Adozione nell'antica Roma: differenze tra le versioni

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Nel [[diritto romano]], il potere di dare un figlio in adozione, sancito fin dal tempo delle [[leggi delle XII tavole]], spettava al ''pater familias''. Il figlio che si dava in adozione era solitamente il maggiore, o comunque il migliore per salute e virtù: l'adozione per le famiglie prive di figli comportava grandi spese per il mantenimento del figlio che si adottava, e dunque si desiderava prendere con sé solo giovani che avrebbero potuto raggiungere ottimi risultati.
 
L'adozione comportava che il figlio adottivo guadagnasse lo stesso ''status'' sociale del ''pater familias'' sotto la cui autorità andava a ricadere: un [[plebeo]] adottato da un [[patrizio (storia romana)|patrizio]] diveniva anch'egli patrizio; viceversa, un patrizio adottato da un plebeo, diveniva plebeo e poteva accedere alle magistrature e agli incarichi riservati alla plebe. L'adozione di un patrizio da parte di un plebeo, che comportava la ''transitio ad plebem'', ovvero il passaggio allo stato plebeo di chi veniva adottato, doveva essere approvata dal [[pontefice massimo (storia romana)|pontefice massimo]]: è il caso della ''transitio ad plebem'' di [[Publio Clodio Pulcro]], che fu adottato dal senatore plebeo Publio Fonteio.
 
Talvolta il ''pater familias'' che dava in adozione il proprio figlio poteva ricevere delle somme di denaro quale indennizzo; colui che veniva adottato, prendeva il nome del padre adottivo, cui si aggiungeva un ''[[cognomen]]'' costruito con il ''[[nomen]]'' del padre naturale e il suffisso ''-anus''. [[Augusto|Gaio Ottavio Turino]], adottato da [[Gaio Giulio Cesare]], divenne infatti Gaio Giulio Cesare Ottaviano. L'adozione non era un fatto segreto né biasimato, e non comportava un totale allontanamento del figlio adottivo dalla sua famiglia d'origine; al contrario, l'adozione serviva spesso a costruire salde alleanze politiche tra due famiglie, che potevano guadagnare così una notevole influenza.