrecci vimini e giunchi flessuosi? Se questo non ti vuole, troverai un altro Alessi.”<ref>Virgilio, ''Bucoliche, Egloga II'', vv. 69-73.</ref> Damone invece arriva alle estreme conseguenze, ossia la morte, come detto prima (vv. 57-60). Quando giunge la notte, il pastore comincia a cantare il suo infelice amore per Nisa: constata di essere stato crudelmente ingannato e si lamenta del fatto che nonostante li abbia invocati, gli déi non lo abbiano aiutato, per questo si appresta a morire. Nisa, che un tempo era legata a Damone, adesso lo disprezza, odia la sua zampogna, le sue caprette e anche la sua lunga barba. Eppure egli ricorda il loro primo incontro quando lei era ancora una bambina: vederla fu amarla, ma questo amore, definito folle, lo ha rovinato. Ora Damone ha capito chi sia Amore: un dio generato sulle pietre dure dei monti o in deserte e selvagge regioni; proprio l'essere nato in un luogo pietroso ha indurito il suo animo. Infatti fu lui a spingere Medea a macchiarsi le mani del sangue dei propri figli. Amore è definito malvagio, così come la madre [[Venere (divinità)|Venere]]; inoltre il pastore annuncia che d'ora in poi l'intero ordine della natura sarà sovvertito e accadranno le cose più assurde (''[[Adynaton|adynata]]''): il lupo fuggirà dalla pecora, i gufi gareggeranno con i cigni... Le sue ultime parole sono dedicate ancora all'amata, dice infatti che la sua morte sarà come l'ultimo dono dell'infelice innamorato<ref>''Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII'' p. 566.</ref>. Il canto dei due pastori è tale da attirare l'attenzione delle giovenche immemori dell'erba, le linci e i fiumi che arrestano il proprio corso; questo passaggio è suggerito dal mito di [[Orfeo]], il cui canto attira le fiere che, come essere umani, sentono l'effetto magico della musica e condividono con il poeta il suo dolore; inoltre le linci fanno parte della fauna cara a [[Bacco]] (vv. 1-5)<ref>''Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII'' p. 565.</ref>.
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Licida incontra per caso Meri, che conduce i capretti al nuovo padrone, un veterano, colui che ha cacciato via Menalca; dal discorso si apprende che purtroppo Menalca non è riuscito ad avere salvi i suoi beni e a nulla gli hanno giovato i carmi. Su Menalca, che è l'autentico protagonista del carme, si è abbattuta la vera catastrofe. Licida per dare sollievo a Menalca, gli ricorda le promesse fatte dai triumviri: in grazia dei suoi canti avrebbe potuto mantenere i suoi campi. Menalca, però, non trova conforto nelle parole di Licida. Egli incarna ora il personaggio di Melibeo della prima ecloga. Ma, mentre questi accettava l'esilio a fronte alta e con tutte le sue conseguenze, rinunciando a vedere per sempre il tetto della sua casa, Menalca invece rimane. Verrà ancora a implorare presso Varo pietà per la sua [[Mantova]].
 
Meri, il servo di Menalca, ora passato ad altro padrone, va "dove mena la via", e la via porta a Mantova, come si comprende dai vv. 27 e 59; ancora tutto sgomento di quel che ha veduto, egli narra che gli sono accadute cose, quali da vivo non avrebbe mai immaginato; un estraneo, come se fosse il padrone, gli ha detto: "Questi campi sono miei; voi, vecchi coloni, andatevene". Sebbene sia un servo, quel campo è anche un poco suo. Deplora che la violenza si sostituisca al diritto e auspica che i coloni romani, da due secoli stanziati nella pianura padana, ne siano cacciati. Non soltanto la [[pianura padana]], ma tutta la repubblica romana è sconvolta dalle guerre civili; l'atto di accusa è contro Varo, ma non risparmia neppure [[Augusto|Ottaviano]]. Licida si stupisce, perché aveva inteso dire che Menalca, grazie ai suoi canti, conservava la terra che si stende da quella parte, ove i colli prendono a declinare in dolce pendio, fino ai canali e ai vecchi faggi ormai scapezzati.
 
I carmi di Menalca erano allora meritatamente famosi, se avevano suscitato l'ammirazione di Pollione e di Varo, governatori della Cisalpina. Ma i canti hanno al momento della guerra la medesima forza delle colombe all'appressarsi dell'aquila. Se da sinistra gracchiando una cornacchia non avesse avvertito Meri di troncare ogni lite, a quest'ora né Meri, né lo stesso Menalca sarebbero ancora in vita (vv. 11-16). Licida si stupisce che sia commesso un tale reato; non pare possibile che Menalca, suo conforto nei canti, sia stato sul punto di essere ucciso insieme a Meri. E chi allora canterebbe le Ninfe, il suolo cosparso d'erbe in fiore e la verde ombra dei fonti? Chi intonerebbe quei canti che Licida stesso ha udito da Menalca, quando si recava da Amarillide, ''communis amica''?
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I temi principali sviluppati nelle Bucoliche possono essere suddivisi in tre categorie: il paesaggio arcadico, il rimpianto del "mondo perduto" e il ritorno alle origini. Il paesaggio appare infatti come un luogo idillico e ideale, in apparente contrasto con la realtà, a sottolineare i valori epicurei tra cui l'[[atarassia]], l'assenza di turbamento che viene ad identificarsi quindi con l'apollinea campagna. Emerge tuttavia un secondo tema all'interno delle dieci [[egloghe]], quello d'un mondo perduto e del contrasto tra la natura e la cultura e il progresso. Infine è possibile ritrovare la ricerca di un ritorno alle origini e il desiderio di una nuova venuta di un'età dell'oro attesa in ogni ceto sociale dopo il lungo secolo di guerra che precede la stesura dell'opera.
 
La '''prima''' delle dieci egloghe non presenta i tipici elementi dialogici, il tutto procede su due monologhi paralleli di tono elevato. Ciascuno dei due pastori (Titiro e Melibeo) persegue la sua visione: il primo dell'esilio, il secondo della libertà, una libertà donata a lui da un dio (deux ex machina) che gli permetterà di restare. Melibeo, all'inizio dell'egloga, ancora turbato per le vicende della sua vita, si ritroverà meravigliato nell'apprendere le sorti del suo interlocutore. L'estraneità di Titiro riguardo al mutamento che tutto intorno avviene è percepibile e lo contrappone a Melibeo. Vi è solo una simmetria, prettamente lessicale che connette,ad esempio, i due discorsi tra di loro: ai vv. 1-5 di Melibeo corrispondono i vv. 6-10 di Titiro è possibile notare tale correlazione.
 
La '''seconda egloga''', primo componimento pastorale dell'autore, è un invito alla campagna. All'interno di esso i due personaggi sono posti in due ambienti opposti, città e campagna. Virgilio mette in luce elementi bucolici che se, nelle altre egloghe appaiono impliciti e propedeutici allo svolgimento artistico, qui ci rendono in grado di ricostruire la scena. Per di più, l'andamento alterato di tutta l'egloga, l'incalzarsi dei sentimenti,l'evolversi dei pensieri, avvicina questo monologo bucolico a uno tragico.
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La '''quinta egloga''' ridiscende nel mondo quotidiano bucolico quasi a cancellare i toni elevati raggiunti nei due precedenti episodi: morte e apoteosi di Dafni. L'interpretazione fu sin dall'antichità sviata dal desiderio di prevedere chi si nascondesse sotto le spoglie di Dafni: sono stati fatti diversi nomi ma chi ha prevalso è stato Giulio Cesare.
 
Nella '''sesta egloga''' Virgilio tenta di comporre un'opera che sia in onore di Alfeno Varo e narrare le guerre civili alle quali Varo aveva partecipato ma, dissuaso da Apollo, ritorna alla bucolica. Più che un racconto autobiografico si può considerare una recusatio a causa delle continue insistenze di Varo che esigeva da lui un poema celebrativo. Con l'ammonimento di Apollo, l'autore cerca di rendere l'omaggio dovuto a Varo: l'egloga è per Gallo, ma la pagina porta il nome di Varo.
 
La '''settima egloga''', ancora una volta una gara di canto, ha come modello Teocrito. I contendenti, Coridone e Tirsi, svolgono ognuno il proprio canto in strofe di quattro esametri, il primo risultando ben più raffinato, il secondo, ricorrendo alle volgarità verrà poi dichiarato perdente e, a giudizio di Dafni, non riesce, seppur abile, pari a Coridone. Giudizi più etici e non altrettanto oggettivi sono quelli formulati dallo stesso Melibeo, cronista dell'intera gara, il quale 'privilegia colui che meglio riesce ad esprimersi nei canti d'amore' <ref>S.V.F. Waite, ''The Contest in Virgil's Seventh Eclogue'', in "CPh" n. 67 (1972), pp. 121-23.</ref>. L'egloga, confrontabile con la terza, nella quale i due personaggi erano posti alla pari, vede la svalutazione di Tirsi, 'poeta di vecchio stile'<ref>P.Wuelfing von Martitz, ''Zum Wettgesang der Hirten in der siebenten Ekloge Vergils'', in "Hermes", n. 98 (1970), pp. 380-82.</ref> qui, Virgilio 'fa vincere Coridone'<ref>L. A. MacKay, ''On two Eclogues of Virgil'', in "Phoenix", n. 15 (1961), pp. 157-58; M. Bettini, ''Corydon, Corydon'' in "SCO", n. 21 (1972), pp. 261-76.</ref>.
 
L''''ottava egloga''', pur essendo una gara di canto, si avvicina più alla quinta che alla terza o alle settima egloga anche per la divisione dei monologhi dei due protagonisti. L'azione si sperde nei rituali magici ma non mancano descrizioni pittoresche dal modello teocriteo. Tutta la scena, infatti, ricorda Teocrito, dall'atrio della casa all'ancella o al cane sulla soglia. Pollione, benché non sia espressamente nominato, è identificabile dai fatti (l'egloga si pensa recasse probabilmente il nome di Pollione, in testa, come dedica. Virgilio gli attribuisce il merito di averlo indotto a scrivere poesie stil-novistiche. L'esordio, carico di solennità, ha sollevato dubbi di autenticità<ref>P.Levi, ''The Dedication to Pollio in Virgil's Eighth Eclogue'', in "Hermes", n. 94 (1966), pp. 73-79.</ref>.
 
La '''nona egloga''' lascia scorgere i veri gesti dei personaggi: il racconto pastorale si volge al termine. Su Menalca si è abbattuta la catastrofe; egli ora incarna il personaggio di Melibeo ma al contrario di quest'ultimo, che accettava l'esilio rinunciando ai suoi possedimenti, Menalca, invece, rimane. I pastori spariscono dalla scena bucolica e solo la funzione del canto potrà richiamarli alla vita; l'uomo diventa mito e il mito si attua in poesia: da una parte il desiderio di Licida, dall'altra il canto di Menalca. (G. Stegen, La neuvième Bucolique de Virgile, ivi 21,1953,331-42)
 
La '''decima egloga''', che Stegen<ref>G. Stegen, ''Etude sur cinq bttcoliques de Virgile'', Namur 1955.</ref> divide in tre parti, consta di un proemio, un racconto e un congedo. L' egloga, dedicata a Gallo, trova in quest'ultimo il suo protagonista di cui Virgilio ne canta gli affanni d'amore. La vicenda ha un fondo di verità: Gallo in quegli anni era innamorato della liberta Volumnia nota anche come Citeride ma alla quale il poeta applicò il nome di Licoride. La ragazza tuttavia non ricambiò Gallo dello stesso amor, bensì fuggì per seguire un militare sul Reno. Questa fuga sarà il motivo del dolore di Gallo. Tutto il passo ha come modello Teocrito per la scomparsa di Dafni.