Battaglia di Adua: differenze tra le versioni

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La sera tra il [[28 febbraio|28]] e il [[29 febbraio]], Baratieri riunì di nuovo i suoi collaboratori per metterli al corrente delle sue decisioni: l'esercito italiano non avrebbe attaccato direttamente le posizioni etiopiche, ritenute troppo salde, ma sarebbe avanzato con il favore della notte per occupare una serie di colline più vicine allo schieramento nemico; in questo modo, Baratieri avrebbe obbligato Menelik o ad accettare il combattimento attaccando le truppe italiane schierate in posizione più favorevole, o a cedere il campo e ritirarsi. Le truppe del Corpo di Spedizione italiano vennero quindi divise in quattro brigate, affidate ai quattro generali: Dabormida avrebbe guidato l'ala destra, con il compito di attestarsi sul colle di Rebbì Ariennì, Albertone avrebbe guidato l'ala sinistra, incaricata di occupare il colle Chidanè Merèt, Arimondi avrebbe tenuto il centro, attestandosi parzialmente sullo stesso colle Rebbì Ariennì in posizione leggermente più arretrata, mentre Ellena avrebbe guidato la riserva, schierata dietro Arimondi<ref>Sandro Matteoni, ''Le grandi battaglie'', La biblioteca di Repubblica, 2005, ISBN non disponibile, p. 579</ref>. Nelle intenzioni di Baratieri, le varie brigate sarebbero state in grado di garantirsi appoggio reciproco, spazzando via qualsiasi attacco nemico con un fuoco incrociato<ref>David L. Lewis, ''The race to Fashoda: European colonialism and African resistance in the scramble for Africa'', London, Bloomsbury, 1988, ISBN 0-7475-0113-0, p. 117</ref>.
 
In totale, gli italiani mettevano in campo 550 ufficiali e 10.550 soldati nazionali, e 6.700 soldati indigeni (gli [[ascari]]<ref>Dal termine [[lingua araba|arabo]] ''ʿaskar'', "soldato"</ref>), per complessivi 17.800 uomini con 56 pezzi d'artiglieria. A parte poche truppe "scelte" (come i bersaglieri e gli alpini), la maggioranza dei reparti italiani era composto da militari di leva, sorteggiati dai loro reggimenti in Italia per prestare servizio in Africa (quando non vi erano inviati come punizione); composti da uomini di varia provenienza, i reparti mancavano quasi totalmente di spirito di corpo o di esperienza bellica, oltre che di un addestramento adeguato all'ambiente in cui si trovavano ad operare<ref>Chris Prouty, ''Empress Taytu and Menilek II'', Trenton, The Red Sea Press, 1986, ISBN 0-932415-11-3, p. 155</ref>. L'equipaggiamento era di bassa qualità, soprattutto per quanto riguardava le scarpe, mentre i reparti italiani, per esigenze di uniformità di munizionamento con i reparti indigeni, erano stati riequipaggiati con il [[fucile]] [[Vetterli-Vitali Mod. 1870/87]], più arretrato del [[Carcano Mod. 189191]] con il quale si erano addestrati in patria<ref>Sandro Matteoni, ''Le grandi battaglie'', La biblioteca di Repubblica, 2005, ISBN non disponibile, p. 578</ref>. Le unità di ascari erano di valore discontinuo: i reparti reclutati in Eritrea erano considerati i migliori, mentre quelli del [[Tigrè]], regione occupata da poco, erano ritenuti poco affidabili.
 
Nonostante la regione di Adua fosse stata occupata dagli italiani fin dall'[[aprile]] del [[1895]], Baratieri non disponeva di una mappa affidabile della zona; ai comandanti delle brigate venne dato uno schizzo realizzato a mano libera delle posizioni da occupare, molto sommario e ricco di imprecisioni. La mancanza di reparti di cavalleria rese impossibile una ricognizione preliminare del campo di battaglia.
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Secondo le informazioni ricevute, Baratieri valutava la forza dell'esercito etiope tra i 30.000 e i 40.000 uomini, demoralizzati dalle malattie e dalla penuria di viveri<ref>Sandro Matteoni, ''op. cit.'', p. 579</ref>; le truppe di Menelik invece ammontavano tra i 100.000 e i 120.000 uomini<ref>Vi era anche un certo numero di servitori non combattenti, il cui ammontare non è noto.</ref>, di cui circa 80.000 dotati di un qualche tipo di arma da fuoco. L'esercito etiope era ancora basato su un sistema semi-[[feudalesimo|feudale]]: tra gli obblighi dei vari sovrani locali (i ''[[ras]]'') nei confronti dell'imperatore vi era quello di presentarsi in armi con i propri vassalli in caso di guerra. Non vi era un'organizzazione militare formale, ma vari reparti autonomi posti al comando del proprio sovrano; tra i comandanti degni di nota si annoveravano, oltre allo stesso Menelik, l'imperatrice [[Taytu Betul]], [[Ras Wale]], [[Ras Mengesha Atikem]], [[Ras Mangascià|Ras Mengesha Yohannes]], [[Ras Alula Engida]], [[Ras Mikael di Wollo]], [[Ras Mekonnen Welde Mikaél]], [[Fitawrari Gebeyyehu]] e il [[Negus Tekle Haymanot]] di [[Gojjam]].
 
I guerrieri etiopici erano ancora armati con un gran numero di [[arma bianca|armi bianche]] (principalmente lance e spade), ma un numero considerevole era dotato anche di armi da fuoco, che andavano dai moderni [[Remington Arms|Remington]] e [[Vetterli-Vitali Mod. 1870]], a vecchi fucili ad [[avancarica]] o addirittura [[Fucile#Fucile a miccia|a miccia]] risalenti a due secoli prima<ref>Sandro Matteoni, ''Le grandi battaglie'', cit., p. 585</ref>; la maggior parte delle armi da fuoco veniva dalla [[Impero russo|Russia]] (l'unico governo europeo a parteggiare esplicitamente per gli etiopici), dalla [[Francia]] e dall'Italia stessa. Erano inoltre disponibili un certo numero di cannoni a tiro rapido [[Hotchkiss]] e qualche [[mitragliatrice]]; a differenza degli italiani, Menelik poteva disporre di numerosi reparti di cavalleria, i migliori dei quali erano quelli composti da guerrieri [[Oromo]].
 
Gli etiopici non disponevano di un vero e proprio servizio logistico, e la principale fonte di viveri e vettovaglie era costituita dai contadini della regione dove l'esercito si trovava. Dopo venti giorni trascorsi nella conca di Adua, l'esercito etiope aveva consumato quasi tutte le risorse della regione, e nel suo accampamento si stavano incominciando a diffondere le malattie. Conscio di questa situazione, Menelik aveva cominciato a progettare un assalto in massa contro il campo italiano per il [[2 marzo]] seguente, prima che il suo esercito si indebolisse troppo; la manovra italiana anticipò le intenzioni del negus.