Film come arte: differenze tra le versioni

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Quest'opera mette in evidenza l'appartenenza dell'autore alla scuola della [[Gestalt]],precisamente nel suo aspetto Kantiano, secondo il quale le percezioni visive più semplici dell'uomo non registrano in modo meccanico la realtà, ma vengono rielaborate dall'organo ricettivo creativamente, quindi il mezzo, in questo caso l'[[occhio]] umano, non permette una mera riproduzione del reale, ma aggiunge un qualcosa in più, ordina il materiale ricevuto secondo quelle che sono le possibilità del mezzo stesso.
L'autore focalizza la sua attenzione sul mezzo di riproduzione, su come esso possa dare una forma specifica alla realtà che deve essere rappresentata, non solo scientificamente, ma anche artisticamente. Per comprovare la sua teoria, detta appunto ''Materialtheorie'' egli fa del [[cinema]] (il cinema di riferimento è quello ''[[cinema muto|muto]]'') un [[esperimento]] di verifica, un test critico, poiché anch'esso dispone di un mezzo, la [[macchina da presa]], ed a questo punto l'interrogativo da porsi è questo: il cinema consente una riproduzione meccanica della realtà o può considerarsi arte,in quanto da una forma al reale preesistente?
La seconda osservazione è la tesi che l'autore si propone di dimostrare. In primo luogo, l'autore confuta la prima osservazione e lo fa attraverso la descrizione e l'analisi del mezzo cinematografico, per mostrare come esso risulti distante dalla realtà. Il cinema infatti non può essere riproduzione passiva della realtà in quanto propone degli elementi differenzianti rispetto alla percezione dell'occhio rivolto alla natura, che coincidono con le mancanze stesse della «camera», con dei deficits che non può colmare in quanto macchina, di cui alcuni esempi sono:
 
* la superficie bidimensionale su cui viene proiettato il film (come riprodurre un solido su una superficie piana?);
* il problema della riduzione di profondità;
* la mancanza del colore e il bianco e il nero;
* i limiti dell'immagine cinematografica, rilegata in un quadro rettangolare, facendo attenzione anche alla distanza dell'oggetto al fine di creare un'immagine proporzionalmente coerente;
* l'assenza di continuità dello spazio e del tempo;
* la separazione della vista dagli altri organi di senso a cui essa è collegata nella realtà;
 
In secondo luogo, l'autore ritiene che sia compito del regista rendere queste manchevolezze delle peculiarità del mezzo cinematografico, sfruttarle artisticamente per rendere originale e interessante una scena di un film, un oggetto rappresentato, che nella realtà quotidiana non verrebbe affatto notato. Quindi è proprio nella differenza tra rappresentazione e realtà che sta l'[[arte]] del cinema, nel caricare l'oggetto di un'interpretazione simbolica, inquadrandolo da un punto di vista insolito, attirando l'attenzione sulle sue qualità formali.
 
Nel prosieguo della raccolta Arnheim affronta l'evoluzione del cinema, il passaggio dal muto e dalla macchina da cinepresa fissa al sonoro e alla mobilità del negativo, fino a raggiungere la soglia del cinema [[stereoscopico]], o più semplicemente 3d. Nella sua analisi del progresso dell'arte cinematografica egli mette in rilievo l'importanza del [[moto (fisica)|movimento]], o meglio dell'[[illusione]] del movimento prodotta nei confronti dello spettatore attraverso lo spostamento della «camera» poiché, come l'autore stesso afferma:
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Tuttavia, la necessità del cinema di soddisfare lo spettatore nella sua esigenza di realtà, l'introduzione del parlato e dei colori, oltre ad un miglioramento tecnico dei mezzi di riproduzione, ha comportato un avvicinamento sempre maggiore a quella natura delle cose da cui invece il cinema, secondo l'autore, avrebbe dovuto tenersi lontano al fine di preservarsi come arte. Si ha così la creazione di un cinema ''[[ibrido]]'' che sovrappone all'immagine il parlato, depotenziando entrambi i due mezzi di espressione poiché, a differenza del cinema muto, in cui la mancanza della parola rendeva ogni gesto, ogni movimento pregnante per comprendere l'essenza della [[scena (cinema)|scena]], l'attenzione dello spettatore deve focalizzarsi su due piani diversi, privilegiando o l'uno o l'altro, e quindi riducendo le potenzialità creative di entrambi, in mancanza di una forza concorde.
 
Arnheim non accoglie negativamente il progresso tecnologico in sé, ad esempio vede nella [[televisione]] un «mezzo di trasporto culturale», una possibilità di conoscenza del mondo e di arricchimento inaudita: la capacità, secondo l'autore, sta nel riuscire a dominare questo mezzo senza esserne travolti, poiché appunto guardare la TV non coincide con capire e conoscere universalmente a scapito del linguaggio parlato, scritto e del pensiero, non deve sostituire l'interazione fisica degli uomini per rendere lo [[spettatore]]:
 
«[un] malinconico eremita, chiuso nella sua stanza, a centinaia di chilometri dal luogo in cui gli par di vivere realmente [...]»<ref name="Arnheim1960" />