Utente:Alessia Verteramo/Sandbox

Critiche alle teorie sull'equivalenza

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Pym sulle teorie di Mary Snell-Hornby

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Mary Snell-Hornby con il suo "approccio integrato" cerca di riunire e sistematizzare le teorie proposte nel tempo, escludendo però da queste il concetto di equivalenza, considerata inadatta come concetto di base nella teoria della traduzione. A detta di Pym, uno degli aspetti più notevoli di questo approccio era proprio il numero di elementi esclusi: Snell-Hornby riduce gli innumerevoli e notevoli studi portati avanti negli anni ad una semplice e inconcludente "accesa discussione" sull'opposizione parola/senso. La cosa interessante, tuttavia, è il tentativo portato avanti di evidenziare dove il paradigma dell'equivalenza non avesse funzionato, cosa che Toury o Vermeer, ad esempio, non avevano fatto.

Snell-Hornby riconosce che tale paradigma aveva originariamente superato il conflitto tra strategie di traduzione "fedeli" e "libere" e che, nel corso degli anni '70, il termine inglese "equivalenza" era diventato sempre più approssimativo e vago fino al punto di completa insignificanza, mentre la sua controparte tedesca era sempre più statica e unidimensionale. Parla poi di un'illusione di simmetria tra lingue generata dal concetto di equivalenza che distorce i problemi di base della traduzione, portando come esempio la mancanza di equivalenza tra il termine "equivalence” e quello tedesco “Äquivalenz”.

Per Pym emergono diversi problemi: primo, se il termine "equivalenza" fosse davvero così polisemico (Snell-Hornby sosteneva infatti di aver individuato cinquantotto diversi tipi negli usi tedeschi del termine), come poteva essere così sicura che questo costituisse un'illusione di simmetria tra le lingue? Pym dice che l'illusione sembra essere solo la sua, e si chiede poi da dove Snell-Hornby abbia preso questa 'idea, considerando teorie come quella di Seleskovitch, dove si sostiene che l'equivalenza funzionale sia tanto più facile da raggiungere quanto più le lingue siano diverse, o il concetto di equivalenza dinamica di Nida, che presuppone sostanziale asimmetria linguistica, o ancora, la proposta di Koller, che si basava sullo studio dell'equivalenza sul piano della parole, lasciando alla linguistica comparata tutta la questione delle simmetrie o dissimmetrie tra langues. Sembra dunque che Snell-Hornby abbia presentato una gamma limitata di utilizzi, proiettando su questi un'illusione creata da lei stessa pensando poi che tutti gli altri soffrissero della stessa allucinazione.

Sebbene le critiche degli anni '80 abbiano aperto un nuovo terreno, sembra che queste abbiano fatto poco per comprendere la logica del paradigma precedente: un conto è sostenere che l'equivalenza sostanziale è un'illusione, un altro è capire perché qualcuno dovrebbe essere disposto a crederci. Quando Snell-Hornby parla di "illusione dell'equivalenza", lo fa proprio per suggerire che essa è illusoria e che quindi se ne dovrebbe fare a meno. Un approccio più comprensivo consisterebbe nell'incorporare tali illusioni in qualcosa di simile alla definizione di Gutt di una traduzione diretta come un enunciato che crea una presunzione di completa somiglianza interpretativa. Piuttosto che costringere qualsiasi traduttore a diventare un "cercatore di equivalenze", come scriveva Mossop, occorrerebbe riconoscere ma non necessariamente giustificare un'illusione che permette alle traduzioni - e ai traduttori - di funzionare.[1]

Bibliografia

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  1. ^ Anthony Pym, European Translation Studies, Une science qui dérange, and Why Equivalence Needn’t Be a Dirty Word, in TTR : traduction, terminologie, rédaction, vol. 8, n. 1, 23 febbraio 2007, pp. 153–176, DOI:10.7202/037200ar. URL consultato il 20 dicembre 2022.