Bucoliche: differenze tra le versioni

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Questo componimento si rifà all'Idillio XI di [[Teocrito]], in cui il Ciclope [[Polifemo]] si strugge d'amore per Galatea, ninfa del mare, che non ricambia il suo amore. I toni dei due componimenti sono, però, completamente differenti: mentre l'Idillio teocriteo è sviluppato in toni comici, scaturiti da una delicatezza che risulta piuttosto inappropriata per Polifemo, l'Egloga virgiliana mantiene un tono disilluso e angosciato.
 
= =Egloga III ==
La ''terza egloga'' è una gara di canto tra due pastori, Dameta e Menalca. La sceneggiatura (divisa in cinque parti: contrasto pastorale, sfida, proclamazione della gara, canto amebeo e giudizio) e la scenografia (pascoli e greggi) fanno di questo carme un vero "teatro bucolico"<ref>Virgilio, Le Bucoliche, a cura di F. Della Corte, Milano, Mondadori, 1952, p. 47.</ref>. Menalca vede Dameta mentre custodisce il bestiame, che certamente non può essere suo; il bestiame è di Egone che se ne è andato ed ha lasciato Dameta da solo. Menalca si trova a dover compiangere il bestiame e così facendo Dameta, risentito, ricambia l'ingiuria. I due pastori continuano ad offendersi citando questioni passate fin quando Dameta provoca il compagno ad uan gara amebea (alternata, in cui i due si alternano a recitare versi). Fissata la posta: una vitella, Menalca svela le sue condizioni familiarie e offre una posta di valore maggiore: due tazze di faggio. Dameta accetta la posta e contrappone due tazze aventi le anse circondate di acanto. Unico uditore e guidice sarà Palemone, che appare come un deus ex machina; egli fissa le norme e la gara comincia. Le dodici coppie di epigrammi esametrici, mettono in scena "dodici bozzetti"<ref>Virgilio, Le Bucoliche, a cura di F. Della Corte, Milano, Mondadori, 1952, p. 49.</ref>. di valore prettamenre pittorico: si ha l'impressione di essere in una una galleria, dove i quadri che popolano le pareti è come se ti parlassero. il momento dialogico cessa con la sida; i temi toccati riguardano la vita pastorale, l'amore e la poesia. Palemone dichiara pari la gara e ormai «sat prata biberunt»<ref>v. 111.</ref> e bisogna chiudere la tenzone poetica.
 
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Damone canta in prima persona, ma la sua disperazione è diversa da quella espressa da Coridone nella II, piuttosto si avvicina a quella di [[Pasifae]] nella VI e di [[Gaio Cornelio Gallo|Gallo]] nella X; Coridone nella II si consola cercando un nuovo Alessi ("Coridone, Coridone, quale follia ti ha preso! Hai lasciato sull’olmo frondoso le viti potate a metà. Perché almeno non prepari qualcosa che occorre,non intrecci vimini e giunchi flessuosi? Se questo non ti vuole, troverai un altro Alessi.” <ref> Virgilio, ''Bucoliche, Egloga II'', vv. 69-73.</ref> Damone invece arriva alle estreme conseguenze, ossia la morte, come detto prima (vv. 57-60). Quando giunge la notte, il pastore comincia a cantare il suo infelice amore per Nisa: constata di essere stato crudelmente ingannato e si lamenta del fatto che nonostante li abbia invocati, gli déi non lo abbiano aiutato, per questo si appresta a morire. Nisa, che un tempo era legata a Damone, adesso lo disprezza, odia la sua zampogna, le sue caprette e anche la sua lunga barba. Eppure egli ricorda il loro primo incontro quando lei era ancora una bambina: vederla fu amarla, ma questo amore, definito folle, lo ha rovinato. Ora Damone ha capito chi sia Amore: un dio generato sulle pietre dure dei monti o in deserte e selvagge regioni; proprio l'essere nato in un luogo pietroso ha indurito il suo animo. Infatti fu lui a spingere Medea a macchiarsi le mani del sangue dei propri figli. Amore è definito malvagio, così come la madre [[Venere (divinità)|Venere]]; inoltre il pastore annuncia che d'ora in poi l'intero ordine della natura sarà sovvertito e accadranno le cose più assurde (''[[Adynaton|adynata]]''): il lupo fuggirà dalla pecora, i gufi gareggeranno con i cigni... Le sue ultime parole sono dedicate ancora all'amata, dice infatti che la sua morte sarà come l'ultimo dono dell'infelice innamorato <ref> ''Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII'' p. 566.</ref>. Il canto dei due pastori è tale da attirare l'attenzione delle giovenche immemori dell'erba, le linci e i fiumi che arrestano il proprio corso; questo passaggio è suggerito dal mito di [[Orfeo]], il cui canto attira le fiere che, come essere umani, sentono l'effetto magico della musica e condividono con il poeta il suo dolore; inoltre le linci fanno parte della fauna cara a [[Bacco]] (vv. 1-5)<ref> ''Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII'' p. 565.</ref>.
 
==Egloga IX==
 
Licida incontra per caso Meri, che conduce i capretti al nuovo padrone, un veterano, colui che ha cacciato via Menalca; dal discorso si apprende che purtroppo Menalca non è riuscito ad avere salvi i suoi beni e a nulla gli hanno giovato i carmi. Su Menalca, che è l'autentico protagonista del carme, si è abbattuta la vera catastrofe. Licida per dare sollievo a Menalca, gli ricorda le promesse fatte dai triumviri: in grazia dei suoi canti avrebbe potuto mantenere i suoi campi. Menalca, però, non trova conforto nelle parole di Licida. Egli incarna ora il personaggio di Melibeo della prima ecloga. Ma, mentre questi accettava l'esilio a fronte alta e con tutte le sue conseguenze, rinunciando a vedere per sempre il tetto della sua casa, Menalca invece rimane. Verrà ancora a implorare presso Varo pietà per la sua [[Mantova]].
 
Meri, il servo di Menalca, ora passato ad altro padrone, va "dove mena la via", e la via porta a Mantova, come si comprende dai vv. 27 e 59; ancora tutto sgomento di quel che ha veduto, egli narra che gli sono accadute cose, quali da vivo non avrebbe mai immaginato; un estraneo,come se fosse il padrone, gli ha detto: "Questi campi sono miei; voi, vecchi coloni, andatevene". Sebbene sia un servo, quel campo è anche un poco suo. Deplora che la violenza si sostituisca al diritto e auspica che i coloni romani, da due secoli stanziati nella pianura padana, ne siano cacciati. Non soltanto la [[pianura padana]], ma tutta la repubblica romana è sconvolta dalle guerre civili; l'atto di accusa è contro Varo, ma non risparmia neppure [[Ottaviano]]. Licida si stupisce, perché aveva inteso dire che Menalca, grazie ai suoi canti, conservava la terra che si stende da quella parte, ove i colli prendono a declinare in dolce pendio, fino ai canali e ai vecchi faggi ormai scapezzati.
 
I carmi di Menalca erano allora meritatamente famosi, se avevano suscitato l'ammirazione di Pollione e di Varo, governatori della Cisalpina. Ma i canti hanno al momento della guerra la medesima forza delle colombe all'appressarsi dell'aquila. Se da sinistra gracchiando una cornacchia non avesse avvertito Meri di troncare ogni lite, a quest'ora né Meri, né lo stesso Menalca sarebbero ancora in vita (vv. 11-16). Licida si stupisce che sia commesso un tale reato; non pare possibile che Menalca, suo conforto nei canti, sia stato sul punto di essere ucciso insieme a Meri. E chi allora canterebbe le Ninfe, il suolo cosparso d'erbe in fiore e la verde ombra dei fonti? Chi intonerebbe quei canti che Licida stesso ha udito da Menalca, quando si recava da Amarillide, ''communis amica''?
Meri preferisce ricordare altri versi, non ancora rifiniti, che Menalca cantava per Varo, il quale aveva la facoltà di assegnare o no i territori di Mantova ai veterani. [[Cremona]] fu punita con la confisca poiché aveva parteggiato per [[Bruto]] e [[Cassio]] contro i triumviri; non bastando i territori di Cremona, fu aggiunta - per disposizione di Varo - anche Mantova, che dista da Cremona poche miglia. Licida prega Meri perché gli reciti qualche altro verso di Menalca. Anche Licida, per volere delle Muse, aveva composto versi; sebbene i pastori lo dicano poeta, lui non ci crede.
 
Tutto il passo è ricalcato su un'arguta scena dell'Idillio settimo di [[Teocrito]]. Licida non ritiene di essere ancora giunto alla pari con i due maggiori esempi e modelli della poesia neoterica: Rufo e Cinna. È come un'oca a confronto dei canori cigni. Meri si sforza di ricordare il canto: una bella imitazione dell'idillio undicesimo di Teocrito, dove [[Polifemo]] supplica [[Galatea]], comparsa sulle onde del mare, perché si rechi presso di lui, in una situazione molto simile a quella della seconda ecloga, dove Coridone pastore invita Alessi cittadino; qui, invece della campagna contro la città, c'è la terra contro il mare, la quiete dell'una contro il turbamento dell'altro (vv. 37-43).
 
Nei versi successivi Licida chiede se Meri ancora ricordi quello che udì cantare in una notte tranquilla, di cui ha in mente l'aria, ma non le parole. Meri le sapeva, ma l'età gli aveva portato via con tutto il resto anche la voglia di cantare. Gli sono sparite dalla mente tante canzoni; la stessa voce gli è venuta meno <ref>M. Johnston, ''Vergil, Ecl. IX 53-54'', in "Classical Weekly", 24 (1931), p. 103.</ref>. Per dare parvenza bucolica all'intermezzo epico-lirico (vv. 46-55), il canto s'immagina rivolto a un pastore, e il nome Dafni suona qui, come quello di Titiro e di altri, a indicare un personaggio bucolico, che con intenti agricoli, cerca di trarre pronostici sul raccolto: da quando brilla l'astro di Cesare, non c'è più da indagare l'avvenire, né da temere mali futuri.
 
La cometa, che era apparsa dopo il [[cesaricidio]], fu creduta la prova migliore dell'assunzione di Cesare tra gli dei, di quel Cesare che si considerava nipote di [[Venere]] (vv. 44-55). Allora Licida rimprovera Meri, che, a forza di scuse, sta eludendo il suo desiderio di udire ancora il canto di Menalca. Ora la distesa delle acque (sono i laghi che circondano Mantova) e i venti si sono quetati. I due pastori sono a mezza strada; si vede apparire il sepolcro di Bianore. Qui, dove la campagna è di una dolcezza infinita <ref>J. Van Dooren, ''Virgile et l'ombre verte'', Humanitas, 5 (1930), pp. 228-230.</ref> Meri è invitato a cantare dal compagno: "deponi i capretti, giungeremo ugualmente in città". Ma il vecchio sconsiglia il giovane amico; non deve insistere, bisogna fare quello che urge; quando Menalca stesso sarà qui, allora si canterà meglio.
 
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