La Teoria dello skopos

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Uno dei più importanti approcci teoretici è la Teoria dello skopos, sviluppata in Germania da Hans Vermeer nel 1978, il quale ha esposto la sua teoria nell’articolo "Ein Rahmen für eine allgemeine Translationstheorie". Nel 1984, la teoria viene presentata nel libro “Foundations for a General Theory of Translation”, scritto da Vermeer e dalla linguista Katharina Reiss.

Gli studiosi che si sono distinti maggiormente nello sviluppo di questo approccio sono:

  • Katharina Reiss, la quale ha posto le basi per l’approccio funzionalista col suo Modello funzionale nel 1971
  • Hans Vermeer e la sua Teoria dello skopos del 1978
  • Christiane Nord, che con la sua Teoria che unisce funzione e lealtà (1997), presenta un modello funzionale più dettagliato e opera una distinzione tra due tipi di testo tradotto: la traduzione documentaria e la traduzione strumentale.[1]

Definizione

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La parola “skopos” deriva dal greco e corrisponde al significato italiano “scopo/obiettivo”. La teoria si concentra quindi sullo scopo della traduzione, che determina i metodi e le strategie da impiegare per produrre un risultato funzionalmente adeguato. Questo risultato è il testo d’arrivo, che Vermeer chiama il “translatum”. Pertanto, per il traduttore è fondamentale sapere perché un testo deve essere tradotto e quale sarà la funzione del testo d’arrivo. Lo skopos è definito dalla commissione e, se necessario, adattato dal traduttore, negoziato tra il committente e il traduttore.[1]

Anton Popovič

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Il teorico slovacco Anton Popovič (1933-1984) ha suggerito che gli studi sulla traduzione dovrebbero essere strettamente collegati alla semiotica della comunicazione e devono rimanere una pratica interdisciplinare aperta. Nel suo saggio "Aspetti del metatesto" ha inoltre sostenuto che è possibile misurare la distanza testuale che un metatesto (modello tradotto) ha percorso dal prototesto (obiettivo da tradurre) studiando la variazione che si verifica nel metatesto.[2]

Popovič distingue tra quattro tipi di equivalenza: linguistica, paradigmatica, stilistica e testuale (o sintagmatica).

L’equivalenza linguistica viene definita come “l’omogeneità di elementi a livello linguistico (fonetica, morfologia e sintassi) tra il testo originale e la traduzione” (Popovič 1976: 6), puntando sulla correttezza linguistica.[3]

L’equivalenza paradigmatica è “l’omogeneità degli elementi dell’asse paradigmatico a livello stilistico”(Popovič 1976: 6), dove “asse paradigmatico” consiste in un sistema di tutti i possibili elementi espressivi che un testo può contenere.[3]

L’equivalenza stilistica è “l’omogeneità funzionale degli elementi nel testo di partenza e in quello di arrivo, che punta ad una identità espressiva mantenendo invariato il significato” (Popovič 1976: 6). Secondo Popovič, questo tipo di equivalenza cerca di mantenere il contenuto semantico base, riportando allo stesso tempo nella traduzione gli stessi elementi espressivi del testo di partenza.[3]

L’equivalenza testuale (o sintagmatica) è “l’omogeneità degli elementi sull’asse sintagmatico” (Popovič 1976: 6), ossia l’equivalenza a livello di struttura, aspetto e forma.[3]

  1. ^ a b Jeremy Munday, Introducing translation studies : theories and applications, 3rd ed, Routledge, 2012, ISBN 978-0-415-58486-9, OCLC 757147295. URL consultato il 5 gennaio 2023.
  2. ^ (EN) Mukesh Williams, Theorizing About Translation and Translation Studies, su www.semanticscholar.org, 2012. URL consultato il 5 gennaio 2023.
  3. ^ a b c d Dictionary for the analysis of literary translation | WorldCat.org, su www.worldcat.org. URL consultato il 5 gennaio 2023.

Bibliografia

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  • Yves Gambier e Luca van Doorslaer, Handbook of Translation Studies, John Benjamins Publishing Co., 2012.
  • Anton Popovič, Dictionary for the analysis of literary translation, University of Alberta Press, 1976.

Voci correlate

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