Utente:Buzzanca Silvio/Sandbox

Questa non è una ricerca storica su Montagnareale. Quelle le scrivono gli storici che fanno questo di lavoro e usano gli strumenti giusti e il linguaggio adatto per ricostruire le vicende del passato. Questo è "un cuntu", un racconto, una narrazione, una fiaba. Come quelle che mi raccontava mio nonno Saro Natoli la sera in cucina, dopo cena. Quando la tv non c'era e la radio si accendeva solo per ascoltare le notizie. Storie che iniziavano sempre con la frase "quando Gesù tornò sulla terra", dove i soldi si chiamavano onze e tarì e la parabola ruotava intorno a beni semplici come il pane, l'acqua e il fuoco. Storie narrate con la stessa tecnica che usava l'altro mio nonno Silvestro Buzzanca nel descrivere la sua giornata a figli e nipoti seduti intorno a lui davanti al focolare. Racconti che avevano la forma di una spirale, che non finivano mai, che volevano avere una direzione ben precisa, ma prendevano sempre vie laterali. Narrazioni dove anche un albero, una fontana, una roccia, un animale erano degni di nota. Erano storie fatte di tante parole antiche che indicavano persone, cose e luoghi che lentamente stanno morendo nella memoria collettiva.

Questo "cunto" vuole mettere insieme, a futura memoria, quello che è stato scritto o tramandato di padre in figlio, quello che ancora oggi possiamo leggere nel paesaggio e sul territorio, quello che ci propongono ricerche archeologiche e ricostruzioni sempre più precise e raffinate degli eventi. Si vuole parlare di Momtagnareale all'interno di uno arco temporale lunghissimo e uscendo dal ristretto spazio geografico del paese.

Perché non è vero, come si legge sul sito "ufficiale" di Montagnareale, che questo luogo prenda vita, come un fungo nel sottobosco della storia, solo intorno al 1636. Quando il paese si chiamava ancora Casale della Montagna e faceva parte della città demaniale di Patti. E dopo complicate vicende divenne Montagnareale. Non è così. Non è così e per dimostrarlo dobbiamo sfogliare libri molto vecchi e scavare nella memoria collettiva. O in quello che ne rimane. Dobbiamo osservare vecchie pietre, leggere documenti ingialliti, decifrare parole antiche, interpretare segni e comportamenti tradizionali. Sapendo che tutto quello che riguarda Montagnareale è strettamente legato a Patti e al territorio intorno: Librizzi, Gioiosa, Sant'Angelo, Raccuia. San Piero Patti, Ucria

E allora il cunto può partire da una ricostruzione, più o meno fantasiosa, basata sulle tracce umana più antiche che sono stata trovata nella zona di Patti: una lama di selce e una pietra scheggiata che risalgono a un periodo comprese fra 12 mila e 10 mila fa.

L’uomo Sapiens aveva atteso pazientemente, nascosto fra l’erba alta, che il grande cervo finisse di brucare nella piccola radura e si avviasse lentamente verso la collina mostrandogli il fianco sinistro, dove batteva il cuore. Era il momento buono per alzarsi e scagliare la lancia di castagno con la punta di selce che tanti animali aveva già ucciso.. L’arma disegnò nel cielo azzurro primaverile un grande arco, ma questa volta mancò il bersaglio. Il cervo aveva fiutato il pericolo e improvvisamente aveva cambiato direzione, fuggendo verso un boschetto di querce, vanamente inseguito da altre lance. La lancia del capo della piccola tribù andò a schiantarsi contro un masso ricoperto d’erba. La punta di selce si staccò dal bastone e volò via, planando sul fianco di una collina ricca di vegetazione che digradava verso il fiumiciattolo che scorreva  in una valle che migliaia di anni dopo altri uomini avrebbero chiamato Iuculano. Lo sfortunato cacciatore cercò invano di recuperare la sua arma, ma non ci riuscì. E alla fine ritornò con gli altri cacciatori dalle donne i bambini che avevano osservato da lontano la caccia al cervo.

Il gruppo riprese la marcia verso sud, verso le alte cime da cui si vedeva la montagna fumante che secoli dopo avrebbero chiamata Etna. Si lasciavano alle spalle il mare che secoli dopo altri uomini avrebbero chiamato Tirreno e la grotta dove avevano passato l’inverno nel luogo conosciuto in futuro come Mongiove. Sarebbero tornati in quelle terre alla fine dell’estate, quando le ore di luce sarebbero diminuite, il calore del sole scemato, e la loro vita sarebbe tornata a concentrarsi nella grotta dove, nella parte più interna, avevano lasciato tutti quelli che si erano addormentati e non si erano più risvegliati. Avevano bloccato l’ingresso in modo che durante la loro assenza gli animali non facessero scempio dei corpi dei defunti, che giacevano coricati su un fianco e ricoperti di un leggero strato di terra rossa.  

L’ambiente più grande della grotta ospitava tutta la tribù, raccolta intorno al fuoco che serviva per cuocere le prede e tenere lontani gli animali più feroci. In quello spazio si nasceva e si moriva, ci si riscaldava e si mangiava, si conciavano le pelli di volpi e di lupo usando il tannino delle querce. In quello spazio si affilavano le selci per fare nuove armi e taglierini, si costruivano le frecce e gli archi. E anche se la grotta era difficile da raggiungere e facilmente difendibile, si facevano dei turni di guardia per evitare di essere sorpresi da altri uomini.  

Non si erano mai scontrati con i loro simili, ma sapevano che abitavano oltre la grande montagna ricoperta di boschi che scendeva nel mare dove il sole si nascondeva quando scompariva dal cielo. Una volta i cacciatori della tribù si erano avventurati in quella direzione guadando un fiume grande e uno più piccolo. Si erano inerpicati fino al punto più alto, avanzando guardinghi nel fitto bosco di querce, timorosi di incontrare orsi e lupi attratti dalle numerose sorgenti d’acqua.   E avevano visti quegli altri uomini camminare verso di loro sulle spiagge nascoste abitualmente alla loro vista dalla grande montagna. Sorvegliavano le donne intente a raccogliere molluschi e fare legna per il fuoco e anche loro avevano archi, frecce e lance.

Il capo si volto verso l’altro lato del mare, quello dove il sole appariva tutte le mattine, proprio sopra la grotta che occupavano. E penso che anche quegli altri uomini avrebbero potuto osservare da quella postazione il suo gruppo muoversi sulla loro spiaggia o cacciare. Diede subito l’ordine di ritirarsi ed evitare scontri. Ma da quel giorno i turni di guardia furono raddoppiati. Non sapevano da dove venivano gli altri, ma da quelli che ora dormivano aveva sentito raccontare che loro erano figli di uomini che erano arrivati in quelle terre dopo avere superato a piedi un tratto di mare che separava due terre. E non avevano più fatto il percorso inverso, raccontavano sempre gli anziani,  perché il mare ad un certo punto aveva ricoperto il passaggio  

Uno di loro, il più anziano di tutti, nelle gelide notti invernali, raccontava che anche il mare davanti alla grotta si era alzato. Perché lui, quando era bambino, andava con le donne a raccogliere molluschi sulla spiaggia e si sedeva su una grossa pietra piatta che oggi non si vedeva più, sommersa dalle acque. Gli uomini lo ascoltavano in silenzio e non sapevano cosa dire. Lo ascoltavano con interesse, ma con un po’ di paura.  Forse aveva delle visioni, forse ricordava male. Era molto vecchio. Ma anche loro avevano la sensazione che qualcosa stesse cambiando. Faceva meno freddo e c’erano più uccelli e animali da cacciare, i fiumi diventavano difficile da attraversare. Allora cominciavano a parlare del giorno dopo. Dovevano uscire a caccia e sperare di catturare una preda.[1]

[1] Abulafia David, Il grande Mare. Storia del Mediterraneo, Mondador, Milano, 2013, pp 22-23

«Nel lungo periodo del Paleolitico inferiore e medio, la navigazione del Mediterraneo fu probabilmente un evento raro. Alcune delle attuali isole di questo mare erano probabilmente accessibili mediante lingue di terre, poi sommerse dall’innalzamento del livello marino. La grotta Cosquer, nei pressi di Marsiglia, conserva incisioni di Homo sapiens databili già a 27.000 mila anni a.C. e dipinti antecedenti al 19.000; oggi si trova sotto il livello del mare, ma quando era abitata il litorale del Mediterraneo distava diversi chilometri dalla costa. La prima prova plausibile di brevi traversate marine risale al Paleolitico superiore, cioè a ridosso dell’11.000 a.C. Fu allora che l’uomo mise piede per la prima volta nell’isola cicladica di Melo, alla ricerca del vetro vulcanico di ossidiana utilizzato per fabbricare utensili litici dal taglio più affilato di quelli in selce». E qui abbiamo una notazione importante su cui torneremo: fa la sua comparsa l’ossidiana. Abulafia poi prosegue: «La Sicilia ci ha lasciato decine di siti paleolitici risalenti a quella stessa epoca, spesso situati presso la costa. I loro abitanti consumavano grandi quantità di molluschi marini, pur dedicandosi anche alla caccia di volpi, lepri e cervi. Si prendevano cura dei defunti, cospargendone le salme con uno strato di ocra rossa e a volte adornandole con collane decorative (…). Le istorazioni delle grotte siciliane rivelano la presenza di una società di cacciatori-raccoglitori che, come si evince da altri indizi, fabbricava efficaci utensili in selce e quarzite e praticava attività rituali, come la magia propiziatoria alla caccia. Per catturare le prede usavano archi, frecce e lance, vivevano in grotte e caverne, ma anche in accampamenti all’aperto. Non erano molto diffusi e se i lori antenati erano giunti in Sicilia con mezzi galleggianti di fortuna, le successive generazioni non si avventurarono in ulteriori esplorazioni marine (…)».

Il racconto della fallita caccia al cervo è evidentemente frutto di fantasia. Ma tutto questo potrebbe essere veramente accaduto fra 12 mila e 10 mila anni fa nel vasto territorio triangolare racchiuso fra la foce del fiume Elicona, quella del torrente Naso, sulla costa del Tirreno, e il monte Polverello a sud. La grotta abitata dal nostro gruppo di uomini primitivi, Homo sapiens sapiens, poteva aprirsi sul costone di Capo Tindari. O su quello di Capo Mongiove, separato dal primo da una valle e una stretta striscia di spiaggia.  Verso occidente il capo gemello di Capo Calavà, sovrastato dal Monte di Gioiosa Guardia, chiudeva il Golfo di Patti . In mezzo una pianura alluvionale solcata dal Timeto e dal torrente Montagnareale, alimentati da decine di piccoli corsi d’acqua che scendevano dalle colline.

In questo luogo sono vissuti veramente gruppi di cacciatori-raccoglitori in uno spazio temporale che oggi chiamiamo Paleolitico superiore. Periodo compreso fra 40 mila e 10 mila anni fa.  Con gli ultimi millenni, compresi quelli che portano alla transizione verso il Neolitico, che vengono definiti Epigravettiano finale. Questo  periodo in Sicilia, sulla base degli studi condotti fino ad oggi, ha una particolare importanza grazie alle scoperte della Grotta di San Teodoro, nei pressi di Acquedolci, di fossili risalenti a quel periodo; fra cui lo scheletro quasi completo di una donna che è stata ribattezzata Thea. Gli studiosi del clima invece collocano questo periodo alla fine dell’ultima grande glaciazione, avvenuta in un lasso temporale compreso fra 100 e 10 mila anni fa, chiamata glaciazione di Wurm.  [2]

Le prove di queste presenze umane nel territorio descritto sono una lama di selce, che potrebbe essere stata usata come punta di una lancia, e un sasso scheggiato ritrovati qualche anno fa da un gruppo di ricercatori, che, guidati dal professore Michele Fasolo, hanno battuto in maniera sistematica una vasta area a ovest di Tindari.  «Due rinvenimenti isolati, provenienti entrambi da giacitura secondaria, databili genericamente nell’ambito del Paleolitico superiore, sono stati effettuati nella zona di spartiacque tra Timeto ed Elicona, più precisamente nell’aria prossima a quest’ultimo bacino. Rispettivamente una piccola lama in selce gialla, non presente tra le litologie della zona, in contrada Iuculano di Patti, e un frammento di ciottolo, forse un nucleo, recante una serie di distacchi con direzioni diverse, alcuni ortogonali fra loro in contrada Ruvoro Zingano di Montalbano Elicona. In questa zona anche il toponimo Sperlinga, sulla sponda del torrente Elicona, segnala la presenza di ripari offerti da aggetti rocciosi, e di grotte lungo il corso d’acqua, utilizzabili come rifugi stagionali», scrive Fasolo. [3]

Anche il possibile incontro-scontro con altri gruppi umani non è poi tanto fantasioso. Abbiamo già vista le scoperte nella grotta di Acquedolci che si trova a 45 chilometri da Tindari. Ma più vicine sono le grotte di Sperlinga di Novara di Sicilia, dove si trovano reperti del Paleolitico superiore, Mesolitico e Neolitico, e quelle di del riparo di San Marco a Ucria, ascrivibile al Paleolitico superiore. Rifugi che si trovano su una direttrice di transumanza stagionale che dal Tirreno risaliva verso lo spartiacque dei Nebrodi.  

Questo vuol dire, continua Fasolo che «è dunque plausibile che, a partire dal periodo di massima regressione wurmiana, dalle aree prossime a una linea di costa non molto diversa dall'attuale, dove gravitavano prevalentemente le attività delle popolazioni di cacciatori raccoglitori, alcuni gruppi risalissero periodicamente le dorsali, precipiti sui corsi d'acqua e ricoperte da rigogliose foreste di querce, sino allo spartiacque dei Nebrodi e dei Peloritani». [4]  

Secondo lo studioso, «in questo ambiente forestale caratterizzato da clima caldo, ma particolarmente umido, che si evolverà verso quello temperato freddo, le battute di caccia trovavano come preda una ricca fauna, che comprendeva asini e buoi selvatici, cervi, cinghiali, gatti selvatici, ghiri, ricci, tartarughe, e, ricercati forse soprattutto per le pelli, lupi e volpi». [5]

Ma altri uomini abitavano nel territorio dell’odierna Gioiosa Marea, dove esisteva la grotta di Cinà, oggi scomparsa. E nelle vicinanze di questo ipotetico sito, scrive sempre Fasolo, «è stata osservata una diffusione di ciottoli interi di medie e piccole dimensioni molti dei quali presentano distacchi intenzionali. I rinvenimenti certamente non sono sufficienti a provare l’esistenza di un sito o di un giacimento riferibile al Paleolitico inferiore, ma costituiscono un elemento di stimolo per nuove e più approfondite indagini».  

Abulafia, citato in nota, ritiene che gli antenati dei nostri Homo sapiens sapiens siano arrivati in Sicilia a bordo di mezzi galleggianti. Ma non tiene conto delle teorie che vogliono invece quegli antenati passati in Sicilia al momento del culmine dell’ultima glaciazione: un fenomeno che avrebbe abbassato il livello delle acque marine di diverse centinaia di metri, scoprendo dei passaggi terrestri nello stretto di Messina o permettendo il passaggio dalla Tunisia alla Sicilia attraverso piattaforme nel canale di Sicilia. Magari al seguito di tutta una serie di animali ora estinti come gli ippopotami o gli elefanti nani.  

Alla fine, Abulafia, parlando degli uomini del Paleolitico Superiore e dell’Epigravettiano, arriva a questa conclusione: «In queste bande di uomini e donne vaganti, che erravano in cerca di cibo, si spingevano in cima ad un colle o in una baia confortevole. Si accampavano di qua e di là e zigzagavano avanti e indietro, la differenziazione sociale era molto modesta. Ma man mano che acquisivano familiarità con certe zone adattavano ad esse la propria dieta e i propri costumi. Poiché seppellivano i defunti e decoravano le caverne, è probabile che avessero sviluppato un sensibile attaccamento alla terra. Di quando in quando, gli utensili in pietra passavano da una mano all’altra, circolando tra diverse comunità, oppure venivano recuperati in qualche schermaglia fra tribù. Nel complesso, comunque, questi primitivi nuclei sociali erano autosufficienti, potendo contare sul patrimonio di bacche, selvaggina e pesci offerto dalla terra e dal mare». [6]

Una lama di selce e un sasso scheggiato risalenti al Paleolitico superiore sono quindi le tracce più antiche della presenza umana in questo triangolo che si apre da Polverello e raggiunge il mare a Oliveri ad est e Capo d’Orlando ad ovest. Almeno per il momento e per quanto riguarda quello che la terra ci può restituire del nostro passato. All’altro estremo metodologico e temporale troviamo la pergamena con cui Ruggero I, il conquistatore normanno della Sicilia, decide nel 1094 la fondazione a Patti del monastero benedettino del Santissimo Salvatore Primo documento scritto in cui si cita la città e il suo territorio. Un arco temporale che copre circa 10 mila anni e che nasconde tante altre cose. Note e meno note.

Oggi,  per esempio, sappiamo che quando si passa al periodo successivo al Paleolitico, il Neolitico, «nella nostra zona le tracce più antiche sono costituite da alcuni reperti neolitici rinvenuti sulla costa a Monte di Giove: una lama di ossidiana e un frammento di ceramica bicromica attribuibile al Neolitico medio». [7]

Fa quindi fa la sua apparizione l’ossidiana che arrivava da Lipari. «Proveniente da Lipar , scrive Fasolo - il vetro vulcanico circola, come ormai sembra accertato, prevalentemente dal Neolitico all'Eneolitico finale pur essendo presente anche nell'antica età del Bronzo. I rinvenimenti-t, riconducibili ad aree di industria lirica in ossidiana, sono stati registrati in particolare sulle prime colline che si incontrano dalla costa a Saliceto, a S. Spirito, a Pignatara, dove quasi sulla sommità sono stati ritrovati anche alcuni pestelli in arenaria unitamente a ceramica d'impasto, a Monte di Giove, a Tindari. Molti ritrovamenti sono avvenuti lungo brandelli superstiti di antichi terrazzi sui torrenti Ciavola, Ronzino, Cedro e Valle-Tindari (a Scala e a Locanda)».

Ancora, «rinvenimenti sono stati effettuati verso l'interno anche nella fascia collinare più elevata, a Scarpiglia, forse in relazione con vicine cavità naturali, e soprattutto nel comprensorio Monte Saraceno-Iuculano attraversato da una direttrice viaria di lunga durata che dalla costa, seguendo lo spartiacque tra Timeto ed Elicona, si dirige verso il passo di Polverello e il sistema montuoso parallelo alla costa tirrenica».

Oltre all’ossidiana  in questa zona «è stata rinvenuta alla testata del torrente Gliara, ai piedi di Monte Saraceno, ceramica di età eneolitica, riconducibile alla facies della Conca d'Oro o a quella di San Cono (metà del III millennio a.c.). E «Sulla costa – infine - il sito individuato a Monte di Giove rientra nella facies a ceramica bicromica e sembra essere pertinente ad una società agropastorale già stabile e inserita in una rete di collegamenti a corto e medio ragg».

Uomini e donne vivevano e si aggirano su un promontorio crollato, che oggi sarebbe a sei metri sul livello del mare, ma in epoca neolitica si affacciava direttamente sulla spiaggia.

Ma altre briciole di vita le possiamo trovare se usciamo del mondo delle cose tangibili, - grotte, resti fossili, scavi archeologici, - incamminandoci nel mondo meraviglioso del mito, delle leggende e delle fiabe. E se osiamo scivolare nello studio dell’inconscio, in quello che Enrich Neumann, sulla scia di Carl Jung, chiama “l’archetipo primordiale” o “l’archetipo della Grande madre”. [8]

Possiamo andare alla ricerca di qualcosa che è nascosto dentro la psiche umana, che rimanda alla lunghissima durata dei tratti comuni dell’umanità. Tindari e la sua Madonna nera, le grotte che si aprono sotto il santuario, le altre di Mongiove, il racconto di Donna Villa, sono un buon esempio di questo intreccio fra culti ancestrali, presenza umana in certi luoghi, luoghi tellurici, e racconti popolari. Un modo diverso per raccontare di uomini e donne che hanno calpestato queste terre migliaia di anni fa e di cui ci portiamo dentro molte cose in una sorta di eterno ritorno.

Per capire come da questa Grande Madre, passando per il pantheon greco e romano, si arrivi fino alla Madonna nera di Tindari e a Donna Villa,  dobbiamo prima tornare alle grotte del Paleolitico per poi allargare l’orizzonte a tutto il Mediterraneo, all’Egitto e all’Oriente. [9] Dobbiamo tornare tenere conto del fatto che la Tindari greca occupa lo spazio dove sorgeva un villaggio siculo dell’età del Bronzo. [10]  Speculare a quello che sorgeva sul promontorio di Capo Calavà, sotto il monte di Gioiosa Guardia. [11]

  Abbiamo già visto come gli uomini che abitavano le grotte paleolitiche ricoprissero di ocra i defunti e li sistemassero come se dormissero. Come se dovessero risvegliarsi, così come si risvegliavano le piante in primavera dopo l’inverno. Già 30 mila anni fa i gruppi di cacciatori raccoglitori cominciarano infatti ad interrogarsi sulla vita e sulla morte, sui cicli lunari e sull’andamento delle stagioni. Erano sicuramente affascinati dal venire al mondo di altri uomini e donne, ma non associavano le nascite all’attività sessuale e tutto il potere della riproduzione veniva attribuito alla donna. Possiamo quindi tranquillamente immaginarli intenti a creare quelle strane statue femminili che sono state ribattezzate “veneri”. [12]  

«La Dea viene rappresentata sotto forma di donna gravida, con attributi sessuali enormemente evidenziati, il triangolo pubico molto marcato e le mani sul ventre all’incirca dal 24 mila al 10 mila a.C., mentre dal 21 a.C. cominciano ad apparire scene di parto e statuette raffigurante donne con bambini in braccio, che saranno il modello iconografico delle dee più tardi e della Madonna», spiega Laura Rangoni. [13]  

La Rangoni aggiunge che «molte dee di pantheon anche diverse tra loro sono raffigurazioni della Dea Terra, la Grande Madre di ogni essere vivente; sono il simbolo della natura nei suoi aspetti positivi – la fertilità, l’abbondanza dei raccolti, la nascita dei cuccioli, la presenza di acqua, verdure e frutti da raccogliere, e della selvaggina – e negativi, ovvero le tempeste, la carestia, la malattia, la fame. Per via di questo dualismo, tante antiche rappresentazioni della Dea Madre hanno il volto metà bianco e metà nero. Con il passare dei secoli, ogni civiltà le attribuì nomi diversi, glorificandola come fonte di vita dell’intero universo. Era la triplice Morigan per i Celti, Isis per gli Egizi, Maka per gli antichi popoli Maya e Aztechi, Kali per gli Indiani, Lilith per gli Ebrei. Ishtar per i Sumeri e i popoli accadici». [14]

Queste diverse incarnazioni della Grande Madre, chiamata anche Madre Terra viene confermata anche da Maria Gimbutas. Che lega direttamente le cristiane Madonne Nere al culto della Madre Terra: «Senza dubbio la venerazione preistorica per la Madre Terra sopravvisse immutata fino al tempo in cui subentrò il culto di Demetra e Persefone in Grecia, di Opi a Roma, di Nerthus nelle regioni germaniche, di Zemyna o Zemes Mate nell'area baltica, della Madre Umida Terra nelle regioni slave. La Madonna Nera non è in fondo diversa da questa antichissima Madre Terra, e il suo colore scuro rimanda a quello della terra fertile. Il suo fondamentale intervento miracoloso consiste nel ripetersi annuale della fecondità. Gli antichi riti misteriosi, celebrati, lungo i millenni della preistoria e della storia, nelle caverne, nelle necropoli, nei templi o all'aria aperta, servivano appunto ad esprimere la gratitudine degli uomini nei confronti della fonte di ogni vita e di ogni nutrimento e a partecipare ritualmente al segreto dell'abbondanza della terra». [15]

Un altro panorama dei culti della Grande Madre, della pluralità dei suoi culti, delle sovrapposizioni dei nomi, anche in aree geografiche distanti fra loro, è offerto da Ean Begg che cita Lilith, Lamia e Sfinge, Inanna, Kalì, Neith, Anath, Hathor e Sekhmet. Per arrivare alla conclusione che «l’influsso più diretto sul culto e l’immagine della Madonna nera proviene, senza dubbio, dalle tre dee dell’antico Medio Oriente, Iside, Cibele e Diana degli efesini, ma il loro influsso pervenne attraverso l’universalismo onnipresente del successivo Impero romano».[16]

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Il culto della Grande Madre diventa comune nel Neolitico, [17] quando gli uomini da cacciatori-raccoglitori si trasformano in contadini e allevatori e grazie alla crescita demografica e l’aumento delle risorse a disposizione nasce la pluralità dei culti.  Inoltre, particolare molto importante, il culto della Grande Madre, egemone per così tanto tempo, secondo molti studiosi, era caratterizzato dal predominio sociale femminile. [18]

«Le civiltà matriarcali – spiega ancora la Rangoni - (ma sarebbe meglio definirle ginocratiche o teacratiche), dove il principio femminile fu divinizzato ebbero grande diffusione nell’età del Bronzo e coincisero con il diffondersi dei culti misterici e con la nascita del ceppo etrusco. Nella storia della penisola italiana la civiltà etrusca fu l’ultima che permise alle donne l’accesso al mondo della religione conferendo loro anche la massima autorità spirituale nella gerarchia del culto». [19]

Naturalmente questa è solo una delle ipotesi possibili e ci sono studiosi che la criticano. [20]

La fine, o l’inabissamento, del culto della Grande Madre sarebbe stato causato dall’arrivo dalle steppe dell’est Europa di popolazioni di ceppo indoeuropeo organizzati in società patriarcale: «Gli invasori Indoeuropei, tra il 4500 e il 2500 a.C., soppiantarono la civiltà della dea e imposero la loro struttura sociale di tipo patriarcale, la loro economia pastorale e il loro pantheon divino dominato dal maschio. – scrive sempre la Gimbutas. - Ma la religione della dea, le cui tradizioni millenarie furono ufficialmente smantellate, costituì in ogni modo il ricco substrato che continuò a influenzare profondamente tutte le successive culture europee». l  La  presa del potere da parte degli uomini che costrinse pero anche a riscrivere il pantheon delle divinità e la sua genesi, come quello dell’Olimpo, dove Zeus prese il sopravvento. [21]

La Gimbutas divide comunque le divinità legate alla Grande Madre in quattro gruppi. Il primo comprende le dee che personificano le forze rigeneratrici della natura, mentre il secondo raggruppa quelle che incarnano il suo potere distruttivo. È evidente una contrapposizione fra la vita e la morte. Il terzo gruppo comprende le dee della rigenerazione, ma essendo questa legata alla morte spesso le dee si identificano con quello della morte. Infine, il quarto gruppo è quello che comprende le divinità maschili preistoriche. Questa ripartizione, è evidente, propone sovrapposizioni e confusioni fra le varie dee e i diversi culti.

E’ il caso di Tindari, dove, queste diverse versioni della Grande madre si intrecciano e in mancanza dei reperti archeologici sui templi, per capirci qualcosa bisogna battere altre strade. Ma possiamo dire subito che l’ipotesi di Egg di un legame fra la Madonna nera e le tre dee Iside, Cibele e Artemide, nome greco che corrisponde alla latina Diana degli efesini, trova più di una conferma. Tenendo conto anche che Artemide viene spesso rappresentata in collegamento con Ecate, dea cotnia, e Selene, la dea della Luna.

Al momento della fondazione, i 600 mercenari messeni arrivati nella zona avevano una identità sacra e mitologica ben precisa. Si portavano dietro dalla madre patria, insieme all’avversione per gli spartani, proprio il culto di Artemide.  Così il nome della città deriva da quello di Tindaro, re di Sparta il marito di Leda, fecondata da Zeus sotto forma di cigno, e madre dei Dioscuri, Castore e Polluce, e di Elena e Clitennestra.  Questa, andata in sposa ad Agamennone, è la madre di Oreste che avrebbe portato a Tindari la statua di Artemide, trafugata nel tempio che sorgeva nella Tauride di cui ha scritto anche Nino Lojacono in un libro su Diana Facellina, e il Nauloco, il luogo che ospitava il tempio. [22]

Accanto a questo pantheon cittadino, dover Artemide doveva avere un ruolo preponderante, c’era quello comune con il resto del mondo greco. Maria Ida Gulletta scrive relativamente a Tindari che «la documentazione numismatica ben integra la tradizione letteraria nel confermare l’esistenza di strutture legate ad economia del mare e antropizzazione dell’approdo (tipoy: prora, delfino, Posidone, tridente), quest’ultima chiaramente suggerita in episodi mitici e storici, dal ricordo di Oreste, approdato a Tyndaris con il simulacro di Artemis Phakelitis sino al racconto di battaglie svoltesi in acque tindaritane fra le guerre puniche e il bellum civile, nonché un’intensissima vitalità  di culti e corrispondente proliferazione di edifici sacri, peraltro ad oggi non rinvenuti (tipoy e/o A simboli pertinenti: Dioscuri, Zeus, Apollo, Atena, Demetra e Kore, oltre al già menzionato Posidone)». Nella nota la Gulletta spiega che la presenza del culto di Artemis Eupraxia e di Ecate a Tindari è attestata da Battistoni. (ricercare documenti). [23]

Umberto Spigo entra ancor di più nel dettaglio e ci spiega: «Una rilevante testimonianza della vita religiosa della Colonia è offerta dall’iscrizione frammentaria in greco di prima età imperiale su lastrina di marmo con dedica di Kornelios Magoulnianos, gerofante di Hekate, divinità infera, collegata al culto di Demetra e Kore ma che compone anche con Artemide e Selene la “trinità” della stessa Artemide»[24].

Ma abbiamo tracce consistenti anche del culto di Artemide. «Peraltro, continua Spigo - ad Artemide, con l’appellativo di Euprexia, era dedicato da “Potos e Menippe” un rilevo in marmo, proveniente da Tindari e ora al Museo Ny Karlsberg di Copenaghen, probabilmente del I secolo d.C. con scena di offerta alla dea (rappresentata con la fiaccola, che è anche attributo di Ecate) da parte di un uomo e di una donna maturi, probabilmente Protos e Menippe dell’iscrizione dedicatoria in greco – e una giovinetta. Il culto di Artemide doveva avere sicuramente una salda tradizione nel territorio a Tindari e nel suo territori, non distanti dal noto santuario di Artemide Phakelitis citato dalle fonti (fra cui Silio Italico, Punica, XIV, 258 sgg.; Appiano, Bellum civile, V 484) da ubicarsi probabilmente nella piana di Milazzo». [25]

Di questo bassorilievo sappiamo -  nel 1849 era in possesso del reverendo padre F. Pogwisch dei Minori conventuali di San Francesco di Messina che fece dono a Henry Brunn  di un disegno e di una relazione secondo cui era «scolpito in marmo siculo bianco, e come pare, delle stesse vicinanze di Tindari, è stato trovato a poca distanza dalla spiaggia che si distende fra Patti e l’antica Tindari, circa un miglio dalla prima e sei dalla seconda città, in un podere della contrada detta Orti del Vescovo, e propriamente Sant’Eramo o Elamo o Elmo. Le diligenti ricerche, che furono istituite dal possessore, per sapere qualche cosa di più preciso sul suo originario collocamento, tornarono per mala fortuna quasi infruttuose. Egli seppe dagli abitanti di queste contrade, che fu trovato in quelle vicinanze un gran vaso di terracotta ripieno in gran parte di carbone, molte ossa e la metà di una   mensa di marmo, di forma ovale. Certi avanzi di muro del genere detto emplecton si mostrarono troppo meschini per decidere, se appartenessero a sepolcro, tempietto o altro edificio». [26]

Elisa Chiara Portale, che si occupa delle sculture siciliane in epoca romana, conferma quello che scrive Spigo, ma aggiunge altri particolari. Spiega che la  Villa romana di Patti Marina, sorge «su un retroterra che non è tabula rasa ma (per quanto stravolto) possiede una storia, un paesaggio cultuale e un immaginari», e dunque, «sembra significativa la circostanza che il sito della villa, in cui si adottava un rilievo così pretenzioso celebrante la triade delia (Apollo, Artemide, Latona), potesse avere ospitato già in età ellenistica un culto di Artemide. Suggerirebbe infatti una qualche forma di continuità, o piuttosto di ricollegamento del nuovo polo con le preesistenze sacrali del territorio, la provenienza proprio da qui del famoso rilievo dedicato ad Artemis Eupraxia (ora a Copenhagen), un votivo di pregio di II-I secolo a.C., per cui non sarebbe da escludere un recupero-reimpiego nella villa romana. D’altronde, Tindari era conosciuta come uno dei poli del culto di Artemide (Phakelitis) in Occidente, in antitesi all’area calcidese dello Stretto fino a Mylai (U. Spigo) e specularmente alla madrepatria Siracusa (F. Caruso)». Conclude la Portale: «Tornando a Tindari, è facile immaginare che la villa pattese più tarda, epicentro di un cospicuo latifondo e proprietà di un dominus con importanti aderenze a Roma, quindi polo di controllo territoriale e “paesaggio di potere” nel sistema ridefinito dall’imperatore, abbia inglobato l’area di un santuario rurale greco di Artemide, assumendone in un certo senso l’eredità». [27]

Dunque, nel territorio di Tindari si venerava Artemide in due versioni. Quella chiamata Facellina, importata da Oreste, e quella chiamata Euprexia. Ma a sua volta Artemide, come detto, è associata ad Ecate e Selene. E abbiamo appena visto come vivesse a Tindari un sacerdote del culto di Ecate. Questo legame profondo con il passato lo si percepisce, nei giorni della grande festa del 7 e 8 settembre [28]dedicata alla Vergine del Tindaro, camminando da Locanda verso il Santuario, fra persone che salgono in ginocchio per sciogliere un voto sulla strada costellata di grandi massi squadrati delle antiche mura, bancarelle di venditori di càlia, dolci e giocattoli, investiti da nuvole di fumo e odori proveniente dalla brace dove cuociono bistecche di maiale, salsicce e “frittule”. [29]

Queste immagini, questi odori, ci fanno pensare ad altri uomini che percorrevano gli stessi luoghi e portavano offerte e sacrifici ad altri altari e altri dei. Sembra quasi vedere nel 70 a.C.  il proàgora Sòprate, fatto frustare due volte da Verre perché non voleva consegnare la statua di Mercurio che si trovava nella città, alla testa del corteo dei cittadini che si avviavano verso i templi per celebrare sacrifici e offrire doni agli dei e alle dee. [30]

Dietro a lui Trasone, Eschilo, Pompeius Philo, Cratippo, ricchi tindaritani. [31] Al corteo partecipano anche il ginnasiarca Demetrio [32], l’uomo che consegnerà la statua di Mercurio a Verre, Desione, Polea. E Zosippo e Ismenia, i due tindaritani che si imbarcarono alla volta Roma per denunciare Verre davanti al Senato romano e assumere Marco Tullio Cicerone come avvocato difensore della città.[33] Dietro il resto degli abitanti.  Si recavano verso l’area sacra che alla fine del V secolo a. C, o all’inizio del IV, avevano delimitato con un rito di fondazione,[34] i 600 messeni che Dionigi aveva spedito a Tindari per fondare la città, strappando il terreno alla vicina Abaceno, alleata dei cartaginesi. [35]

Ma a quale altare si dirigeva la processione? Artemide, Demetra. Cibele, Ecate? Siamo infatti in presenza di culti diversi dove le dee si intrecciano e si confondono tra loro. Per questo Marcello Mollica scrive che «a Tyndaris, per quanto nessun resto di tempio è stato portato alla luce, si dovettero quanto meno svolgere feste in onore di anche di altre divinità: Proserpina, Pane, Artemide (la cui figura appare in un bassorilievo), Poseidone, Cerere, Cibele (il cui none è legato dalla tradizione alla fondazione del santuario della Madonna, per essere stato questo costruito sui resti di un tempio a lei titolato), Bacco, Apollo, Mercurio...».  [36]

Mollica si riferisce al mito del ritrovamento della Madonna nera. La trasportava una nave proveniente dall’Oriente che a causa di una tempesta si rifugiò sotto Tindari. Finito il maltempo la nave voleva riprendere la navigazione, ma non riusciva a muoversi. Riuscì a ripartire solo quando i marinai gettarono in mare la cassa contenente la statua della Madonna. Trasportata dai pescatori locali in quella che restava di Tindari fu collocata in uno dei templi. Quello di Cibele. E la Madonna approvò la collocazione dando un poderoso calcio e lasciando un’impronta che fu trasferita su una tavoletta. Successivamente si pensò di collocarla al centro della chiesetta, ma per ben tre volte ritornò alla sua nicchia defilata e laterale. Di questa presunta collocazione, con molti dubbi si occupa anche il canonico Nicola Giardina che ne scrive nel 1882.[37]

Il lettore che avrà avuto la pazienza di seguire questo complesso viaggio nel mondo della mitologia greco-romana si stara chiedendo che fine hanno fatto le costolette di maiale, le salsicce e le “frittule” della festa dell’8 settembre e il loro rapporto con il mondo classico.  Il legame c’è e dimostra ancor di più i rapporti fra le dee della fertilità, in particolare Demetra, e la Madonna nera.  Perché «nella Grecia classica ed ellenistica, del resto, si svolgevano celebrazioni analoghe in onore di Demetra, durante le quali venivano sacrificati alla dea e a sua figlia Persefone alcuni porcellini da latte. Gli Ateniesi, infatti, chiamavano Persefone “colei che uccide i porcellini da latte”». [38]

Questa associazione fra le due dee e i suini si ritrova in tutto il Mediterraneo. Per esempio sappiamo che «a Demetra venivano sacrificati maiali giovanissimi all’interno di un pozzo o sala sotterranea, per ricordare il mito del ratto di Persefone da parte di Ade. Il mito narra che un guardiano di porci, di nome Eubuleo, si trovava con i suoi maiali nel punto in cui Ade aveva trascinato Persefone negli Inferi e che una parte del branco era stata inghiottita sotto terra con le due divinità. Numerosi sono in Grecia e Magna Grecia i santuari dedicati a Demetra i cui scavi hanno portato alla luce i resti di maialini combusti, spesso associati a statuine di terracotta raffiguranti il maiale e vasi miniaturistici votivi e figurine femminili recanti una fiaccola e il porcellino». [39]

Inoltre a Roma, in onore della equivalente Cerere, il 12 aprile si celebravano le Cerealia, dove insieme ai buoi venivano sacrificati anche dei maiali. Il sacrificio di un suino a Cerere si ritrova anche all’inizio della raccolta della porca praecidanea. Un rito che veniva eseguito prima dell’offerta dell’animale più importante offerto agli dei durante un rito o prima dell’inizio di un evento ritualizzato. Quale era per esempio la mietitura.  

Questi legami li aveva già intuiti Francesco Barreca, [40] che nel 1957 ha scritto che «non solo l’attuale culto della Vergine (che anche le tradizioni locali asseriscono sovrapposto a quello romano di una divinità femminile, la Magna mater), presenta tracce evidenti di un più antico culto pagano di carattere ctonio (specialmente nella grande festa settembrina, la tradizionale uccisione del maiale, altrimenti inspiegabile considerando il calore della stagione ancora estiva), ma la favola popolare della Donna Villa, di sapore prettamente locale, sembra di proiettare quel culto in un’epoca di assai più antica di quella dionigina». [41].

Dunque il vecchio santuario che ospitava la Madonna nera sarebbe stato costruito su un antico tempio dedicato a Cibele, una dea anatolica che aveva lentamente conquistato l’occidente greco-romano, fino ad entrare nel pantheon romano, sotto forma di pietra nera, nel 204 a.C, con il nome di Magna Mater Anche se lo stesso Mollica prende le distanze da questa tesi, proposta da padre Rosario Giordano, proponendo i dubbi di Badolato sulla reale esistenza di un tempio dedicato a Cibele. Piuttosto, sostiene Badolato, c’è stata confusione fra Cerere e Cibele. Ma la sovrapposizione e lo scambio nulla toglie alla continuità fra Grande Madre, dee legate al culto delle stagioni e la Madonna nera. Una continuità che arriva fino a Donna Villa che alla fine incarna la parte oscura, ctonia, malvagia del mito. Abbiamo visto Spigo fare un accenno a queste scomposizioni dei poteri divini quando parla dell’iscrizione di  «Kornelios Magoulnianos, gerofante di Hekate, divinità infera, collegata al culto di Demetra e Kore ma che compone anche con Artemide e Selene la “trinità” della stessa Artemide». Dunque Hecate, o Ecate, poteva essere venerata anche nelle grotte. O il suo culto vi è stato traferito dopo l’avvento del Cristianesimo e la demonizzazione di Ecate.

Una labile traccia ci porta verso questa ipotesi. Dobbiamo infatti ricordare che nel 1820 Giuseppe Maria Capodieci scriveva: ««Patti: risorta dall’antichissima citta di Tindaro, della quale si osservano gli avanzi delle mura, delle antiche porte, d’un tempietto, d’un bagno, e di marmi antichi. Vi erano alcune statue di marmo consolari, tutte mutilate, le quali nel 1815 vennero trasportate in Palermo. Nella Porta di Mare esistono rovine di fabbriche, e spelonche. In una scoscesa s’incontra la grotta chiamato Donna Villa, ove dentro si vede una diroccata fabbrica, che la dicono il Tempio. Si ammirano i vestigii dell’anfiteatro, e del teatro. Non tanto lontano resti d’un grande edificio, una strada coperta di lastroni, che conduce ad una delle porte della città ed alcuni sepolcri di fabbriche. Nel giardino del Barone della Scala, una statua consolare. Fra la cala di Patti, ed il Castello di Brolo si vede la Torre di Calavà». [42]

La narrazione popolare colloca Donna Villa proprio in una grotta che si apre veramente sotto il promontorio di Tindari.  Difficile da raggiungere è composta da tre ambienti con un balcone che si affaccia sul Tirreno; sul pavimento tracce fossili di animali, indicati come cervi, e fori nelle pareti provocati da litodomi, testimoni del periodo in cui la grotta era sotto il livello del mare.  

La storia è nota. Anche se presenta qualche variante. Donna Villa era una donna bellissima, - una variante dice brutta, ma capace di trasformarsi in una figura suadente, - che abitava questa grotta. La sua occupazione era ammaliare con il suo canto i marinai che transitavano nello specchio di mare davanti alla sua spelonca, attirali dentro, avere rapporti sessuali con loro e poi ucciderli gettando i corpi nel pozzo che c’era nella caverna. Ma solo dopo averli derubati delle loro ricchezze, creando un tesoro che da secoli avventurosi personaggi cercano nella grotta e dintorni. Quando l’agguato non riusciva e il marinaio si teneva alla larga, Donna Villa si infuriava e livida di rabbia graffiava le pareti della grotta provocando i fori a cui abbiamo dato sopra una probabile spiegazione scientifica,

Il racconto popolare, associato in qualche maniera alla narrazione sulla Madonna nera ha una sua ratio nel fatto che Tindari e dintorni appartengono a quei luoghi tellurici a cui abbiamo accennato. Ma chi è veramente Donna Villa e cosa rappresenta? Prima di addentrarci dentro al mito, si può battere la pista onomastica». [43] Ma appare subito evidente che con l’avvento del Cristianesimo la parte ctonia, oscura, legata agli Inferi e al mondo della morte, fu scissa dalle qualità della Madonna nera, subentrata alle dee della fertilità e confinata nel sottosuolo. Insieme ai suoi poteri magici e al rapporto con il mondo dei morti. È stato scritto che Donna Ville è una Circe tindaritana. Affermazione che può essere vera solo in minima parte. Quella legata appunto alla magia e ai poteri magici che aveva Circe        che come tutte le maghe evocava Ecate per mettere in atto i suoi sortilegi.

Il racconto può sembrare noioso, dispersivo. Ma va inquadrato in un contesto generale che va ben oltre il promontorio messinese: si allarga al resto dell’Italia, segue le antiche vie franchigene e quelle che portavano i pellegrini a Compostela, getta nuova luce sulle decine e decine di Madonne nere che si trovano in Francia. E alla fine dopo evocazioni mediorientali, fra Egitto e Siria, il culto di Iside di cui parleremo, il filo del ragionamento ci riporta a Tindari e alla sua Madonna. Come detto Tindari sembra avere tutte le caratteristiche per essere definito un luogo tellurico. Luogo adatto per essere abitato da uomini e dei. Fin dalla preistoria. Come tutti gli altri luoghi dove oggi si venera una Madonna nera. Laura Faranda, per esempio         lavora sulla Madonna di Tindari e quella di Canneto, «una vallata isolata, afferente al comune di Settefrati, in provincia di Frosinone», dove la chiesa che ospita la Madonna «confina con i resti di antico santuario italico del V secolo a. C., nel quale l’esplicito rinvenimento di una dedicazione alla dea Mefite non lascia dubbi sui suoi antecedenti sacrali».  26

La Faranda spiega: «Mefite è infatti una divinità osca di matrice ctonia. Protettrice al tempo stesso di acque sorgive, di armenti e di piante, con l’evolversi in senso sedentario degli ambienti nei quali si insedia il suo culto, la dea viene progressivamente associata al successo terapeutico di acque termali27, spesso solforose, utilizzate per la cura di malattie umane e animali. Mefite presiede ai passaggi e vigila sugli opposti (la vita e la morte, il giorno e la notte, il caldo e il freddo, il regno dei vivi e quello dei defunti). È forse in ragione di tale propensione che il suo culto viene connesso con il successo della transumanza, del passaggio delle greggi da un pascolo all’altro. Il suo rapporto con gli elementi naturali e con le forze ultraterrene legittima al tempo stesso giustapposizioni ellenizzate con i culti di Artemide, di Demetra e di Persefone».  Siamo quindi in presenza di una sovrapposizione di culti: da quello di Mefite a quello, per esempio, di Demetra.  [44]

«L’oltre evocato da Mefite e dalla Madonna Bruna, l’oltre esorcizzato dalle sorelle bianche legittimerebbe già un avvicinamento comparativo verso le sponde elleniche del Mediterraneo, verso gli innumerevoli scenari liminari entro cui si originano le trame culturali delle Grandi Madri ctonie». La Faranda ci porta così a Delfi, nel santuario di Apollo, e riporta la descrizione che ne fece Frazer e conclude: «Sembra di essere sull’alta valle del Canneto, affacciati sul solco profondo che per erosione carsica fa da parete alle acque del fiume Melfa. Ma potremmo essere anche sul promontorio di Tindari (…). Luoghi tutti “onfalici”, quelli appena richiamati, nella misura in cui alludono ad un terra-madre che irretisce nelle sue spire, che risucchia, che può reinfetare e riprendersi in qualsiasi momento le sue creature (umane o divine) alterando poi le tracce del suo passaggio».

La Faranda torna ìn Grecia, sempre con Frazer, per testimoniare la presenza di una Demetra nera con Cristo e il Battista. E allora a questo punto, scrive, «il gioco degli specchi si complica… e il registro del doppio non è semplice da decifrare. Certo è che coesistenza in una medesima grotta di una Demetra nera con un Pastore di Anime e il Battista, apostolo della fede e signore delle acque, richiede anzitutto uno sforzo di autodisciplina comparativa. Ma al tempo stesso evoca connessioni ineludibili tra culti mariani e processi di reincomiciamento speculari alla conversione di una comunità verso una sedentarietà più stabile, che modula l’immagine divina di uno spazio civico protetto. Ma mano che i pastori si sedentarizzano, l’oscura “Signora-Silvana” , la dea protettrice delle insidie naturali, la Ptonia, la signora dei boschi e degli animali si opacizza, fino ad assumere i tratti rassicuranti di una Vergine, figura esemplare di una mediazione del dio-padre».

Vediamo adesso cosa scrive di Tindari

«Per una Madonna nera che si reduplica e “sbianca”, ben più numerose madri nigrae sed formose, lungi dall’essere inurbate, continueranno infatti ad abitare santuari inerpicati sui monti, affacciati su rocce che precipitano a picco sul mare, temute e venerate come tutte le Madri montane, ma al tempo stesso irriducibili ad altre reduplicazioni, se non a quelle che si insinuano nel loro stesso poliformismo. Del resto, se la Mora di Canneto prende forma direttamente nel luogo sacro e inaccessibile al quale àncora il suo culto, la Madonna del Tindari – come quadi tutte le madonne nere venerate sulle sponde Tirreno - arriva da un altrove indecifrabile, consuma il suo radicamento a partire dalle acque di un mare che delimita, per opposizione rispetto alla montagna, la nozione di spazio irrelato. Così l’evento fondativo (anch’esso ricorrente) che radica la Vergine del Tindari nel suo territorio prende le mosse da un mare che, come terreno elettivo di alterità radicale, in una          polivalenza di traiettoria spaziali, arresta il percorso di una nave, fin quando l’urna che costudisce la statua venerabile non viene abbandonata nelle acque del golfo (…). I pescatori locali raccolgono la statua della Vergine e la collocano in un tempo abbandonato della citta del Tindaro, dove il simulacro, posto in piedi, imprime con determinazione una pedata di consenso che lascia, inconfondibile, un’impronta sulla parete».  In una nota la Faranda aggiunge: «Portata a terra, ascesa dai fedeli sulla cima di un promontorio che domina i due versanti della costa, la statua, come si è visto, identifica prontamente con il gesto prototipico della pedata che origina l’orma – lo spazio che si appresta a diventare di proprio dominio. E una volta collocata nell’altare di una chiesa, per tre volte la Vergine recalcitra, dando segno inequivoco di preferire una cappella laterale, un centro eccentrico che rafforza la sua funzione di controllo dello spazio inabitato».

Secondo la Faranda, «anche la Madonna del Tindari si insedia nella topografia mitica di uno spazio oscuro e viscerale, tra una montagna e un mare che penetra nelle fessure delle scogliere, che si insinua in un labirinto di passaggi sotterranei per riemergere sotto forma di sorgente, mentre nel sottosuolo il calore incandescente dei vulcani apre faglie sulfuree. Un territorio degno di una Vergine Maria, glorificata come “terra non arabilis quae fructum partuiriit”. E come nella valle di Canneto, nella valle dell’Ansanto o nelle solfatare limitrofe al Santuario di Montevergine, anche nel territorio circostante Tindari la presenza di faglie e di acque sulfuree allude ad a un altro elemento di instabilità del suolo e del sottosuolo; quello stesso che Plinio menziona evocando la distruzione dell’antica Tindari, già erosa dall’infiltrazione di acque, e che un violento terremoto fece inabissare in fondo al mare, Per l’appunto richiamando la collocazione della Vergine nel territorio, il suo arrivo da un oltremare irriducibile, il suo controllo di un mondo tellurico incandescente, i fedeli non mancano ancora oggi di segnalare la sua indiscutibile signoria sul fuoco e sulle fiamme degli inferi, attribuendo il suo colorito scuro a una permanenza salvifica tra le fiamme dell’inferno; un dominio che associato a quello delle acque rafforza l’isomorfismo del panorama sotterraneo siciliano , nel quale esiste una corrispondenza costante tra caos igneo e caos subacqueo».

Arriviamo quindi all’interpretazione del miracolo più importante della Madonna e alla nascita dei laghetti di Marinello. «E’ proprio al controllo delle acque che si connette la storia del miracolo più rappresentativo della Vergine di Tindari, quello nel segno del quale la sua devozione si attesta oltre i confini territoriali, legittimando un movimento pellegrinale più ampio, quasi che l’elemento originale del mito fondativo non risieda nella “lectio maior”, quanto nel processo infaticabile di reincomiciamento, in quel corollario narrativo che immette la leggenda in un circuito di sdoppiamento, di continuità e di contiguità al tempo stesso con il contesto locale e con gli antecedenti mitici precristiani. Elementi, figure e spazi narrabili che la memoria locale conserva ancora vivi».

«Ripartiamo ancora dall’oggi per cercare di decodificare anzitutto il presunto isomorfismo tra una Madonna nera e l’acqua stagnante che la rappresenta. Acque onfaliche, per un verso, quelle rese immobili da un intervento di vino di segno femminile, ma al tempo stesso acque che accolgono il tuffo iniziatico di una bambina ( torneremo su questo elemento, la cui salvezza è affidata ad una Madonna che ha conosciuto la catabasi, che ha soggiornato tra le fiamme degli inferi  (fino a divenire nera) pur di portare conforto ai dannati; e che pertanto assolve a una funzione risolutiva  in un complesso simbolico quale quello tindaritano, solidale fin dai suoi primi movimenti fondativi al binomio Alto-basso, cielo-mare, buio-luce, bianco-nero».

A questo punto entra in scena Donna Villa, «un altro “doppio” della Madre nera, che trova uno spazio significativo in un corollario del complesso leggendario tindaritano e che ci porta a richiamare un’altra figura femminile, evocata quasi come un toponimo, ovvero la malvagia Donna Villa, sirena antagonista della Madonna, che abita una grotta sottostante il promontorio su cui si affaccia il santuario. Si tratta di una grotta quasi inaccessibile, situata a nord est della collina (…). Le analogie tra Donna Villa e le raffigurazioni mitiche delle Sirene tirreniche appaiono evidenti: dalla voce che incanta, alla signoria del mare, dalla voracità cannibalica al bimorfismo, che nel caso dio questa maga terrifica non degenera nel teriomorfismo, ma piuttosto nella coesistenza di una doppia immagine, nella conversione estrema di bellezza in orrore (…). In analogia con la Sirena tirrenica, Donna Villa presenta, lo si è visto, una contiguità con il mondo marino che ne accentua la signoria delle acque   , ma al tempo stesso, al pari delle Sirene greche, - esseri ctonii assoggettati al potere della terra – la maga si radica anche nell’elemento ancestrale di un mondo sotterraneo (il suo nome evoca persino il carattere fondativo di una Signora che si sedentarizza), di un territorio di cui controlla al tempo stesso le sponde e le faglie. Inoltre coerentemente con il percorso evolutivo che tra il IV e il III secolo a.C. rimuove l’elemento ferino e umanizza la Sirena, anche nostra Donna Villa assume sembianze umane o quanto meno perde la morfologia ibrida della donna uccello o della donna pesce. Conserva, invece, attraverso il destino che riservas alle sue vittime, le funzioni del mostro inghiottitore. E la sua stessa dimora, quell’antro che così simile a quella in cui abbiamo rinvenuto una Demetra nera, allude ancora una volta all’ambiguità di una donna che reinfeta e camuffa la morte in sonno, ipnotizzando con il suo canto ispirato e incoraggiando le sue vittime ad un salto nell’abisso che evoca le vertigini della morte inziatica. Il che legittima un’altra variante del bricolage mitico sulle Sirene, dove si narra che, dopo il ratto di Persefone, le Sirene abbiano cercato invano la giovane compagna volando lungo le coste della Sicilia        e arrestando la loro ricerca a Capo Peloro, che da allora in poi divenne la loro dimora».

Esiste dunque un rapporto fra la Madonna nera del Tindari e Donna Villa? Secondo la Faranda sì. «In questa prospettiva – scrive – appare significativa una variante del motivo leggendario di Donna Villa che la mette in diretto antagonismo con la Vergine. Vi si narra che la maga, bellissima e perversa, piuttosto che i marinai fosse dedita a rapire le spose alla vigilia del matrimonio o nella prima notte di nozze, inducendole a buttarsi nel precipizio che le avrebbe portato alla sua grotta, per poi ammaliarle con un canto seduttivo che le faceva cadere in un sonno profondo, e quindi eliminarle, intonando una struggente nenia funebre. Fina quando una fanciulla di nome Maria Tindara (nomen omen), figlia di una vedova di “santi costumi”, non viene protetta dalla omonima Regina del Cielo, che appare in sogno alla madre e le dona un rosario, raccomandandole di apporlo al collo della figlia il giorno delle nozze. Quando Donna Villa, dopo avere rapito la vergine viene a contatto con il rosario, si dissolve e scompare con un gemito lungo e disperato. Guadagnato l’accesso alla grotta e ritrovata la ragazza, il promesso sposo decide allora di costruire, a eterna memoria dell’evento, un tempio alla Madonna nera. (…). Proprio sul registro della prova iniziatica, la variante “cristianizzata” di Donna Villa ricalca anche, con inversione di senso e analogia di significativo, il motivo narrativo della bambina salvata per intercessione della Vergine. Anche in questo caso abbiamo una coppia madre-figlia, ma qui, a differenza del racconto che dà vita ai Laghetti (il mare morto di Marinello», la fede di una madre terrena diventa il viatico di salvezza, mentre la figura mariana si sdoppia: il motivo del mare ritorna così ad evocare l’isomorfismo inquietante di un femminile non riducibile alla potenza moralizzante della Vergine e prende le sembianze di Donna Villa. . La Madre divina. Dal canto suo pur conservando la potenza demetriaca attraverso il dono magico di un rosario ( i cui grani evocano implicitamente il melograno o le spighe sacre a Demetra e la cui complicità con una madre mortale riverbera il proprio dolore di fronte ala perdita di una figlia) perde i connotati salvifici chi vigila e presiede su un rito di passaggio esemplare, rappresentato dal lancio, dal salto, dal tuffo in acque salmastre, da quel katapontismos ( il tuffo nelle acque) che nella mitologia greca ha assunto le caratteristiche di un vero e proprio rito iniziatico connesso con il distacco dalla condizione adolescenziale».         

 

27 «Nelle leggende e nelle tradizioni associate alla Madonna nera, ritorna il mito del ritrovamento in cui la statua della Madonna nera, veniva ritrovata casualmente in all’interno di una foresta oppure nascosta in luoghi particolari, dove gli animali si rifiutavano di passare. Sovente, quando la statua veniva recuperata e riposta in un posto sacro o in una chiesa, miracolosamente essa spariva per tornare al posto occulto e segreto dove era stata inizialmente trovata ed allora lì, proprio lì, in quel preciso punto, che la devozione dei fedeli innalzava una cappella votiva in suo onore. IL culto è anche immancabilmente collegato, con luoghi rinomati per i poteri di guarigione delle salutari acque che sgorgano nei pressi, come per esempio a Tindari, ove si trova un santuario dedicato ad una Madonna nera. Secondo le testimonianze di molte persone, le acque dei cosiddetti laghetti, che si trovano sotto il santuario, sono considerate curative per tutti coloro che hanno problemi reumatici». Il brano è tratto da un post sul sito della “Commenda Santa Maria Magdalena dei Templari di Palermo”, visibile all’indirizzo http://www.osmthpalermo.it/files/la_venerazione_della_madonna_nera.pdf

28 Faranda Laura, Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia Antica, Armando Armando editore, 2009,

2Faranda Laura, Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia Antica, Armando Armando editore, 2009,

Il percorso intorno a Tindari potrebbe chiudersi qui. Ma elementi richiamati nelle pagine precedenti sono presenti nel territorio intorno a Tindari. Per esempio a Librizzi, dove la Madonna della Catena, aveva bloccato il carro trainato da buoi durante il trasporto verso il paese. «Il popolo librizzese – racconta Carmelo Arlotta - non resta indifferente di fronte al culto della Madre Celeste. Va in cerca di una Immagine bella che possa simboleggiare la Madre del Divin Redentore, ma non la trova. Finalmente nel 1600 quando Gaggini o la sua scuola, da al mondo Cattolico le belle Immagini raffiguranti la Madre Celeste, sotto il titolo della Catena, i cittadini librizzesi acquistano la più bella ed ad Essa dedicano una chiesetta nel centro dell'abitato. Una pia leggenda narra che Librizzi, Montagnareale e Gioiosa Marea, si contendevano per avere la statua più bella fra le tre ultimate. Per evitare questioni vennero ad un accordo di tirare le sorti, ed a Librizzi toccò il Simulacro della Madonna della Catena la statua più bella. E' ancora la pia leggenda che lo dice: Mentre la Statua veniva veniva trasportata a Librizzi, giunta nel territorio librizzese, precisamente nella Contrada Maiesale, è diventata tanto pesante che non si è potuta, con nessuna forza, trasportare. Intervennero musiche, ma la pesantezza non è cessata, tentarono di trasportarla al suono di tutti gli altri strumenti, ma inutilmente; infine suonò la Cornamusa, cosa incredibile, la statua è diventata leggerissima e trasportabile. Così al suono della Cornamusa fu portata a Librizzi e posta nella sua chiesetta ove ha stabilito il suo trono d'amore e di misericordia, chiamando ai suoi piedi non solo i fedeli del paese, ma anche quelli dei paesi vicini, e spesso anche quelli dei paesi lontani e non ha mai cessato di consolare gli afflitti, spargere a profusione le sue grazie e Benedizioni. Anche oggi esiste la tradizione di trasportare il Simulacro in Processione col suono della Cornamusa».

Il racconto popolare non ci spiega perché la  Madonna di Librizzi non volesse proseguire e neanche quale sia il valore simbolico della Cornamusa. Resta il fatto che come la Madonna del Tindari si sia bloccata durante il trasporto. Abbiamo anche raccontato come la Vergine Nera abbia dato il suo assenso alla collocazione nel tempio greco-romano di Tindari assestando un forte calcio che la lascio la sua impronta. E a Canneto posò la sua testa su un masso dove poi fu costruita la sua chiesa.

Questi particolari li ritroviamo a Gioiosa Guardia. Forzano Natoli, infatti, scrive: « Sulla terra, di cui imprendo a parlare, e sulla quale le mie ricerche furono sempre pazienti e coscenziose, nulla ormai resta a ricerca di fonti, ed a ricostruzioni cronologiche e topografiche. La storia ha ottenuto la sua solenne vittoria; essa si è affermata una volta e per sempre. Ormai è ven­tura d’ingegno sottilissimo l’insinuarsi nei meandri intricati della leggenda; ed io che mi sono occupato, sin dal 1886, delle ricerche storiche del mio nativo suolo, credo prezzo dell’opera di portare i miei modesti studi alla ricerca di quelle leggende. Comincio con un motto che corre per le lingue di tutti, e che si presta a varie interpretazioni, secondo l’intenzione di chi lo pronunzia: “Giujusa, terra amurusa, cu cincu grana s’havi na carusa”. A chi vieni dato di sentir pronunciare quel mottetto, non sem­bra, di primo acchito, alquanto difficile la relativa spiegazione, giacché, partendo da un criterio preconcetto, che puzza di corruzione morale, si viene a dar la stigmata più riprovevole sui co­stumi di quelle antiche generazioni, Ecco perché i maligni e gli ignoranti, giudicando, con leggerezza inaudita, strombazzano ai quattro venti che a Giojosa Guardia le donne eran tutte di facili costumi; che in esse era sbandato il senso della pudicizia e che il più lurido mercimonio rappresentava il ludibrio di quelle genti.

Ma essi erano lontani dalla verità; e per amor del natio loco, a me sembra utile di chiarire il concetto esatto espresso dal mottetto, “Giujusa, terra amurusa”, esprime proprio quel significato che la natura ha voluto imprimere a quella terra, colla sua posizione topografica ed etnografica. Giojosa Guardia sorgeva sulla sommità di un monte, scoperto a tutti i venti, in una pianura vasta oblungitudinale. La posizione era in­cantevole nei mesi di primavera ed in quelli estivi, per l’aria pura, sana, e per il miraggio esteso, su cui, all’intorno, vagava l’occhio dell’osservatore. Le terre ubertose, gli alberi di una su­perba e ricca vegetazione, l’acqua limpida e fresca, che sgorgava dalle rocce vicine, rendevano quel sito non solo delizioso, ma adatto agli amorosi idilli di quelle forosette vezzose, che i poeti antichi inneggiavano colle loro anacreontiche. Ragion per cui quella denominazione: “terra amorusa”, nel dialetto siciliano, compendia quanto di più bello, di sublime, di casto, possa rintracciarsi sulla terra; sì che, inspirando ai fortunati mortali i sensi amurusi, cioè: quelli di affetto vero, e di stima, la si rendeva anche cara ed accetta alle celesti divinità.

La leggenda, infatti, nota che la Ver­gine Maria soleva, negli antichi tempi, visitare quei locali di Giojosa Guardia, perché li riteneva degni della sua divina prote­zione, e per attestate il suo amore, volle lasciare il ricordo di un suo miracolo. In un sito, denominato Convento Vecchio, ove sor­geva un grandioso fabbricato per ricovero dei monaci, e presso la strada che conduce nell’interno di Giojosa Guardia, esiste un ma­cigno di pietra liscia, di natura calcarea, sopra la quale pietra si scorge, chiaramente, l’impronta di un piede umano, colla forma naturale delle cinque dita. Da quella strada soleva passar la Ma­donna, e su quella pietra si fermò un giorno, quando le venne incontro una misera feminuccia di Giojosa, chiedendo grazia per l’esaudimento di parecchi voti. Essa, prostrata, così le disse:

Ogni passu chi dugnu, ogni pidata

Chistu è suduri chi ghietto pi tia

Ci l’offirisciu a da madri avvucata

Da virginedda chiamata Maria”.

E la Madonna rispose:

Non dubitari no, chi non su ‘ngrata,

Chisti suduri chi ghietti pi mia

Un giornu vinirò senza chiamata

E di lu celu, pi salvari a tia.  

La Madonna lasciò, su quella pietra, l’impronta del suo piede divino, ed è a tutti visibile nel sito sopraindicato, Anche i padri religiosi dell’antichità, che solevano recarsi a Giojosa Guardia, per l’esercizio del loro ministero, appellavano Giojosa: amorosa e religiosa, A completare il mottetto, segue: “Cu cincu grana s’ havi ‘na carusa”. Chi di voi, o lettori, non si ferma a riflettere ed a vagliare bene il significato di quelle parole, andrà ruminando nella sua mente le idee più basse e volgari intorno alle povere caruse di Gioiosa! Or bene, da banda i falsi pensamenti  dappoichè quel mottotto ha un significato solamente ristretto alle condizioni topografiche e speciali del paese, e non mai ai costumi, più o meno, leggieri del popolo e alla sua educazione. Col detto: “Cu cincu grana s’havi ‘na carusa” non si è voluto intendere che le donne si davano facilmente alla mala vita, e che il prezzo della di loro di­sonestà era appunto esiguo, per la mancanza del pudore; ma piut­tosto: che, in Gioiosa Guardia, il sesso femminile era talmente ab­bondante e dava un contingente così elevato, in proporzione del sesso maschile, da determinare quel popolare ritornello, quasi per dire: Ce n’è ad ufo delle donne, e che a volerle comprare, se si trattasse di genere commerciabile, si comprerebbero a prezzo mitissimo (con cinqne grana) per l’abbondanza della materia prima! E’ una figura rettorica, che trova anche il suo addentellato nella storia del censimento, come andrò per dire, Quel sistema di pro­lificazione, con prevalenza del sesso femminile, si è incarnato e se­guito anche nella nuova Giojosa, dove moltissime son le famiglie con un numero esagerato di figlie. Da quali ragioni fisiologiche esso dipenda, o da quali cause climatologiche è determinato, non è tanto facile l’indagare, senza studiarne i temperamenti, l’aria, i cibi, l’acqua e gli usi del popolo. Per affermare, poi , il nostro ragionamento, potremmo qui riportare altri mottetti, relativi a paesi finitimi a Giojosa, ma ci bastano i seguenti, ripetuti per i comunisti di Montagnareale e Sorrentini: La Muntagna è terra siccagna, Cu cincu grana s’ havi na cavagna, quasi per dire che quella terra alpestre abbonda di erbaggi e di pastorizia come Gioiosa abbondava di caruse. Sorrentini terra suttili cu cincu grana s’havi un barile, per alludere alla grande produzione di vino».

Dunque anche a Gioiosa, dove bisogna ricordare scorre un fiume sotterraneo noto agli abitanti, dunque un luogo tellurico, ha la sua Madonna che lascia l’impronta su una roccia. E infine c’è Montagnareale con la sua Madonna delle Grazie. Sappiamo che la pesante statua, 1.200 chilogrammi fu portata in processione la prima volta per le strade del paese il 15 agosto del 1706.  Come annotò l’arciprete don Nicolao La Greca, «l'anno 1706 si portò in processione la prima volta l'immagine della Santissima Vergine delle Grazie, che è di mar­mo, ai 15 di ag., con devozione esemplare di tutto il popolo, havendosi fatto per tre sere innanzi la festa la luminaria d'oglio per tutta la sera e case habitate in campagna e pi doppo ancora. (La) detta Immagine fu portata da Pa­lermo e per timore di non potersi conducere non si conducea: ai travagli dell'arciprete D. Nicolao La Greca che per la luminaria fece ven­dere a sue spese l'oglio ad un grano la misura e piccoli. Laus Deo et Beatissimae e Virgini Gratiarum. Per portare in processione detta Immagine si elessero cinquanta nudi che ven­nero dall'Immacolata Concezione, con corone di spine e discipline, dopo il Sanctus della Messa cantata e ricevettero il Santissimo Sacra­mento dell'Eucarestia in detta Missa cantata».

Ma sappiamo anche che prima di questa statua ne esisteva un’altra in mistura, molto più leggera, che veniva portata in processione ad aprile. Nel registro parrocchiale della chiesa Madre degli anni 1684-1743 si legge infatti: “«A di 11 d’Aprile 1706 si fece la Benedizione Pasquale in questa Madre Chiesa e doppo si andò in processione in Belvedere con portare l’immagine della Beatissima Vergine delle Grazie e di Belvedere processionalmente si arrivò a San Sebastiano, dove dietro la Chiesa si fece l’acqua e si Benedissero li campi, e dalla detta Chiesa si venne a Santo Nicolao e da Santo Nicolao alla Santissima Annunziata e doppo si ritornò alla Madre Chiesa e si  rendero le grazie a sua Divina Maestà di tanto beneficio ricevuto. Si fece benedizione generale di tutto il popolo ed accorsero tutti l’abitanti di detto territorio e si communione di quasi due mila persone con devozione ed esemplarità grazie al Signor Arciprete che fece la funzione don Nicolao La Greca, a travagli del quale si fece tanta opera pia et la spesa fu onze cinque».  [45]

La cosa interessante di questo scritto è che “si andò in processione in Belvedere”. Chi abita a Montagnareale sa benissimo che oggi Belluvidiri è quel piccolo altopiano dove sorge il cimitero del paese e la piscina comunale che ha preso il posto del vecchio campo di calcio. Un luogo che un tempo si raggiungeva da un ripida salita che partiva dietro la chiesa di Santa Caterina e che i muntagnari chiamavano “u timpuni”. Ora, per antica tradizione orale, un tempo a Belluvidiri c’era quello che gli abitanti chiamavano “u vulcano”, qualcosa che doveva assomigliare molto ad un geyser, una manifestazione proveniente dal sottosuolo. Dunque potevano esserci manifestazioni gassose, emissione di fanghi o di acqua termale a cui venivano magari attribuite delle virtù curative. Siamo allora in presenza di un fatto tellurico che spiega il pellegrinaggio della Madonna delle Grazie, qualcosa che viene ereditato da luoghi come Tindari e ricordato nel territorio. Inoltre, bisogna anche ricordare che la corrispondenza fra Belvedere, in effetti da questo luogo si può ammirare una meravigliosa vista del Golfo di Patti e Milazzo con sullo sfondo le isole Eolie, e Belluvidiri non è automatica.

Infatti Maugeri, grande indagatore dei castelli siciliani, scrive: «Si può ipotizzare che rientrassero nella categoria multiforme delle domus e dei palatia anche i complessi di Bellumvidere e Bellumreparum, da localizzarsi in Sicilia occidentale, presso l’odierno comune di Campobello di Mazara. L’area, infatti, era boscosa, ricca d’acqua, semispopolata e di nessuna importanza militare attorno al 1240. Non è possibile ipotizzare per essi altra destinazione che quella di “castelli forestali” [46]. Entrambi, però, sono definiti castra nell’unica fonte d’età sveva che li ricorda[47] e vengono compresi nel novero dei castra exempta che comprende normalmente castelli di grande importanza militare: non bisogna quindi mai perdere di vista il dato di fatto di una certa ambiguità di base del lessico».

Ora una cosa è certa: il terreno dove ove sorge Montagnareale e il piccolo altopiano del Belvedere ai tempi normanni e svevi era sicuramente ricoperto da un bosco, ricchissimo d’acqua e probabilmente già caratterizzato dal “vulcano”. Dunque il toponimo Belvedere troverebbe una ratio in una utilizzazione di quello spazio, aperto su una vasta zona, marittima,  in funzione militare e di sorveglianza. La stessa che aveva quello che i Muntagnari chiamavano “U carziri”, un grosso torrione circolare che sembra avere la funzione di sorvegliare la valle del torrente sottostante dove sorgevano diversi mulini ad acqua. Questa costruzione, dimezzata negli anni 70 per infelice scelta amministrativa sembra assomigliare molto al torrione che sorgeva vicino il palazzo vescovile di Patti. Monumento crollato per incuria anch’esso negli anni 70.

Il pellegrinaggio al “vulcano”, come scrive don Nicolao La Greca, si svolse l’11 aprile 1706, cioè una settimana dopo Pasqua. E questo è un altro elemento importante, perché colloca questo rito fra quelli propiziatori del raccolto.


[1] Abulafia David, Il grande Mare. Storia del Mediterraneo, Mondador, Milano, 2013, pp 22-23

«Nel lungo periodo del Paleolitico inferiore e medio, la navigazione del Mediterraneo fu probabilmente un evento raro. Alcune delle attuali isole di questo mare erano probabilmente accessibili mediante lingue di terre, poi sommerse dall’innalzamento del livello marino. La grotta Cosquer, nei pressi di Marsiglia, conserva incisioni di Homo sapiens databili già a 27.000 mila anni a.C. e dipinti antecedenti al 19.000; oggi si trova sotto il livello del mare, ma quando era abitata il litorale del Mediterraneo distava diversi chilometri dalla costa. La prima prova plausibile di brevi traversate marine risale al Paleolitico superiore, cioè a ridosso dell’11.000 a.C. Fu allora che l’uomo mise piede per la prima volta nell’isola cicladica di Melo, alla ricerca del vetro vulcanico di ossidiana utilizzato per fabbricare utensili litici dal taglio più affilato di quelli in selce». E qui abbiamo una notazione importante su cui torneremo: fa la sua comparsa l’ossidiana. Abulafia poi prosegue: «La Sicilia ci ha lasciato decine di siti paleolitici risalenti a quella stessa epoca, spesso situati presso la costa. I loro abitanti consumavano grandi quantità di molluschi marini, pur dedicandosi anche alla caccia di volpi, lepri e cervi. Si prendevano cura dei defunti, cospargendone le salme con uno strato di ocra rossa e a volte adornandole con collane decorative (…). Le istorazioni delle grotte siciliane rivelano la presenza di una società di cacciatori-raccoglitori che, come si evince da altri indizi, fabbricava efficaci utensili in selce e quarzite e praticava attività rituali, come la magia propiziatoria alla caccia. Per catturare le prede usavano archi, frecce e lance, vivevano in grotte e caverne, ma anche in accampamenti all’aperto. Non erano molto diffusi e se i lori antenati erano giunti in Sicilia con mezzi galleggianti di fortuna, le successive generazioni non si avventurarono in ulteriori esplorazioni marine (…)».

[2] Sul Paleolitico superiore in Sicilia confrontare Domenico Lo Vetro – Fabio Martini, Il Paleolitico e il Mesolitico in Sicilia, in Istituto di Preistoria e Protostoria, Atti della XLI Riunione Scientifica, Dai Ciclopi agli Ecisti, Società e territorio nella Sicilia preistorica e protostorica, San Cipirello (Pa), 16-19 dicembre 2006, Firenze 2012, pp 20-47

[3]  Fasolo Michele, Dinamiche dell’insediamento nel territorio di Tindari, Atti del VII congresso di Topografia antica. “Ricerche di topografia antica: bilanci critici e prospettive”, parte III, in Rivista di topografia antica, XXI, 2011, Congedo editore Srl, Roma, 2012, pp 121

[4]  Fasolo Michele, citato, pp 121

[5] Fasolo Michele, citato, pp  

[6]  Abulafia David, citato pp

[7] Michele Fasolo  opera citata. Pp 121

[8] Enrich Neumann, La Grande Madre, Edizione Astrolabio, 1974-1981. «La psicologia analitica, quando parla di “immagine primordiale“, della “Grande Madre”, non si riferisce ad un’entità concretamente esistente nello spazio e nel tempo, ma ad un’immagine interiore che agisce nella psiche umana. L’espressione simbolica di questo fenomeno psichico è costituita dalle raffigurazioni e dalle forme della grande dea femminile che l’umanità ha rappresentato nelle creazioni artistiche e nei miti. L’emergere di tale archetipo e la sua attività possono essere osservati nel corso di tutta la storia umana: esso è attestato, infatti, nei miti e nei simboli dell’umanità primitiva, così come nei sogni, nelle fantasie e nelle raffigurazioni creative di persone sane o malate del nostro tempo”.

[9] Gimbutas Marija, La religione della Dea nell’Europa mediterranea. Sacro, simboli, società, in Le civiltà del Mediterraneo e il Sacro, volume 3, Jaca Book- Massimo. Milano 1992, pp 49-67

«La religione che durante il Neolitico e l’età del bronzo fiorì nell’area mediterranea, nell’Europa in generale, nell’Anatolia e nel Vicino Oriente, affonda le sue radici antichissime nel Paleolitico, I simboli più remoti, incisi su pietra o su manufatti di osso e di corno, riflettono la profonda credenza in una dea generatrice della vita, che dalla sacra oscurità del suo grembo dà origine a tutta la creazione: si tratta della natura stessa, che dona e toglie l’esistenza, che è sempre capace di trasformarsi nel ciclo eterno costituito dalla vita, dalla morte e dalla rinascita».

           [10] Martinelli Maria Clara, L’insediamento preistorico dell’età del Bronzo, in Spigo Umberto ( a cura di), Tindari. L’area archeologica e l’antiquarium, Rebus edizioni. Milazzo, 2005, pp 11

«I livelli preistorici sono stati scoperti nel 1950 e nel 1952, durante un approfondimento dello scavo archeologico nel vano B10 della casa B appartenente all’insula IV dell’impianto urbanistico romano. L’insediamento si doveva estendere sulla collina perché altri materiali furono rinvenuti in modo sporadico all’interno di alcune cisterne (A, B, E) delle case romane. Pur risultando in gran parte sconvolto dalle costruzioni più tarde, lo strato preistorico conserva in alcuni punti le tracce di un abitato dell’età del Bronzo, riconoscibili in “ammassi di pietre e terra bruciata” forse identificabili come focolari. La documentazione archeologica ha contribuito a definire la facies culturale di Rodi-Tindari fornendo i caratteri e lo stile principali. Studi recenti inquadrano un aspetto più locale che si sviluppa nell’ambito del territorio della Sicilia orientale che si affaccia sullo Stretto di Messina e nella Calabria meridionale».

[11] Collura Francesco, Gioiosa Guardia, modalità insediative e urbanistica di un centro indigeno di epoca tardo arcaica in area nebroidea: https://www.academia.edu/7108280/Gioiosa_Guardia_modalità_insediative_e_urbanistica_di_un_centro_indigeno_di_epoca_tardoarcaica_in_area_nebroidea

[12] Rangoni Laura, La donna Sacra, Dalla Grande Madre alle Madonne nere, Gruppo editoriale Castel Negrino, Milano, 2008, pp 12. «Le Veneri paleolitiche sono simboli di una dea Madre, personificazione, al tempo stesso, della terra che porta in grembo le messi da cui spunta il nuovo grano e della donna fonte di vita. La loro caratteristica iconografica più evidente è una notevolissima accentuazione delle parti anatomiche femminili: gli attributi sessuali sono ben visibili, e sono raffigurate con grandi fianchi ed enormi seni a indicare una maternità incipiente; inoltre sono nude e si nota l’assenza di tratti specifici quali il volto, le mani o i piedi. Queste caratteristiche sono simili in tutte le opere ritrovate in un territorio immenso che si estende dalla Siberia ai Pirenei».

[13] Rangoni Laura, La donna Sacra, Dalla Grande Madre alle Madonne nere, Gruppo editoriale Castel Negrino, Milano, 2008, pp 19

[14]  Rangoni Laura, La donna Sacra, Dalla Grande Madre alle Madonne nere, Gruppo editoriale Castel Negrino, Milano, 2008, pp 19

[15]   Maria Gimbutas, La religione della Dea nell’Europa Mediterranea: sacro simboli società, in Le civiltà del Mediterraneo e il sacro, Trattato di antropologia del sacro, vol.3, Editoriale Jaca Book, Milano 1991

[16]    Begg Ean, Il misterioso culto delle Madonne nere, Edizioni L’età dell’Acquario, Torino, 2006, pp. 58

[17] Rangoni Laura, La donna Sacra, Dalla Grande Madre alle Madonne nere, Gruppo editoriale Castel Negrino, Milano, 2008, pp 31: «Esiste una continuità tra la figura divina della Dea paleolitica e il culto neolitico di divinità femminili adattate alle nuove esigenze dei gruppi umani, fattisi stanziali. Per convenzione il Neolitico si situa fra il 10.000 e il 4.000 a.C. circa e in questo periodo l’uomo inizia a usare utensili di pietra levigata, impara ad addomesticare gli animali e comincia a coltivare le piante commestibili».

[18] Gimbutas Marija, citato, pp 49

«Il culto della divinità femminile è sempre legato ad un sistema sociale di tipo matriarcale e inoltre al culto degli antenati, di cui la donna, in quanto madre, costituisce il centro. L’emergere nel Paleolitico, di questa religione della dea doveva essere dunque il riflesso della struttura sociale esistenti. Tale antichissima società matrilineare passò poi a venerare la donna in quanto progenitrice della famiglia e della stirpe, rafforzando in questo modo l’identità sessuale della suprema divinità. Le figure femminile del Paleolitico, in avorio o in pietra morbida non sono quindi “Veneri” o “amuleti” fatti per risvegliare il desiderio sessuale del maschio. Il loro significato era ben più complesso: esse erano connesse al dono e alla protezione della vita, e insieme alla morte e alla rigenerazione».  

[19] Rangoni Laura, La donna Sacra, Dalla Grande Madre alle Madonne nere, Gruppo editoriale Castel Negrino, Milano, 2008, pp 22  

[20] Testart Alain,  

[21] Maria Gimbutas, La religione della Dea nell’Europa Mediterranea: sacro simboli società, in Le civiltà del Mediterraneo e il sacro, Trattato di antropologia del sacro, vol.3, Editoriale Jaca Book, Milano 1991

[22] Lo Iacono Nino, Nauloco e Diana Facellina, Un’ipotesi sul territorio di Patti fra Mitologia, Storia e Archeologia. Armando Siciliano Editore, Messina, 1997: “Secondo quanto ci tramandano gli storiografi antichi la località denominata Nauloco faceva parte di un più vasto territorio chiamato dell’Artemisio, dove cioè predominava il culto per Artemide, la Diana dei Romani. DI tale area il centro vitale e propulsore era l’impianto templare di Diana Facellina (Templum Facellinae Dianae). Secondo Lo Iacono il porto del Nauloco sorgeva ad ovest di Tindari e il tempio di Diana Facellina doveva essere collocato fra Tindari e il Timeto.

[23] Gulletta Maria Ida

[24] Umberto Spigo (a cura), Tindari. L’area Archeologica e l’antiquarium, Rebus edizioni. Milazzo, 2005

[25] Umberto Spigo (a cura), Tindari. L’area Archeologica e l’antiquarium, Rebus edizioni. Milazzo, 2005

[26] Brunn Heinrich, Artemia Eupraxia, in Annali dell’Istituto di corrispondenza Archeologica, Volume 21, pp 264-269

[27] Portale Maria Chiara

[28] Van Cronenburg Petra, Madonne nere. Il ministero del culto, Edizioni Arkeios, Roma, 2004. L’8 settembre è anche la data della festa di un’altra Madonna nera: “Spesso sulla base dei rituali delle processioni, si può ancora stabilire quale Madonna Nera riconduca alla venerazione della virgo paritura. Se veniva portata attraverso le strade la Notre-Dame de Vernouillet  per la festa della sua nascita l’8 settembre, questa processione era per le coppie senza figli e per gli innamorati a cui il rituale prometteva fertilità ed amore”.

[29] Badolati Eduardo, Tindari, Cenno storico descrittivo con dieci tavole fuori testo, Stabilimento per le arti grafiche Alfieri e Lacroix, Milano 1921 pp 110-111

«A settembre cominciano i pellegrinaggi d’autunno; quelli che hanno luogo nei giorni 5, 6 e 7 sono i più grandiosi perché coincidono con la festa della Madonna (8 settembre). Spettacolo veramente pittoresco e caratteristico, feerie, di cui non ha l’idea se non assistendo, quella che che offre l’insieme della festa e del pellegrinaggio! Non solo dal circondario e dalla provincia ma da tutti i paesi della Sicilia e della Calabria accorrono i pellegrini, dopo avere percorso 20, 50 e non di rado100 chilometri, la maggior parte a piedi, il resto su qualsiasi genere do veicoli dal tipico carretto istoriato alla vecchia diligenza sconquassata, dal carro tirato da un paio di bovi rossi alla veloce auto signorile e tutti questi veicoli infioriti, dai cavalli o muli o bovi infiocchettati, imbubbolati, impennacchiati, sono stracarichi di gente che canta le appassionanti canzone isolane con accompagnamento di chitarre, di zampogne, di cembali e di nacchere. Sono diecine e diecine di migliaia, gente per cui felicemente si composero litigi ed ire, per cui si attutirono spasimi ardenti e i calmarono voglie inappagate, gente provata dalla sventura e dai triboli e che n’è stata salvata, che fu straziata dal male ed è stata miracolosamente guarita, storti ch’ebbero raddrizzate le membra atrofizzate, ciechi che riebbero la vista, donne gentili a cui tornò a sorrider eun labbro sul quale esse credettero il sorriso spento per sempre. E il carico dolorante d’infermi, di vecchi cadenti, di fanciulli ignari, di gente tutta che il male colpì nelle sue forme più varie e più ripugnanti accorre al Tempio da dove una fede che non ammette limiti o discussioni li farà tornare guariti. Anche qui – come nei primordi dell’umanità – è la fragile creatura che pel sollievo dei suoi mali s’affida ad una potenza sovrumana e da essa spera e vuole. E queste miriadi di colpiti nel corpo e e nello spirito traggono a Lei, offrono ceri e oro, si prostrano, invocano, reclamavano a gran voce, a calde lacrime, con i nomi più teneri, coi gesti più espressivi, con un fervore che pare demenza e… spesso la grazia si compie e spiriti e corpi tornano mondi dalle turpi piaghe, scevri dalle colpe che li oppressero. Dopo la visita al Tempio la moltitudine si sparpaglia nei piani d’intorno ove un numero incalcolabile di mercanti offre ogni sorta di merce, dalle filigrane, alla càlia (ceci abbrustoliti), dalle pannine al tamburello, dagli utensili agricoli alle scarpe intonso. Ed anche qui – come venticinque secoli addietro – questa lieta e chiassosa, felice e soddisfatta perché una mano potente ha steso un velo pietoso sulle sue miserie, siede sulle riarse restoppie, a gruppi, a brigatelle, a riunioni di familiari e di compaesani e consuma allegramente il pasto nel quale compaiono le prime carni suine dell’annata e nel quale scorrono torrenti di vino poderoso e rosato».

[30]  Fazello Tommaso, le due deche dell’historia di Sicilia, Palermo 1628. È il Fazello a raccontare di Sòprato fatto fustigare due volte da Verre. Ma lo storico siciliano confonde il nome di Sòprato con la sua carica e forse esagera nella descrizione della malvagità di Verre.

«I Tindaritani per la gran cupidigia c’haveva Caio Verre d’havere l’imagine di Mercurio, furono molto afflitti, trà quali Proagora c’hera dei nobili della città, sopportò maggiore afflittione di tutti gli altri, perochè essendogli stato comandato da Verre, che portasse la detta imagine a Messina e havend’egli riposto che non poteva, e non doveva fare simil cosa, senza licenza, e consiglio del Senato, Verre lo fece battere con le verghe, e lo minacciò anche di farlo ammazzare s’egli non la levava via quanto più presto. Ma non ottenendo egli la seconda volta di domandarla al Senato, benché egli piangendo pregasse Verre, che gli desse tal licenza, ne volendo usar la propria autorità, per fare quest’atto si brutto fu di nuovo preso da’ ministri, e littori di  Verre, e ribattuto con le verghe un’altra volta, fu legato (quantunque fusse di verno) alle statue di Marcello, ove stette legato tutto il giorno, e tutta la notte, all’aria al freddo , e alla pioggia, e vi stette tanto che il popolo havendone compassione, promise a Verre l’imagine, e rimettendo tutta la vendetta in Dio, lo levarono di quivi più morto che vivo. Per questa scelleratezza e crudeltà, essendo stato accusato Verre al Senato Romano da Zosippo e Ismenia, Gentiluomini Tindaritani, operarono in maniera che con l’aiuto e favore di Cicerone, egli fu privo della Pretura», pp 190.

[31] Fasolo Michele, Tyndaris e il suo territorio, Volume II, Carta archeologica del territorio di Tindari e materiali,  MediaGeo, Roma, 2014, pp 215:  

«Conosciamo alcuni di questi cittadini agiati di Tindari, che denotano un’onomastica tutta greca: il ginnasiarca Demetrio, Zosippo e Ismenia “homines nobilissimi et principes Tyndaritanae civitatis”, il proagoro Sopatro, il nobile Desione padre del navarca Aristeo ingiustamente messo a morte, Polea. Costoro spendono parte della propria ricchezza per l’abbellimento della città e delle proprie dimore. Il loro rapporto con le attività produttive nel territorio e diretto e continuo. Possiedono infatti residenze fuori citta, che dobbiamo immaginare lussuose per i beni che le ornano e la capacita di dare dignitosa ospitalità al governatore dell’isola, come nel caso della villa di Cn. Pompeius Philo. La loro adesione al sistema di potere romano appare totale. Dall’onomastica proprio di Cn. Pompeius Philo apprendiamo come il patronato, in particolare quello dei Pompei specificatamente legato alla presenza in Sicilia nell’82 a.C. di Pompeo, di cui il personaggio reca il prenome ed il gentilizio, sia uno dei mezzi di mobilita sociale dei ceti emergenti locali e della loro cooptazione nel sistema di potere romano e quindi si venga a configurare come una delle forme più precipue attraverso le quali prende consistenza nel tempo

la romanizzazione. Nel I sec. a.C. Tindari ha raggiunto un buon livello economico, che ne ha fatto una nobilissima civitas, in qualche modo sostanziato dalla rassegna delle razzie di opere d’arte, pubbliche e private, perpetrate da Verre. Oltre alla statua aurea di Mercurio, tra le ventuno sottrazioni compiute dal governatore in Sicilia e portate in giudizio da Cicerone ben quattro riguardano proprio Tindari: una patella sottratta a Trasone, una patera ad Eschilo e dei sigilla ex patella a Cn. Pompeius Philo, una bardatura di cavalli a Cratippo. Verre e riuscito a saccheggiarle agli incauti ospiti che gliele avevano esibito nelle loro ricche residenze. Si tratta di oggetti di grande valore, non solamente il ministerium ordinario composto di argenta potoria ed escaria, ma argenteria, probabilmente di antiquariato, cesellata e decorata con sigilla ed emblemata da artisti di talento, segno della privata luxuria che pervade la provincia greca più profonda. Questi beni sono posseduti ed esibiti da una classe cittadina la cui ricchezza proviene da attività produttive evidentemente redditizie, in settori molteplici, ricostruibili sulla base delle fonti: la cerealicoltura, la viticoltura, la pesca,  l’artigianato ceramico, il commercio. Il gruppo sociale che esercita queste attività appare urbano, grecofono e mostra di aver assimilato modelli e comportamenti propri dell’aristocrazia peninsulare e della koine culturale ellenistico-italica.», pp 215

[32] Gulletta Maria Ida Patriiza, Tyndaris per uno status quaestionis sulle ipotesi di ubicazione dell’agorà/foro, in Sicilia occidentale, Studi, rassegne, ricerche. (a cura di Carmine Ampolo), Atti delle settime giornate di studi sull’arte elemica e la Sicilia occidentale nel contesto mediterraneo. Erice 12-15 ottobre 2009, Edizioni della Normale, Pisa, 2012: «Fu da ultimo il ginnasiarca Demetrio ad ottenere il consenso del Senato per il trasferimento della statua a Messina», pp. 300

[33] Marco Tullio Cicerone, accetta l’incarico di difendere la citta e nelle Verrine, fornisce ai senatori romani la versione “autentica degli abitanti di Tindari:  «Avete udito poco fa la testimonianza la deposizione dei delegati di Tindari; persone fra le più rispettabili e autorevoli della loro città, secondo i quali il Mercurio venerato presso di loro con celebrazioni annuali e con la più profonda devozione, quella che Publio Africano  dopo la conquista di Cartagine aveva donato loro a ricordo e testimonianza non solo della sua vittoria, ma anche della loro fedeltà di alleati, fu sottratta loro da Verre con un colpo di man: un delitto favorito dalla sua posizione di potere. Egli infatti, non appena arrivato in quella città, subito, quasi che un’azione simile gli fosse imposta non solo da ragioni di opportunità, ma addirittura da una necessità imprescindibile, quasi che fosse un incarico ricevuto dal Senato e dipendesse dalla volontà del popolo romano, così senza perdere tempo diede ordine che la statua fosse rimossa e trasportata a Messina. Questo parse vergognoso a quelli cui veniva riferito: perciò in quella sua prima visita non insistette. Sul punto di andarsene, però prescrive al proàgoro Sòprate, di cui avete udito la testimonianza, di rimuovere la statua; di fronte al suo rifiuto, Verre formula feroci minacce e subito se ne parte da quella città. Sòpatro sottopose la questione al Senato, dove si levarono energiche voci di protesta da tutti i settori. Per dirla in breve, qualche tempo dopo il nostro uomo si ripresenta agli abitanti di Tindari e senza indugi chiede della statua. Gli si risponde che Il Senato ha espresso parere alla rimozione e ha deciso la pena di morte per chiunque l’avesse toccata in violazione del decreto del Senato: nello stesso tempo gli si fa notare che si tratterebbe di un sacrilegio. Allora lui: “MA che mi vieni a raccontate con la storia del sacrilegio, della pena, del Senato? Non ti lascerò in vita: ti farò flagellare a morte se non mi viene consegnata la statua.”. Sòpatro, fra le lacrime sottopone una seconda volta la questione al Senato, sottolineando la bramosia e le minacce di Verre. I senatori non danno a Sòpatro nessuna risposta ufficiale, ma tolgono la seduta in preda alla più profonda costernazione. Intanto Sòpatro, convocato con un messaggio dal governatore, spiega la cosa e ribadisce che non c’è nessuna possibilità di una conclusione positiva. E si aggiunga che Verre (nulla infatti deve essere trascurato a mio parere, quando si parla della sua sfrontatezza) affrontava simili questioni pubblicamente mentre amministrata la giustizia assiso sulla sedia curale, dall’alto del suo seggio di governatore. Si era in pieno inverno, il clima, come avete udito proprio dalle parole di Sòpatro, era rigidissimo e pioveva a dirotto, quando Verre ordina ai littori di scaraventare giù dal porticato, dove egli sedeva nell’esercizio delle sue funzioni, Sòpatro in mezzo alla piazza e di denudarlo. L’ordine era stato per l’appunto dato appena impartito, che già avresti potuto vedere Sòpatro spogliato e assediato dai littori. Tutti credevano che il disgraziato pur essendo innocente sarebbe stato fustigato, ma questa volta non l’azzeccarono. Verre avrebbe fustigato senza un buon motivo un alleato e un amico del popolo romano? Non è malvagio fino a questo punto; non si può pensare che una sola persona abbia in sé tutti i vizi; egli non è mai stato crudele. Trattò Sòpatro con delicatezza e clemenza. In mezzo alla piazza sorgono delle statue equestri dei Marcelli, come in quasi tutte le altre città di Sicilia. Tra queste Verre scelse la statua di Gaio Marcello, le cui benemerenze nei confronti di quella città e di tutta la provincia erano molto recenti e molto grandi. Su di essa fa levare saldamente a cavalcioni Sòpatro che nella sua città non era soltanto un personaggio eminente, ma ricopriva anche la più alta carica pubblica, In che consistesse la tortura non è possibile che a qualcuno sfugga, visto che era stato legato nudo alla mercè del vento, della pioggia, del freddo. Eppure questo trattamento ingiusto e feroce non ebbe fino sino a quando i cittadini di Tindari e tutta la folla presente, profondamente scossi dall’efferatezza dell’oltraggio e mossi a compassione, non ebbero costretto con le loro grida il Senato a promettere a Verre la statua di Mercurio di cui stiamo parlando. Gridando che sarebbero stati gli stessi dei immortali a vendicarsi di lui, per il momento non era giusto che perisse un essere umano innocente. Allora i senatori in folla vanno dal governatore e gli promettono la statua. Così Sòpatro, ormai pressoché assiderato, viene tirato giù più morto che vivo dalla statua di Gaio Marcello».

[34] D’Andria Francesco, I regali per Atena Troiana, Il Sole 24 Ore, inserto Domenica del 14 gennaio 2018.

«Sino a quindici anni fa era la zona più degradata della cittadina di Castro, nel Salento, C’era pure la cisterna del liquame che le era valsa il brutto nome di fondo Chiavica, Infine il muretto di recinzione di un orto a chiudere la vista sul mare. Poi la scoperta di alcuni blocchi di fortificazioni messapiche e gli scavi che hanno portato alla luce il santuario di Minerva e la zona è divenuta metà obbligata per i visitatoti. (….) Lo scorso ottobre sono finalmente ripresi gli scavi archeologici, grazie al finanziamento di un privato, Francesco Lazzari e le scoperte non si sono fatte attendere; fondamentale l’identificazione dell’altare, l’unico di tipo greco che si sia mai ritrovato in tutta la Puglia, dove se si esclude Taranto, l’intero territorio era abitato da popolazioni indigene.  Ma l’Athenanion di Castro era luogo di incontro tra culture diverse, in un luogo strategico della navigazione, e fucina di innovazioni. L’altare si presenta come un basso recinto coronato da un fregio dorico, in blocchi ben squadrati di calcarenite, largo due metri e mezzo e lungo almeno otto metri del tutto simili a quelli presenti nei santuari della Magna Grecia e della Sicilia. Lo scavo ha portato alla luce anche i depositi di fondazione e si possono così riconoscere le azioni rituali compiuti al momento di consacrare la struttura, nella metà del IV secolo a.C.: una quantità consistente di ossa degli animali sacrificati erano conservate in due buche, insieme ai vasi per le libagioni (…) Ma già dalle prime analisi ci informano che si sacrificavano soltanto buoi e pecore: della vittima si dividevano le parie parti secondo modalità specifiche: alla divinità erano destinate la testa e la parte inferiore delle zampe e queste ossa soltanto erano deposte nella fondazione dell’altare, secondo un ordine preciso, separando le mascelle  dalle ossa lunghe. In altre zone dell’area sacra si trovano invece vertebre e costole degli animali, chiaramente relative alle parti che venivano consumate sul posto dai fedeli e dagli addetti al rito; associate ad esse sono sempre presenti le coppe per le libagioni, ma anche i frammenti di pentole, a indicare che il cibo era cotto e mangiato all’interno del ricetto santuariale. Accanto alle ossa i depositi votivi hanno restituito gli oggetti offerti ad Atena: migliaia di coppe di argilla per versare vino e latte, a testimoniare la frequentazione di gente comune, ma anche oggetti preziosi: anelli di argento, figurine di bronzo, scudi e altre armi metalliche, statuette e bacini in marmo delle Cicladi ed infine sculture in avorio considerate fra i doni più rari».

[35] Omini pede stare, Saggi architettonici e circumvesuviani in memoriam Jos de Waele, a cura di Stephan T.A.M Mols e Eric Moormann, Electa Napoli.

La struttura urbana di Tindari, l’ultima fondazione coloniale greca in Sicilia ricalca dei moduli ben precisi nel mondo ellenico. «Appare chiaro che il piano di Tindari si inserisce direttamente nella tradizione dell’urbanistica modulare del V secolo a.C. ma con un’importante modifica nelle proporzioni dell’isolato che risulta molto meno allungato rispetto ai rapporti 1:4 (Noto e Camerina) e 1:5 (Napoli) adoperati nella prima metà del secolo precedente: correzione che in Magna Grecia presenta Eraclea (1:3) - e che in Grecia è documentata , come è noto a Olinto /1:2.5) – nella quale continuiamo a vedere la lezione ippodamea che detta proporzioni più armoniche del modulo base. In Sicilia, se i dati disponibili sono esatti, la prima città in cui si riscontra questa novità sarebbe Morgantina, il cui piano, che presenta isolati 1:3, sarebbe da attribuire alla rifondazione di Ducezio, o piuttosto, a nostro parere, potrebbe datarsi dopo il 424 a.C., anno in cui il Congresso di Gela attribuì il territorio a Camarina. Ma Tindari si inserisce anche in un processo di urbanizzazione della costa settentrionale della Sicilia che ha luogo a partire dalla seconda metà del V secolo che ci sembra si sia svolto lungo linee urbanistiche analoghe. Nulla purtroppo sappiamo ancora di Calacte, anch’essa fondazione di Ducezio, mentre dati non completi sono disponibili per Alesa che Arconide di Herbita fondò nel 404 a.C., ma il cui piano progettuale ci sembra quello più vicino a Tindari nella configurazione complessiva, nelle dimensioni degli isolati (larghezza 100 piedi) e nella posizione dell’agorà compresa tra l’abitato e l’acropoli, esattamente come nella colonia dionigiana. Questa posizione della piazza, collocata all’estremità dell’abitato e servita dalla plateia principale è tipica delle città di altura di questo periodo e ricorre anche a Termini Imerese   (407 a.C) e a Solunto (intorno al 340 a.C., ma si riscontra anche a Camarina  dove il sistema delle due agorà va visto in relazione con il porto. (….). Tindari pertanto si inserisce chiaramente nel processo di urbanizzazione della costa settentrionale della Sicilia che ha luogo fra la fine del V secolo e la prima metà del IV secolo, ma le scelte che presiedono alle sue strutture urbanistiche non possono essere viste isolatamente; ma vanno lette in un contesto più ampio che comprende non solo la Sicilia e la Magna Grecia, ma anche la Grecia, l’Asia minore, la Cirenaica e il mondo punico».

[36] Marcello Mollica

[37] Giardina Nicola, L’Antica Tindari. Cenni storici. Tipografia dell’Istituto San Bernardino, Siena 1882. pp. 180

«Si vuole che fin dalla età anteriore al Cristianesimo fosse esistito in Tindari un tempio dedicato alla Dea Cibele. Era un culto che, sin dai primi tempi del politeismo, quasi generalmente prestato in Sicilia a quella divinità, e con distinzione in tutti i paesi graniferi, tra i quali il territorio di Tindari meritavasi uno speciale riguardo, riconosciuto dallo stesso Cicerone. Si favoleggia esser Cibele figlia del Sole, moglie di Saturno, che con altri nomi si chiamava Ope, Rea, Vesta, Deìmedea. Idea, Berecintia, e si rappresentava con un disco in mano, una chiave nell’altra, una torre sulla testa, una feste cosparsa di fiori, circondata da una molteplicità di animali. I sacerdoti di lei detti Galli, Coribanti, Dattili dansavano intorno all’idolo con salti determinati e con movimenti straordinari. Della statua marmorea di questa divinità sino alla metà del secolo passato esisteva il capo disvelto dal tronco presso i sacerdoti del Santuario della Madonna.  Ma essa ora non più non esiste: e forse per esecranda fame di oro venduto, destinato ad adornare qualche museo particolare di stranieri signori; come probabilmente accadde al mezzo busto di Cicerone che i nostri maggiori videro per tanto tempo collocato sulla porta di ingresso al cortile del Santuario, e che oggi non esiste più. Si vuole che, da tempi immemorabili, sule rovine del tempio di Cibele sia stata fabbricata l’attuale cappella della Madonna. Cosi avvenne in tanti altri luoghi (…) Noi però non abbiamo tal documento da poter provare, senza timore di essere contraddetti, che il Santuario del Tindari sia stato fondato sulle rovine del tempio di Cibele, come gratuitamente asseriscono taluni cronisti ecclesiastici. Come neppure ci è noto, se esso sia qualche edifizio superstite alla devastazione dell’intera città, avvenuta in epoca saracena; né che esso sia

[38] Maria Gimbutas, La religione della Dea nell’Europa Mediterranea: sacro simboli società, in Le civiltà del Mediterraneo e il sacro, Trattato di antropologia del sacro, vol.3, Editoriale Jaca Book, Milano 1991:

«La dea gravida dell’agricoltura: la madre Terra Per almeno 8.000 anni l'animale sacro alla Madre Terra fu in particolare il maiale, di cui sono state ritrovate rappresentazioni in argilla o in pietra risalenti all'inizio del Neolitico. Le culture di Vinea e di Karanovo, dd v millennio a.C., produssero maschere di maiali, spesso decorate con orecchini, e vasi cerimoniali con coperchi a forma di testa suina. Ha una testa dd genere, per, esempio, una piccola figura della dea, ritrovata nel Vicino Oriente e attribuita al III millennio a.C., compostamente seduta in trono. Dello stesso periodo è un vaso a forma di maiale proveniente dalle Cicladi. Queste maschere e vasi cerimoniali implicano probabilmente celebrazioni per la semina e per il raccolto, accompagnate dall'offerta di sacrifici alla dea e da danze mascherate. Anche nella Grecia classica ed ellenistica, del resto, si svolgevano celebrazioni analoghe in onore di Demetra, durante le quali venivano sacrificati alla dea e a sua figlia Persefone alcuni porcellini da latte. Gli Ateniesi, infatti, chiamavano Persefone «colei che uccide i porcellini da latte». Duemila anni più tardi, nel XVIII secolo, un'usanza assai simile è ancora documentata in Lituania, dove si sacrifica ritualmente un porcellino nero alla Madre Terra, al tempo della benedizione autunnale dei semi. Queste usanze tradizionali dimostrano come il maiale fosse considerato importante per la fertilità dei campi. L'intimo legame fra il porcellino e il frumento è peraltro riscontrabile nelle figurine di argilla decorate con chicchi di grano che appartengono alla cultura di Cucuteni (Ucraina occidentale) e che risalgono al v millennio a.C. Senza dubbio la venerazione preistorica per la Madre Terra sopravvisse immutata fino al tempo in cui subentrò il culto di Demetra e Persefone in Grecia, di Opi a Roma, di Nerthus nelle regioni germaniche, di Zemyna o Zemes Mate nell'area baltica, della Madre Umida Terra nelle regioni slave. La Madonnà Nera non è in fondo diversa da questa antichissima Madre Terra, e il suo colore scuro rimanda a quello della terra fertile. Il suo fondamentale intervento miracoloso consiste nel ripetersi annuale della fecondità. Gli antichi riti misteriosi, celebrati, lungo i millenni della preistoria e della storia, nelle caverne, nelle necropoli, nei templi o all'aria aperta, servivano appunto ad esprimere la gratitudine degli uomini nei confronti della fonte di ogni vita e di ogni nutrimento e a partecipare ritualmente al segreto dell'abbondanza della terra».

[39] De Grossi Mazzarin Jacopo – Minniti Claudio, Studi sul sacrificio animale nel Mediterraneo antico. Alcuni contesti a confronto, Santuari mediterranei tra Oriente ed Occidente, Intere e contatti culturali, Atti del Convegno Internazionale, a cura di Russo Tagliente Alfonsina e Guarneri Francesca, in atti del Convegno internazionale, Civitavecchia- Roma 2014, Scienze e lettere Srl, Roma, 2016: «ll sacrificio era il momento fondamentale del rito religioso e consisteva nell’uccisione di un animale che veniva offerto alla divinità: una parte della vittima era consumata dagli uomini che ne mangiavano le carni, un’altra veniva donata alla divinità. In questo modo si suggellava il legame di solidarietà reciproca tra i membri della comunità umana e quella divina», pp 329

[40]  Barreca Francesco, Tindari colonia dionigiana, in Atti dell’Accademia dei Lince, anno CCCLIV, 1957:

«… proprio nel luogo ove poi sorse il centro della città greco romana, sono venuti alla luce i resti di un abitato preistorico. La scoperta, avvenuta durante la precedente campagna di scavo, è preziosa perché, integrando la storia, ci dice come i coloni greci avessero per loro un luogo ove già da secoli viveva una popolazione indigena con la sua organizzazione e i suoi usi e le sue tradizioni».  

[41] Barreca Francesco, Tindari colonia dionigiana, in Atti dell’Accademia dei Lince, anno CCCLIV, 1957:  «Quale fu la sorte di questo centro siculo nel 396 a.C.? Non sappiamo, ma è probabile che di esso non tutto sia andato distrutto. È probabile fra l’altro che i Greci abbiano ricevuto dai Siculi il culto di una divinità femminile impersonante le forze della natura nei suoi molteplici aspetti, assimilandolo all’antichissimo culto di Elena, la cui testa figura nel dritto delle monete greche di Tindari. Infatti, non solo l’attuale culto della Vergine (che anche le tradizioni locali asseriscono sovrapposto a quello romano di una divinità femminile, la Magna mater), presenta tracce evidenti di un più antico culto pagano di carattere ctonio (specialmente nella grande festa settembrina, la tradizionale uccisione del maiale, altrimenti inspiegabile considerando il calore della stagione ancora estiva), ma la favola popolare della Donna Villa, di sapore prettamente locale, sembra di proiettare quel culto in un’epoca di assai più antica di quella dionigina. È evidente infatti che Donna Villa, fata abitatrice di un antro in vista del mare sotto capo Tindari, dove essa attirava, amava e poi uccideva i naviganti precipitandoli in una cisterna visibile in fondo all’antro altro non era che una specie di Circe, e, come quella, dovette appartenere alla cerchia antichissima delle divinità pre-arie, indigitazione anch’essa della grande Potnia mediterranea, indomita amante e dispotica signora di ogni esistenza. Ciò spiegherebbe come i Messeni della colonia dionigina la abbiano potuto identificare con la loro Elena, altra indigitazione della Potnia. Più tardi, non se ne sarebbe più compresa l’illimitata e tremenda libertà e gradatamente la Grande Dea sarebbe diventata Donna Villa. Nonostante l’affermarsi di divinità maschili come i Dioscuri e Mercurio, essa dovette tenacemente sopravvivere nel culto popolare, se il Cristianesimo ritenne di doverle contrapporre e sovrapporre la Vergine, riuscendo a cancellarne il ricordo e a sublimarne il culto, non però a cacciarla del tutto dalle misteriose profondità dell’animo popolare e della suggestiva caverna sotto i il Capo Tindaro».

[42] Capodieci

[43] Micalizzi Carmelo, La leggenda di Donna Villa, in Messina ieri e oggi, http://www.messinaierieoggi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1734:la-leggenda-di-donna-villa&catid=52:carmelo-micalizzi&Itemid=2519

«Nell’immaginario della gente del luogo Donna Villa e una donna necessariamente bella nell’aspetto e il nome riassume funzione e semantica di quelle speciali qualità estetiche. Infatti Villa, “Velia”, “Bella”, da cui, ad esempio, i cognomi DI Velia, Divella, (Di Bella), La Velia, (La Bella), e il toponimo Villezzi (Bellezze). (…). La metanalisi di Donna Villa, l’antico nome della tradizione, e di Donna Bella, l’apparente non è spiegato, riconosce la proposizione emendata di Donnavida che conduce alla lettura di numerosi toponimi siciliani, pertinenti soprattutto alla cuspide nord-orientale dell’Isola, alle varianti trascrizioni di Donnavita, e Donna Vita, alla falsa etimologia di Donna Vile e alle più stratificate corruzioni di Danavedao e Tannavita. Ma il luogo identifica più un fitonimo, la versione popolare del nome di un’erba che definisce (o ha definito in passato) un territorio caratterizzato da sua cospicua presenza. È questa, come compendia Girolamo Caracausi, una pianta dalle foglie sottili, una specie di caprifoglio. Appartiene alla famiglia delle Rubiacee che raggruppa alcuni arbusti rampicanti con trascrizione vernacolare derivata dal latino Danaìsidis traslata dalla glossa greca, una specie di còniza indicata dai contadini come Dannaide, oppure con le diverse corruzioni sopraindicate. È lemma siciliano per millefoglio, Vachillea millefoliumm riletto da Giorgio Piccitto anche Donnavita e Tannavita. Il millefoglio, una varietà officinale di achillea, era un tempo adoperato come vulnerario, balsamo che favoriva le cicatrizzazioni di ferite e piaghe, oppure come tossico e antielmintico mentre oggi è utilizzato come erba foraggio».

[44] Faranda Laura, Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia Antica, Armando Armando editore, 2009,  

[45] L’esistenza di un’altra statua è evidente nei numerosi lasciti dei defunti alla Madonna prima del 1706 e soprattutto da un documento conservato nell’Archivio della diocesi di Patti: l’elenco dei beni della chiesa Matrice, definita “sub titulo Santa Maria La Nova”, di quello che allora si chiamava il casale della Montagna stilato dal vescovo don Bartolomeo Sebastian nel giugno del 1573. Elenco minuzioso che fra le altre cose riporta «septi intorchi jnnanti la jmagini di nostra donna dela gracia tri dili quali sono su di chira bianchi ad 4 micchi, dui di chira comuni ad tri micchi e laltro di chira comuni ad un micchio». Volendo essere scrupolosi si può sollevare il dubbio se il vescovo Sebastian si riferisca ad una statua o ad un quadro, visto che nei registri parrocchiali spesso si indica con il termine “immagine” sia un quadro che una statua. Ma il dubbio viene completamente fugato il 30 giugno del 1585, quando sale al casale della Montagna il vescovo Gilberto Isfar y Corillas e visita la chiesa Madre che viene ancora indicata “sub titolo Santa Maria La Nova”. E questa volta il vescovo dice di avere visto “una jmagine della madonna in mistura sub titolo de santa maria la gratia con suo figliolo». Dunque non ci sono dubbi. Nella chiesa madre c’era una statua della Madonna delle Grazie con suo figliolo. Ma non era di marmo, bensì in mistura. Cioè era costruita con un misto di legno, gesso, tessuti come il cotone o il lino. Dunque doveva essere abbastanza leggera e questo spiega come nell’aprile del 1706 potesse essere portata in processione lungo un percorso piuttosto impervio. La presenza di questa statua viene confermata, come detto, dai numerosi lasciti, dei fedeli defunti. La prima volta che la Madonna appare nei registri parrocchiali è il 18 aprile 1590, quando muore Dominica Spatola, moglie di Dominico Spatola e lascia per «l'anima sua ala ditta majore ecclesia tarì 12 et unza una ala ecclesia di santo joanni, tarì 8 alli hebdomadari che li satisferano tanti missi per l'anima sua nello altare di Santa Maria la Gratia». Due anni dopo, il 3 marzo 1592, muore Diana Traxio e lascia «per l'anima sua ala maiore ecclesia uno pedi di celso  in la contrada di Santo Pietro acciò si compra una tovaglia alla madonna della gratia».

[46] Cfr. Licinio, Castelli, p. 146.

[47] Huillard-Bréholles,, V, p. 414 (1239, ott. 6); inoltre cfr. E.Sthamer, Die Verwaltung der Kastelle im Konigreich Sizilien unter Kaiser Friedrich II. und Karl I. von Anjou, Leipzig 1914, p. 58.

L’arma del capo della piccola tribù andò a schiantarsi contro un masso ricoperto d’erba. La punta di selce si staccò dal bastone e volò via, planando sul fianco di una collina ricca di vegetazione che digradava verso il fiumiciattolo che scorreva  in una valle che migliaia di anni dopo altri uomini avrebbero chiamato IuculaLo sfortunato cacciatore cercò invano di recuperare la sua arma, ma non ci riuscì. E alla fine ritornò con gli altri cacciatori dalle donne i bambini che avevano osservato da lontano la caccia al cervo.

Il gruppo riprese la marcia verso sud, verso le alte cime da cui si vedeva la montagna fumante che secoli dopo avrebbero chiamata Etna. Si lasciavano alle spalle il mare che secoli dopo altri uomini avrebbero chiamato Tirreno e la grotta dove avevano passato l’inverno nel luogo conosciuto in futuro come Mongiove. Sarebbero tornati in quelle terre alla fine dell’estate, quando le ore di luce sarebbero diminuite, il calore del sole scemato, e la loro vita sarebbe tornata a concentrarsi nella grotta dove, nella parte più interna, avevano lasciato tutti quelli che si erano addormentati e non si erano più risvegliati. Avevano bloccato l’ingresso in modo che durante la loro assenza gli animali non facessero scempio dei corpi dei defunti, che giacevano coricati su un fianco e ricoperti di un leggero strato di terra rossa.  

L’ambiente più grande della grotta ospitava tutta la tribù, raccolta intorno al fuoco che serviva per cuocere le prede e tenere lontani gli animali più feroci. In quello spazio si nasceva e si moriva, ci si riscaldava e si mangiava, si conciavano le pelli di volpi e di lupo usando il tannino delle querce. In quello spazio si affilavano le selci per fare nuove armi e taglierini, si costruivano le frecce e gli archi. E anche se la grotta era difficile da raggiungere e facilmente difendibile, si facevano dei turni di guardia per evitare di essere sorpresi da altri uomini.  

Non si erano mai scontrati con i loro simili, ma sapevano che abitavano oltre la grande montagna ricoperta di boschi che scendeva nel mare dove il sole si nascondeva quando scompariva dal cielo. Una volta i cacciatori della tribù si erano avventurati in quella direzione guadando un fiume grande e uno più piccolo. Si erano inerpicati fino al punto più alto, avanzando guardinghi nel fitto bosco di querce, timorosi di incontrare orsi e lupi attratti dalle numerose sorgenti d’acqua.   E avevano visti quegli altri uomini camminare verso di loro sulle spiagge nascoste abitualmente alla loro vista dalla grande montagna. Sorvegliavano le donne intente a raccogliere molluschi e fare legna per il fuoco e anche loro avevano archi, frecce e lance.

Il capo si volto verso l’altro lato del mare, quello dove il sole appariva tutte le mattine, proprio sopra la grotta che occupavano. E penso che anche quegli altri uomini avrebbero potuto osservare da quella postazione il suo gruppo muoversi sulla loro spiaggia o cacciare. Diede subito l’ordine di ritirarsi ed evitare scontri. Ma da quel giorno i turni di guardia furono raddoppiati. Non sapevano da dove venivano gli altri, ma da quelli che ora dormivano aveva sentito raccontare che loro erano figli di antenati che erano arrivati in quelle terre dopo avere superato a piedi un tratto di mare che separava due terre. E non avevano più fatto il percorso inverso, raccontavano sempre gli anziani,  perché il mare ad un certo punto aveva ricoperto il passaggio  

Uno di loro, il più anziano di tutti, nelle gelide notti invernali, raccontava che anche il mare davanti alla grotta si era alzato. Perché lui, quando era bambino, andava con le donne a raccogliere molluschi sulla spiaggia e si sedeva su una grossa pietra piatta che oggi non si vedeva più, sommersa dalle acque. Gli uomini lo ascoltavano in silenzio e non sapevano cosa dire. Lo ascoltavano con interesse, ma con un po’ di paura.  Forse aveva delle visioni, forse ricordava male. Era molto vecchio. Ma anche loro avevano la sensazione che qualcosa stesse cambiando. Faceva meno freddo e c’erano più uccelli e animali da cacciare, i fiumi diventavano difficile da attraversare. Allora cominciavano a parlare del giorno dopo. Dovevano uscire a caccia e sperare di catturare una preda.[1]

Il racconto della fallita caccia al cervo è evidentemente frutto di fantasia. Ma tutto questo potrebbe essere veramente accaduto fra 12 mila e 10 mila anni fa nel vasto territorio triangolare racchiuso fra la foce del fiume Elicona, quella del torrente Naso, sulla costa del Tirreno, e il monte Polverello a sud. La grotta abitata dal nostro gruppo di uomini primitivi, Homo sapiens sapiens, poteva aprirsi sul costone di Capo Tindari. O su quello di Capo Mongiove, separato dal primo da una valle e una stretta striscia di spiaggia.  Verso occidente il capo gemello di Capo Calavà, sovrastato dal Monte di Gioiosa Guardia, chiudeva il Golfo di Patti . In mezzo una pianura alluvionale solcata dal Timeto e dal torrente Montagnareale, alimentati da decine di piccoli corsi d’acqua che scendevano dalle colline.

In questo luogo sono vissuti veramente gruppi di cacciatori-raccoglitori in uno spazio temporale che oggi chiamiamo Paleolitico superiore. Periodo compreso fra 40 mila e 10 mila anni fa.  Con gli ultimi millenni, compresi quelli che portano alla transizione verso il Neolitico, che vengono definiti Epigravettiano finale. Questo  periodo in Sicilia, sulla base degli studi condotti fino ad oggi, ha una particolare importanza grazie alle scoperte della Grotta di San Teodoro, nei pressi di Acquedolci, di fossili risalenti a quel periodo; fra cui lo scheletro quasi completo di una donna che è stata ribattezzata Thea. Gli studiosi del clima invece collocano questo periodo alla fine dell’ultima grande glaciazione, avvenuta in un lasso temporale compreso fra 100 e 10 mila anni fa, chiamata glaciazione di Wurm.  [2]

Le prove di queste presenze umane nel territorio descritto sono una lama di selce, che potrebbe essere stata usata come punta di una lancia, e un sasso scheggiato ritrovati qualche anno fa da un gruppo di ricercatori, che, guidati dal professore Michele Fasolo, hanno battuto in maniera sistematica una vasta area a ovest di Tindari.  «Due rinvenimenti isolati, provenienti entrambi da giacitura secondaria, databili genericamente nell’ambito del Paleolitico superiore, sono stati effettuati nella zona di spartiacque tra Timeto ed Elicona, più precisamente nell’aria prossima a quest’ultimo bacino. Rispettivamente una piccola lama in selce gialla, non presente tra le litologie della zona, in contrada Iuculano di Patti, e un frammento di ciottolo, forse un nucleo, recante una serie di distacchi con direzioni diverse, alcuni ortogonali fra loro in contrada Ruvoro Zingano di Montalbano Elicona. In questa zona anche il toponimo Sperlinga, sulla sponda del torrente Elicona, segnala la presenza di ripari offerti da aggetti rocciosi, e di grotte lungo il corso d’acqua, utilizzabili come rifugi stagionali», scrive Fasolo. [3]

Anche il possibile incontro-scontro con altri gruppi umani non è poi tanto fantasioso. Abbiamo già vista le scoperte nella grotta di Acquedolci che si trova a 45 chilometri da Tindari. Ma più vicine sono le grotte di Sperlinga di Novara di Sicilia, dove si trovano reperti del Paleolitico superiore, Mesolitico e Neolitico, e quelle di del riparo di San Marco a Ucria, ascrivibile al Paleolitico superiore. Rifugi che si trovano su una direttrice di transumanza stagionale che dal Tirreno risaliva verso lo spartiacque dei Nebrodi.  

Questo vuol dire, continua Fasolo che «è dunque plausibile che, a partire dal periodo di massima regressione wurmiana, dalle aree prossime a una linea di costa non molto diversa dall'attuale, dove gravitavano prevalentemente le attività delle popolazioni di cacciatori raccoglitori, alcuni gruppi risalissero periodicamente le dorsali, precipiti sui corsi d'acqua e ricoperte da rigogliose foreste di querce, sino allo spartiacque dei Nebrodi e dei Peloritani». [4]  

Secondo lo studioso, «in questo ambiente forestale caratterizzato da clima caldo, ma particolarmente umido, che si evolverà verso quello temperato freddo, le battute di caccia trovavano come preda una ricca fauna, che comprendeva asini e buoi selvatici, cervi, cinghiali, gatti selvatici, ghiri, ricci, tartarughe, e, ricercati forse soprattutto per le pelli, lupi e volpi». [5]


Ma altri uomini abitavano nel territorio dell’odierna Gioiosa Marea, dove esisteva la grotta di Cinà, oggi scomparsa. E nelle vicinanze di questo ipotetico sito, scrive sempre Fasolo, «è stata osservata una diffusione di ciottoli interi di medie e piccole dimensioni molti dei quali presentano distacchi intenzionali. I rinvenimenti certamente non sono sufficienti a provare l’esistenza di un sito o di un giacimento riferibile al Paleolitico inferiore, ma costituiscono un elemento di stimolo per nuove e più approfondite indagini».  

Abulafia, citato in nota, ritiene che gli antenati dei nostri Homo sapiens sapiens siano arrivati in Sicilia a bordo di mezzi galleggianti. Ma non tiene conto delle teorie che vogliono invece quegli antenati passati in Sicilia al momento del culmine dell’ultima glaciazione: un fenomeno che avrebbe abbassato il livello delle acque marine di diverse centinaia di metri, scoprendo dei passaggi terrestri nello stretto di Messina o permettendo il passaggio dalla Tunisia alla Sicilia attraverso piattaforme nel canale di Sicilia. Magari al seguito di tutta una serie di animali ora estinti come gli ippopotami o gli elefanti nani.  

Alla fine, Abulafia, parlando degli uomini del Paleolitico Superiore e dell’Epigravettiano, arriva a questa conclusione: «In queste bande di uomini e donne vaganti, che erravano in cerca di cibo, si spingevano in cima ad un colle o in una baia confortevole. Si accampavano di qua e di là e zigzagavano avanti e indietro, la differenziazione sociale era molto modesta. Ma man mano che acquisivano familiarità con certe zone adattavano ad esse la propria dieta e i propri costumi. Poiché seppellivano i defunti e decoravano le caverne, è probabile che avessero sviluppato un sensibile attaccamento alla terra. Di quando in quando, gli utensili in pietra passavano da una mano all’altra, circolando tra diverse comunità, oppure venivano recuperati in qualche schermaglia fra tribù. Nel complesso, comunque, questi primitivi nuclei sociali erano autosufficienti, potendo contare sul patrimonio di bacche, selvaggina e pesci offerto dalla terra e dal mare». [6]

Una lama di selce e un sasso scheggiato risalenti al Paleolitico superiore sono quindi le tracce più antiche della presenza umana in questo triangolo che si apre da Polverello e raggiunge il mare a Oliveri ad est e Capo d’Orlando ad ovest. Almeno per il momento e per quanto riguarda quello che la terra ci può restituire del nostro passato. All’altro estremo metodologico e temporale troviamo la pergamena con cui Ruggero I, il conquistatore normanno della Sicilia, decide nel 1094 la fondazione a Patti del monastero benedettino del Santissimo Salvatore Primo documento scritto in cui si cita la città e il suo territorio. Un arco temporale che copre circa 10 mila anni e che nasconde tante altre cose. Note e meno note.

Oggi,  per esempio, sappiamo che quando si passa al periodo successivo al Paleolitico, il Neolitico, «nella nostra zona le tracce più antiche sono costituite da alcuni reperti neolitici rinvenuti sulla costa a Monte di Giove: una lama di ossidiana e un frammento di ceramica bicromica attribuibile al Neolitico medio». [7]

Fa quindi fa la sua apparizione l’ossidiana che arrivava da Lipari. «Proveniente da Lipar , scrive Fasolo - il vetro vulcanico circola, come ormai sembra accertato, prevalentemente dal Neolitico all'Eneolitico finale pur essendo presente anche nell'antica età del Bronzo. I rinvenimenti-t, riconducibili ad aree di industria lirica in ossidiana, sono stati registrati in particolare sulle prime colline che si incontrano dalla costa a Saliceto, a S. Spirito, a Pignatara, dove quasi sulla sommità sono stati ritrovati anche alcuni pestelli in arenaria unitamente a ceramica d'impasto, a Monte di Giove, a Tindari. Molti ritrovamenti sono avvenuti lungo brandelli superstiti di antichi terrazzi sui torrenti Ciavola, Ronzino, Cedro e Valle-Tindari (a Scala e a Locanda)».

Ancora, «rinvenimenti sono stati effettuati verso l'interno anche nella fascia collinare più elevata, a Scarpiglia, forse in relazione con vicine cavità naturali, e soprattutto nel comprensorio Monte Saraceno-Iuculano attraversato da una direttrice viaria di lunga durata che dalla costa, seguendo lo spartiacque tra Timeto ed Elicona, si dirige verso il passo di Polverello e il sistema montuoso parallelo alla costa tirrenica».

Oltre all’ossidiana  in questa zona «è stata rinvenuta alla testata del torrente Gliara, ai piedi di Monte Saraceno, ceramica di età eneolitica, riconducibile alla facies della Conca d'Oro o a quella di San Cono (metà del III millennio a.c.). E «Sulla costa – infine - il sito individuato a Monte di Giove rientra nella facies a ceramica bicromica e sembra essere pertinente ad una società agropastorale già stabile e inserita in una rete di collegamenti a corto e medio ragg».

Uomini e donne vivevano e si aggirano su un promontorio crollato, che oggi sarebbe a sei metri sul livello del mare, ma in epoca neolitica si affacciava direttamente sulla spiaggia.

Ma altre briciole di vita le possiamo trovare se usciamo del mondo delle cose tangibili, - grotte, resti fossili, scavi archeologici, - incamminandoci nel mondo meraviglioso del mito, delle leggende e delle fiabe. E se osiamo scivolare nello studio dell’inconscio, in quello che Enrich Neumann, sulla scia di Carl Jung, chiama “l’archetipo primordiale” o “l’archetipo della Grande madre”. [8]

Possiamo andare alla ricerca di qualcosa che è nascosto dentro la psiche umana, che rimanda alla lunghissima durata dei tratti comuni dell’umanità. Tindari e la sua Madonna nera, le grotte che si aprono sotto il santuario, le altre di Mongiove, il racconto di Donna Villa, sono un buon esempio di questo intreccio fra culti ancestrali, presenza umana in certi luoghi, luoghi tellurici, e racconti popolari. Un modo diverso per raccontare di uomini e donne che hanno calpestato queste terre migliaia di anni fa e di cui ci portiamo dentro molte cose in una sorta di eterno ritorno.


Per capire come da questa Grande Madre, passando per il pantheon greco e romano, si arrivi fino alla Madonna nera di Tindari e a Donna Villa,  dobbiamo prima tornare alle grotte del Paleolitico per poi allargare l’orizzonte a tutto il Mediterraneo, all’Egitto e all’Oriente. [9] Dobbiamo tornare tenere conto del fatto che la Tindari greca occupa lo spazio dove sorgeva un villaggio siculo dell’età del Bronzo. [10]  Speculare a quello che sorgeva sul promontorio di Capo Calavà, sotto il monte di Gioiosa Guardia. [11]

  Abbiamo già visto come gli uomini che abitavano le grotte paleolitiche ricoprissero di ocra i defunti e li sistemassero come se dormissero. Come se dovessero risvegliarsi, così come si risvegliavano le piante in primavera dopo l’inverno. Già 30 mila anni fa i gruppi di cacciatori raccoglitori cominciarano infatti ad interrogarsi sulla vita e sulla morte, sui cicli lunari e sull’andamento delle stagioni. Erano sicuramente affascinati dal venire al mondo di altri uomini e donne, ma non associavano le nascite all’attività sessuale e tutto il potere della riproduzione veniva attribuito alla donna. Possiamo quindi tranquillamente immaginarli intenti a creare quelle strane statue femminili che sono state ribattezzate “veneri”. [12]  

«La Dea viene rappresentata sotto forma di donna gravida, con attributi sessuali enormemente evidenziati, il triangolo pubico molto marcato e le mani sul ventre all’incirca dal 24 mila al 10 mila a.C., mentre dal 21 a.C. cominciano ad apparire scene di parto e statuette raffigurante donne con bambini in braccio, che saranno il modello iconografico delle dee più tardi e della Madonna», spiega Laura Rangoni. [13]  

La Rangoni aggiunge che «molte dee di pantheon anche diverse tra loro sono raffigurazioni della Dea Terra, la Grande Madre di ogni essere vivente; sono il simbolo della natura nei suoi aspetti positivi – la fertilità, l’abbondanza dei raccolti, la nascita dei cuccioli, la presenza di acqua, verdure e frutti da raccogliere, e della selvaggina – e negativi, ovvero le tempeste, la carestia, la malattia, la fame. Per via di questo dualismo, tante antiche rappresentazioni della Dea Madre hanno il volto metà bianco e metà nero. Con il passare dei secoli, ogni civiltà le attribuì nomi diversi, glorificandola come fonte di vita dell’intero universo. Era la triplice Morigan per i Celti, Isis per gli Egizi, Maka per gli antichi popoli Maya e Aztechi, Kali per gli Indiani, Lilith per gli Ebrei. Ishtar per i Sumeri e i popoli accadici». [14]

Queste diverse incarnazioni della Grande Madre, chiamata anche Madre Terra viene confermata anche da Maria Gimbutas. Che lega direttamente le cristiane Madonne Nere al culto della Madre Terra: «Senza dubbio la venerazione preistorica per la Madre Terra sopravvisse immutata fino al tempo in cui subentrò il culto di Demetra e Persefone in Grecia, di Opi a Roma, di Nerthus nelle regioni germaniche, di Zemyna o Zemes Mate nell'area baltica, della Madre Umida Terra nelle regioni slave. La Madonna Nera non è in fondo diversa da questa antichissima Madre Terra, e il suo colore scuro rimanda a quello della terra fertile. Il suo fondamentale intervento miracoloso consiste nel ripetersi annuale della fecondità. Gli antichi riti misteriosi, celebrati, lungo i millenni della preistoria e della storia, nelle caverne, nelle necropoli, nei templi o all'aria aperta, servivano appunto ad esprimere la gratitudine degli uomini nei confronti della fonte di ogni vita e di ogni nutrimento e a partecipare ritualmente al segreto dell'abbondanza della terra». [15]

Un altro panorama dei culti della Grande Madre, della pluralità dei suoi culti, delle sovrapposizioni dei nomi, anche in aree geografiche distanti fra loro, è offerto da Ean Begg che cita Lilith, Lamia e Sfinge, Inanna, Kalì, Neith, Anath, Hathor e Sekhmet. Per arrivare alla conclusione che «l’influsso più diretto sul culto e l’immagine della Madonna nera proviene, senza dubbio, dalle tre dee dell’antico Medio Oriente, Iside, Cibele e Diana degli efesini, ma il loro influsso pervenne attraverso l’universalismo onnipresente del successivo Impero romano».[16]

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Il culto della Grande Madre diventa comune nel Neolitico, [17] quando gli uomini da cacciatori-raccoglitori si trasformano in contadini e allevatori e grazie alla crescita demografica e l’aumento delle risorse a disposizione nasce la pluralità dei culti.  Inoltre, particolare molto importante, il culto della Grande Madre, egemone per così tanto tempo, secondo molti studiosi, era caratterizzato dal predominio sociale femminile. [18]

«Le civiltà matriarcali – spiega ancora la Rangoni - (ma sarebbe meglio definirle ginocratiche o teacratiche), dove il principio femminile fu divinizzato ebbero grande diffusione nell’età del Bronzo e coincisero con il diffondersi dei culti misterici e con la nascita del ceppo etrusco. Nella storia della penisola italiana la civiltà etrusca fu l’ultima che permise alle donne l’accesso al mondo della religione conferendo loro anche la massima autorità spirituale nella gerarchia del culto». [19]

Naturalmente questa è solo una delle ipotesi possibili e ci sono studiosi che la criticano. [20]

La fine, o l’inabissamento, del culto della Grande Madre sarebbe stato causato dall’arrivo dalle steppe dell’est Europa di popolazioni di ceppo indoeuropeo organizzati in società patriarcale: «Gli invasori Indoeuropei, tra il 4500 e il 2500 a.C., soppiantarono la civiltà della dea e imposero la loro struttura sociale di tipo patriarcale, la loro economia pastorale e il loro pantheon divino dominato dal maschio. – scrive sempre la Gimbutas. - Ma la religione della dea, le cui tradizioni millenarie furono ufficialmente smantellate, costituì in ogni modo il ricco substrato che continuò a influenzare profondamente tutte le successive culture europee». l  La  presa del potere da parte degli uomini che costrinse pero anche a riscrivere il pantheon delle divinità e la sua genesi, come quello dell’Olimpo, dove Zeus prese il sopravvento. [21]

La Gimbutas divide comunque le divinità legate alla Grande Madre in quattro gruppi. Il primo comprende le dee che personificano le forze rigeneratrici della natura, mentre il secondo raggruppa quelle che incarnano il suo potere distruttivo. È evidente una contrapposizione fra la vita e la morte. Il terzo gruppo comprende le dee della rigenerazione, ma essendo questa legata alla morte spesso le dee si identificano con quello della morte. Infine, il quarto gruppo è quello che comprende le divinità maschili preistoriche. Questa ripartizione, è evidente, propone sovrapposizioni e confusioni fra le varie dee e i diversi culti.

E’ il caso di Tindari, dove, queste diverse versioni della Grande madre si intrecciano e in mancanza dei reperti archeologici sui templi, per capirci qualcosa bisogna battere altre strade. Ma possiamo dire subito che l’ipotesi di Egg di un legame fra la Madonna nera e le tre dee Iside, Cibele e Artemide, nome greco che corrisponde alla latina Diana degli efesini, trova più di una conferma. Tenendo conto anche che Artemide viene spesso rappresentata in collegamento con Ecate, dea cotnia, e Selene, la dea della Luna.


Al momento della fondazione, i 600 mercenari messeni arrivati nella zona avevano una identità sacra e mitologica ben precisa. Si portavano dietro dalla madre patria, insieme all’avversione per gli spartani, proprio il culto di Artemide.  Così il nome della città deriva da quello di Tindaro, re di Sparta il marito di Leda, fecondata da Zeus sotto forma di cigno, e madre dei Dioscuri, Castore e Polluce, e di Elena e Clitennestra.  Questa, andata in sposa ad Agamennone, è la madre di Oreste che avrebbe portato a Tindari la statua di Artemide, trafugata nel tempio che sorgeva nella Tauride di cui ha scritto anche Nino Lojacono in un libro su Diana Facellina, e il Nauloco, il luogo che ospitava il tempio. [22]

Accanto a questo pantheon cittadino, dover Artemide doveva avere un ruolo preponderante, c’era quello comune con il resto del mondo greco. Maria Ida Gulletta scrive relativamente a Tindari che «la documentazione numismatica ben integra la tradizione letteraria nel confermare l’esistenza di strutture legate ad economia del mare e antropizzazione dell’approdo (tipoy: prora, delfino, Posidone, tridente), quest’ultima chiaramente suggerita in episodi mitici e storici, dal ricordo di Oreste, approdato a Tyndaris con il simulacro di Artemis Phakelitis sino al racconto di battaglie svoltesi in acque tindaritane fra le guerre puniche e il bellum civile, nonché un’intensissima vitalità  di culti e corrispondente proliferazione di edifici sacri, peraltro ad oggi non rinvenuti (tipoy e/o A simboli pertinenti: Dioscuri, Zeus, Apollo, Atena, Demetra e Kore, oltre al già menzionato Posidone)». Nella nota la Gulletta spiega che la presenza del culto di Artemis Eupraxia e di Ecate a Tindari è attestata da Battistoni. (ricercare documenti). [23]

Umberto Spigo entra ancor di più nel dettaglio e ci spiega: «Una rilevante testimonianza della vita religiosa della Colonia è offerta dall’iscrizione frammentaria in greco di prima età imperiale su lastrina di marmo con dedica di Kornelios Magoulnianos, gerofante di Hekate, divinità infera, collegata al culto di Demetra e Kore ma che compone anche con Artemide e Selene la “trinità” della stessa Artemide»[24].

Ma abbiamo tracce consistenti anche del culto di Artemide. «Peraltro, continua Spigo - ad Artemide, con l’appellativo di Euprexia, era dedicato da “Potos e Menippe” un rilevo in marmo, proveniente da Tindari e ora al Museo Ny Karlsberg di Copenaghen, probabilmente del I secolo d.C. con scena di offerta alla dea (rappresentata con la fiaccola, che è anche attributo di Ecate) da parte di un uomo e di una donna maturi, probabilmente Protos e Menippe dell’iscrizione dedicatoria in greco – e una giovinetta. Il culto di Artemide doveva avere sicuramente una salda tradizione nel territorio a Tindari e nel suo territori, non distanti dal noto santuario di Artemide Phakelitis citato dalle fonti (fra cui Silio Italico, Punica, XIV, 258 sgg.; Appiano, Bellum civile, V 484) da ubicarsi probabilmente nella piana di Milazzo». [25]

Di questo bassorilievo sappiamo -  nel 1849 era in possesso del reverendo padre F. Pogwisch dei Minori conventuali di San Francesco di Messina che fece dono a Henry Brunn  di un disegno e di una relazione secondo cui era «scolpito in marmo siculo bianco, e come pare, delle stesse vicinanze di Tindari, è stato trovato a poca distanza dalla spiaggia che si distende fra Patti e l’antica Tindari, circa un miglio dalla prima e sei dalla seconda città, in un podere della contrada detta Orti del Vescovo, e propriamente Sant’Eramo o Elamo o Elmo. Le diligenti ricerche, che furono istituite dal possessore, per sapere qualche cosa di più preciso sul suo originario collocamento, tornarono per mala fortuna quasi infruttuose. Egli seppe dagli abitanti di queste contrade, che fu trovato in quelle vicinanze un gran vaso di terracotta ripieno in gran parte di carbone, molte ossa e la metà di una   mensa di marmo, di forma ovale. Certi avanzi di muro del genere detto emplecton si mostrarono troppo meschini per decidere, se appartenessero a sepolcro, tempietto o altro edificio». [26]

Elisa Chiara Portale, che si occupa delle sculture siciliane in epoca romana, conferma quello che scrive Spigo, ma aggiunge altri particolari. Spiega che la  Villa romana di Patti Marina, sorge «su un retroterra che non è tabula rasa ma (per quanto stravolto) possiede una storia, un paesaggio cultuale e un immaginari», e dunque, «sembra significativa la circostanza che il sito della villa, in cui si adottava un rilievo così pretenzioso celebrante la triade delia (Apollo, Artemide, Latona), potesse avere ospitato già in età ellenistica un culto di Artemide. Suggerirebbe infatti una qualche forma di continuità, o piuttosto di ricollegamento del nuovo polo con le preesistenze sacrali del territorio, la provenienza proprio da qui del famoso rilievo dedicato ad Artemis Eupraxia (ora a Copenhagen), un votivo di pregio di II-I secolo a.C., per cui non sarebbe da escludere un recupero-reimpiego nella villa romana. D’altronde, Tindari era conosciuta come uno dei poli del culto di Artemide (Phakelitis) in Occidente, in antitesi all’area calcidese dello Stretto fino a Mylai (U. Spigo) e specularmente alla madrepatria Siracusa (F. Caruso)». Conclude la Portale: «Tornando a Tindari, è facile immaginare che la villa pattese più tarda, epicentro di un cospicuo latifondo e proprietà di un dominus con importanti aderenze a Roma, quindi polo di controllo territoriale e “paesaggio di potere” nel sistema ridefinito dall’imperatore, abbia inglobato l’area di un santuario rurale greco di Artemide, assumendone in un certo senso l’eredità». [27]

Dunque, nel territorio di Tindari si venerava Artemide in due versioni. Quella chiamata Facellina, importata da Oreste, e quella chiamata Euprexia. Ma a sua volta Artemide, come detto, è associata ad Ecate e Selene. E abbiamo appena visto come vivesse a Tindari un sacerdote del culto di Ecate. Questo legame profondo con il passato lo si percepisce, nei giorni della grande festa del 7 e 8 settembre [28]dedicata alla Vergine del Tindaro, camminando da Locanda verso il Santuario, fra persone che salgono in ginocchio per sciogliere un voto sulla strada costellata di grandi massi squadrati delle antiche mura, bancarelle di venditori di càlia, dolci e giocattoli, investiti da nuvole di fumo e odori proveniente dalla brace dove cuociono bistecche di maiale, salsicce e “frittule”. [29]


Queste immagini, questi odori, ci fanno pensare ad altri uomini che percorrevano gli stessi luoghi e portavano offerte e sacrifici ad altri altari e altri dei. Sembra quasi vedere nel 70 a.C.  il proàgora Sòprate, fatto frustare due volte da Verre perché non voleva consegnare la statua di Mercurio che si trovava nella città, alla testa del corteo dei cittadini che si avviavano verso i templi per celebrare sacrifici e offrire doni agli dei e alle dee. [30]

Dietro a lui Trasone, Eschilo, Pompeius Philo, Cratippo, ricchi tindaritani. [31] Al corteo partecipano anche il ginnasiarca Demetrio [32], l’uomo che consegnerà la statua di Mercurio a Verre, Desione, Polea. E Zosippo e Ismenia, i due tindaritani che si imbarcarono alla volta Roma per denunciare Verre davanti al Senato romano e assumere Marco Tullio Cicerone come avvocato difensore della città.[33] Dietro il resto degli abitanti.  Si recavano verso l’area sacra che alla fine del V secolo a. C, o all’inizio del IV, avevano delimitato con un rito di fondazione,[34] i 600 messeni che Dionigi aveva spedito a Tindari per fondare la città, strappando il terreno alla vicina Abaceno, alleata dei cartaginesi. [35]


Ma a quale altare si dirigeva la processione? Artemide, Demetra. Cibele, Ecate? Siamo infatti in presenza di culti diversi dove le dee si intrecciano e si confondono tra loro. Per questo Marcello Mollica scrive che «a Tyndaris, per quanto nessun resto di tempio è stato portato alla luce, si dovettero quanto meno svolgere feste in onore di anche di altre divinità: Proserpina, Pane, Artemide (la cui figura appare in un bassorilievo), Poseidone, Cerere, Cibele (il cui none è legato dalla tradizione alla fondazione del santuario della Madonna, per essere stato questo costruito sui resti di un tempio a lei titolato), Bacco, Apollo, Mercurio...».  [36]

Mollica si riferisce al mito del ritrovamento della Madonna nera. La trasportava una nave proveniente dall’Oriente che a causa di una tempesta si rifugiò sotto Tindari. Finito il maltempo la nave voleva riprendere la navigazione, ma non riusciva a muoversi. Riuscì a ripartire solo quando i marinai gettarono in mare la cassa contenente la statua della Madonna. Trasportata dai pescatori locali in quella che restava di Tindari fu collocata in uno dei templi. Quello di Cibele. E la Madonna approvò la collocazione dando un poderoso calcio e lasciando un’impronta che fu trasferita su una tavoletta. Successivamente si pensò di collocarla al centro della chiesetta, ma per ben tre volte ritornò alla sua nicchia defilata e laterale. Di questa presunta collocazione, con molti dubbi si occupa anche il canonico Nicola Giardina che ne scrive nel 1882.[37]

Il lettore che avrà avuto la pazienza di seguire questo complesso viaggio nel mondo della mitologia greco-romana si stara chiedendo che fine hanno fatto le costolette di maiale, le salsicce e le “frittule” della festa dell’8 settembre e il loro rapporto con il mondo classico.  Il legame c’è e dimostra ancor di più i rapporti fra le dee della fertilità, in particolare Demetra, e la Madonna nera.  Perché «nella Grecia classica ed ellenistica, del resto, si svolgevano celebrazioni analoghe in onore di Demetra, durante le quali venivano sacrificati alla dea e a sua figlia Persefone alcuni porcellini da latte. Gli Ateniesi, infatti, chiamavano Persefone “colei che uccide i porcellini da latte”». [38]

Questa associazione fra le due dee e i suini si ritrova in tutto il Mediterraneo. Per esempio sappiamo che «a Demetra venivano sacrificati maiali giovanissimi all’interno di un pozzo o sala sotterranea, per ricordare il mito del ratto di Persefone da parte di Ade. Il mito narra che un guardiano di porci, di nome Eubuleo, si trovava con i suoi maiali nel punto in cui Ade aveva trascinato Persefone negli Inferi e che una parte del branco era stata inghiottita sotto terra con le due divinità. Numerosi sono in Grecia e Magna Grecia i santuari dedicati a Demetra i cui scavi hanno portato alla luce i resti di maialini combusti, spesso associati a statuine di terracotta raffiguranti il maiale e vasi miniaturistici votivi e figurine femminili recanti una fiaccola e il porcellino». [39]

Inoltre a Roma, in onore della equivalente Cerere, il 12 aprile si celebravano le Cerealia, dove insieme ai buoi venivano sacrificati anche dei maiali. Il sacrificio di un suino a Cerere si ritrova anche all’inizio della raccolta della porca praecidanea. Un rito che veniva eseguito prima dell’offerta dell’animale più importante offerto agli dei durante un rito o prima dell’inizio di un evento ritualizzato. Quale era per esempio la mietitura.  

Questi legami li aveva già intuiti Francesco Barreca, [40] che nel 1957 ha scritto che «non solo l’attuale culto della Vergine (che anche le tradizioni locali asseriscono sovrapposto a quello romano di una divinità femminile, la Magna mater), presenta tracce evidenti di un più antico culto pagano di carattere ctonio (specialmente nella grande festa settembrina, la tradizionale uccisione del maiale, altrimenti inspiegabile considerando il calore della stagione ancora estiva), ma la favola popolare della Donna Villa, di sapore prettamente locale, sembra di proiettare quel culto in un’epoca di assai più antica di quella dionigina». [41].


Dunque il vecchio santuario che ospitava la Madonna nera sarebbe stato costruito su un antico tempio dedicato a Cibele, una dea anatolica che aveva lentamente conquistato l’occidente greco-romano, fino ad entrare nel pantheon romano, sotto forma di pietra nera, nel 204 a.C, con il nome di Magna Mater Anche se lo stesso Mollica prende le distanze da questa tesi, proposta da padre Rosario Giordano, proponendo i dubbi di Badolato sulla reale esistenza di un tempio dedicato a Cibele. Piuttosto, sostiene Badolato, c’è stata confusione fra Cerere e Cibele. Ma la sovrapposizione e lo scambio nulla toglie alla continuità fra Grande Madre, dee legate al culto delle stagioni e la Madonna nera. Una continuità che arriva fino a Donna Villa che alla fine incarna la parte oscura, ctonia, malvagia del mito. Abbiamo visto Spigo fare un accenno a queste scomposizioni dei poteri divini quando parla dell’iscrizione di  «Kornelios Magoulnianos, gerofante di Hekate, divinità infera, collegata al culto di Demetra e Kore ma che compone anche con Artemide e Selene la “trinità” della stessa Artemide». Dunque Hecate, o Ecate, poteva essere venerata anche nelle grotte. O il suo culto vi è stato traferito dopo l’avvento del Cristianesimo e la demonizzazione di Ecate.

Una labile traccia ci porta verso questa ipotesi. Dobbiamo infatti ricordare che nel 1820 Giuseppe Maria Capodieci scriveva: ««Patti: risorta dall’antichissima citta di Tindaro, della quale si osservano gli avanzi delle mura, delle antiche porte, d’un tempietto, d’un bagno, e di marmi antichi. Vi erano alcune statue di marmo consolari, tutte mutilate, le quali nel 1815 vennero trasportate in Palermo. Nella Porta di Mare esistono rovine di fabbriche, e spelonche. In una scoscesa s’incontra la grotta chiamato Donna Villa, ove dentro si vede una diroccata fabbrica, che la dicono il Tempio. Si ammirano i vestigii dell’anfiteatro, e del teatro. Non tanto lontano resti d’un grande edificio, una strada coperta di lastroni, che conduce ad una delle porte della città ed alcuni sepolcri di fabbriche. Nel giardino del Barone della Scala, una statua consolare. Fra la cala di Patti, ed il Castello di Brolo si vede la Torre di Calavà». [42]



La narrazione popolare colloca Donna Villa proprio in una grotta che si apre veramente sotto il promontorio di Tindari.  Difficile da raggiungere è composta da tre ambienti con un balcone che si affaccia sul Tirreno; sul pavimento tracce fossili di animali, indicati come cervi, e fori nelle pareti provocati da litodomi, testimoni del periodo in cui la grotta era sotto il livello del mare.  

La storia è nota. Anche se presenta qualche variante. Donna Villa era una donna bellissima, - una variante dice brutta, ma capace di trasformarsi in una figura suadente, - che abitava questa grotta. La sua occupazione era ammaliare con il suo canto i marinai che transitavano nello specchio di mare davanti alla sua spelonca, attirali dentro, avere rapporti sessuali con loro e poi ucciderli gettando i corpi nel pozzo che c’era nella caverna. Ma solo dopo averli derubati delle loro ricchezze, creando un tesoro che da secoli avventurosi personaggi cercano nella grotta e dintorni. Quando l’agguato non riusciva e il marinaio si teneva alla larga, Donna Villa si infuriava e livida di rabbia graffiava le pareti della grotta provocando i fori a cui abbiamo dato sopra una probabile spiegazione scientifica,

Il racconto popolare, associato in qualche maniera alla narrazione sulla Madonna nera ha una sua ratio nel fatto che Tindari e dintorni appartengono a quei luoghi tellurici a cui abbiamo accennato. Ma chi è veramente Donna Villa e cosa rappresenta? Prima di addentrarci dentro al mito, si può battere la pista onomastica». [43] Ma appare subito evidente che con l’avvento del Cristianesimo la parte ctonia, oscura, legata agli Inferi e al mondo della morte, fu scissa dalle qualità della Madonna nera, subentrata alle dee della fertilità e confinata nel sottosuolo. Insieme ai suoi poteri magici e al rapporto con il mondo dei morti. È stato scritto che Donna Ville è una Circe tindaritana. Affermazione che può essere vera solo in minima parte. Quella legata appunto alla magia e ai poteri magici che aveva Circe        che come tutte le maghe evocava Ecate per mettere in atto i suoi sortilegi.



Il racconto può sembrare noioso, dispersivo. Ma va inquadrato in un contesto generale che va ben oltre il promontorio messinese: si allarga al resto dell’Italia, segue le antiche vie franchigene e quelle che portavano i pellegrini a Compostela, getta nuova luce sulle decine e decine di Madonne nere che si trovano in Francia. E alla fine dopo evocazioni mediorientali, fra Egitto e Siria, il culto di Iside di cui parleremo, il filo del ragionamento ci riporta a Tindari e alla sua Madonna. Come detto Tindari sembra avere tutte le caratteristiche per essere definito un luogo tellurico. Luogo adatto per essere abitato da uomini e dei. Fin dalla preistoria. Come tutti gli altri luoghi dove oggi si venera una Madonna nera. Laura Faranda, per esempio         lavora sulla Madonna di Tindari e quella di Canneto, «una vallata isolata, afferente al comune di Settefrati, in provincia di Frosinone», dove la chiesa che ospita la Madonna «confina con i resti di antico santuario italico del V secolo a. C., nel quale l’esplicito rinvenimento di una dedicazione alla dea Mefite non lascia dubbi sui suoi antecedenti sacrali».  26

La Faranda spiega: «Mefite è infatti una divinità osca di matrice ctonia. Protettrice al tempo stesso di acque sorgive, di armenti e di piante, con l’evolversi in senso sedentario degli ambienti nei quali si insedia il suo culto, la dea viene progressivamente associata al successo terapeutico di acque termali27, spesso solforose, utilizzate per la cura di malattie umane e animali. Mefite presiede ai passaggi e vigila sugli opposti (la vita e la morte, il giorno e la notte, il caldo e il freddo, il regno dei vivi e quello dei defunti). È forse in ragione di tale propensione che il suo culto viene connesso con il successo della transumanza, del passaggio delle greggi da un pascolo all’altro. Il suo rapporto con gli elementi naturali e con le forze ultraterrene legittima al tempo stesso giustapposizioni ellenizzate con i culti di Artemide, di Demetra e di Persefone».  Siamo quindi in presenza di una sovrapposizione di culti: da quello di Mefite a quello, per esempio, di Demetra.  [44]

«L’oltre evocato da Mefite e dalla Madonna Bruna, l’oltre esorcizzato dalle sorelle bianche legittimerebbe già un avvicinamento comparativo verso le sponde elleniche del Mediterraneo, verso gli innumerevoli scenari liminari entro cui si originano le trame culturali delle Grandi Madri ctonie». La Faranda ci porta così a Delfi, nel santuario di Apollo, e riporta la descrizione che ne fece Frazer e conclude: «Sembra di essere sull’alta valle del Canneto, affacciati sul solco profondo che per erosione carsica fa da parete alle acque del fiume Melfa. Ma potremmo essere anche sul promontorio di Tindari (…). Luoghi tutti “onfalici”, quelli appena richiamati, nella misura in cui alludono ad un terra-madre che irretisce nelle sue spire, che risucchia, che può reinfetare e riprendersi in qualsiasi momento le sue creature (umane o divine) alterando poi le tracce del suo passaggio».

La Faranda torna ìn Grecia, sempre con Frazer, per testimoniare la presenza di una Demetra nera con Cristo e il Battista. E allora a questo punto, scrive, «il gioco degli specchi si complica… e il registro del doppio non è semplice da decifrare. Certo è che coesistenza in una medesima grotta di una Demetra nera con un Pastore di Anime e il Battista, apostolo della fede e signore delle acque, richiede anzitutto uno sforzo di autodisciplina comparativa. Ma al tempo stesso evoca connessioni ineludibili tra culti mariani e processi di reincomiciamento speculari alla conversione di una comunità verso una sedentarietà più stabile, che modula l’immagine divina di uno spazio civico protetto. Ma mano che i pastori si sedentarizzano, l’oscura “Signora-Silvana” , la dea protettrice delle insidie naturali, la Ptonia, la signora dei boschi e degli animali si opacizza, fino ad assumere i tratti rassicuranti di una Vergine, figura esemplare di una mediazione del dio-padre».

Vediamo adesso cosa scrive di Tindari

«Per una Madonna nera che si reduplica e “sbianca”, ben più numerose madri nigrae sed formose, lungi dall’essere inurbate, continueranno infatti ad abitare santuari inerpicati sui monti, affacciati su rocce che precipitano a picco sul mare, temute e venerate come tutte le Madri montane, ma al tempo stesso irriducibili ad altre reduplicazioni, se non a quelle che si insinuano nel loro stesso poliformismo. Del resto, se la Mora di Canneto prende forma direttamente nel luogo sacro e inaccessibile al quale àncora il suo culto, la Madonna del Tindari – come quadi tutte le madonne nere venerate sulle sponde Tirreno - arriva da un altrove indecifrabile, consuma il suo radicamento a partire dalle acque di un mare che delimita, per opposizione rispetto alla montagna, la nozione di spazio irrelato. Così l’evento fondativo (anch’esso ricorrente) che radica la Vergine del Tindari nel suo territorio prende le mosse da un mare che, come terreno elettivo di alterità radicale, in una          polivalenza di traiettoria spaziali, arresta il percorso di una nave, fin quando l’urna che costudisce la statua venerabile non viene abbandonata nelle acque del golfo (…). I pescatori locali raccolgono la statua della Vergine e la collocano in un tempo abbandonato della citta del Tindaro, dove il simulacro, posto in piedi, imprime con determinazione una pedata di consenso che lascia, inconfondibile, un’impronta sulla parete».  In una nota la Faranda aggiunge: «Portata a terra, ascesa dai fedeli sulla cima di un promontorio che domina i due versanti della costa, la statua, come si è visto, identifica prontamente con il gesto prototipico della pedata che origina l’orma – lo spazio che si appresta a diventare di proprio dominio. E una volta collocata nell’altare di una chiesa, per tre volte la Vergine recalcitra, dando segno inequivoco di preferire una cappella laterale, un centro eccentrico che rafforza la sua funzione di controllo dello spazio inabitato».

Secondo la Faranda, «anche la Madonna del Tindari si insedia nella topografia mitica di uno spazio oscuro e viscerale, tra una montagna e un mare che penetra nelle fessure delle scogliere, che si insinua in un labirinto di passaggi sotterranei per riemergere sotto forma di sorgente, mentre nel sottosuolo il calore incandescente dei vulcani apre faglie sulfuree. Un territorio degno di una Vergine Maria, glorificata come “terra non arabilis quae fructum partuiriit”. E come nella valle di Canneto, nella valle dell’Ansanto o nelle solfatare limitrofe al Santuario di Montevergine, anche nel territorio circostante Tindari la presenza di faglie e di acque sulfuree allude ad a un altro elemento di instabilità del suolo e del sottosuolo; quello stesso che Plinio menziona evocando la distruzione dell’antica Tindari, già erosa dall’infiltrazione di acque, e che un violento terremoto fece inabissare in fondo al mare, Per l’appunto richiamando la collocazione della Vergine nel territorio, il suo arrivo da un oltremare irriducibile, il suo controllo di un mondo tellurico incandescente, i fedeli non mancano ancora oggi di segnalare la sua indiscutibile signoria sul fuoco e sulle fiamme degli inferi, attribuendo il suo colorito scuro a una permanenza salvifica tra le fiamme dell’inferno; un dominio che associato a quello delle acque rafforza l’isomorfismo del panorama sotterraneo siciliano , nel quale esiste una corrispondenza costante tra caos igneo e caos subacqueo».

Arriviamo quindi all’interpretazione del miracolo più importante della Madonna e alla nascita dei laghetti di Marinello. «E’ proprio al controllo delle acque che si connette la storia del miracolo più rappresentativo della Vergine di Tindari, quello nel segno del quale la sua devozione si attesta oltre i confini territoriali, legittimando un movimento pellegrinale più ampio, quasi che l’elemento originale del mito fondativo non risieda nella “lectio maior”, quanto nel processo infaticabile di reincomiciamento, in quel corollario narrativo che immette la leggenda in un circuito di sdoppiamento, di continuità e di contiguità al tempo stesso con il contesto locale e con gli antecedenti mitici precristiani. Elementi, figure e spazi narrabili che la memoria locale conserva ancora vivi».

«Ripartiamo ancora dall’oggi per cercare di decodificare anzitutto il presunto isomorfismo tra una Madonna nera e l’acqua stagnante che la rappresenta. Acque onfaliche, per un verso, quelle rese immobili da un intervento di vino di segno femminile, ma al tempo stesso acque che accolgono il tuffo iniziatico di una bambina ( torneremo su questo elemento, la cui salvezza è affidata ad una Madonna che ha conosciuto la catabasi, che ha soggiornato tra le fiamme degli inferi  (fino a divenire nera) pur di portare conforto ai dannati; e che pertanto assolve a una funzione risolutiva  in un complesso simbolico quale quello tindaritano, solidale fin dai suoi primi movimenti fondativi al binomio Alto-basso, cielo-mare, buio-luce, bianco-nero».

A questo punto entra in scena Donna Villa, «un altro “doppio” della Madre nera, che trova uno spazio significativo in un corollario del complesso leggendario tindaritano e che ci porta a richiamare un’altra figura femminile, evocata quasi come un toponimo, ovvero la malvagia Donna Villa, sirena antagonista della Madonna, che abita una grotta sottostante il promontorio su cui si affaccia il santuario. Si tratta di una grotta quasi inaccessibile, situata a nord est della collina (…). Le analogie tra Donna Villa e le raffigurazioni mitiche delle Sirene tirreniche appaiono evidenti: dalla voce che incanta, alla signoria del mare, dalla voracità cannibalica al bimorfismo, che nel caso dio questa maga terrifica non degenera nel teriomorfismo, ma piuttosto nella coesistenza di una doppia immagine, nella conversione estrema di bellezza in orrore (…). In analogia con la Sirena tirrenica, Donna Villa presenta, lo si è visto, una contiguità con il mondo marino che ne accentua la signoria delle acque   , ma al tempo stesso, al pari delle Sirene greche, - esseri ctonii assoggettati al potere della terra – la maga si radica anche nell’elemento ancestrale di un mondo sotterraneo (il suo nome evoca persino il carattere fondativo di una Signora che si sedentarizza), di un territorio di cui controlla al tempo stesso le sponde e le faglie. Inoltre coerentemente con il percorso evolutivo che tra il IV e il III secolo a.C. rimuove l’elemento ferino e umanizza la Sirena, anche nostra Donna Villa assume sembianze umane o quanto meno perde la morfologia ibrida della donna uccello o della donna pesce. Conserva, invece, attraverso il destino che riservas alle sue vittime, le funzioni del mostro inghiottitore. E la sua stessa dimora, quell’antro che così simile a quella in cui abbiamo rinvenuto una Demetra nera, allude ancora una volta all’ambiguità di una donna che reinfeta e camuffa la morte in sonno, ipnotizzando con il suo canto ispirato e incoraggiando le sue vittime ad un salto nell’abisso che evoca le vertigini della morte inziatica. Il che legittima un’altra variante del bricolage mitico sulle Sirene, dove si narra che, dopo il ratto di Persefone, le Sirene abbiano cercato invano la giovane compagna volando lungo le coste della Sicilia        e arrestando la loro ricerca a Capo Peloro, che da allora in poi divenne la loro dimora».

Esiste dunque un rapporto fra la Madonna nera del Tindari e Donna Villa? Secondo la Faranda sì. «In questa prospettiva – scrive – appare significativa una variante del motivo leggendario di Donna Villa che la mette in diretto antagonismo con la Vergine. Vi si narra che la maga, bellissima e perversa, piuttosto che i marinai fosse dedita a rapire le spose alla vigilia del matrimonio o nella prima notte di nozze, inducendole a buttarsi nel precipizio che le avrebbe portato alla sua grotta, per poi ammaliarle con un canto seduttivo che le faceva cadere in un sonno profondo, e quindi eliminarle, intonando una struggente nenia funebre. Fina quando una fanciulla di nome Maria Tindara (nomen omen), figlia di una vedova di “santi costumi”, non viene protetta dalla omonima Regina del Cielo, che appare in sogno alla madre e le dona un rosario, raccomandandole di apporlo al collo della figlia il giorno delle nozze. Quando Donna Villa, dopo avere rapito la vergine viene a contatto con il rosario, si dissolve e scompare con un gemito lungo e disperato. Guadagnato l’accesso alla grotta e ritrovata la ragazza, il promesso sposo decide allora di costruire, a eterna memoria dell’evento, un tempio alla Madonna nera. (…). Proprio sul registro della prova iniziatica, la variante “cristianizzata” di Donna Villa ricalca anche, con inversione di senso e analogia di significativo, il motivo narrativo della bambina salvata per intercessione della Vergine. Anche in questo caso abbiamo una coppia madre-figlia, ma qui, a differenza del racconto che dà vita ai Laghetti (il mare morto di Marinello», la fede di una madre terrena diventa il viatico di salvezza, mentre la figura mariana si sdoppia: il motivo del mare ritorna così ad evocare l’isomorfismo inquietante di un femminile non riducibile alla potenza moralizzante della Vergine e prende le sembianze di Donna Villa. . La Madre divina. Dal canto suo pur conservando la potenza demetriaca attraverso il dono magico di un rosario ( i cui grani evocano implicitamente il melograno o le spighe sacre a Demetra e la cui complicità con una madre mortale riverbera il proprio dolore di fronte ala perdita di una figlia) perde i connotati salvifici chi vigila e presiede su un rito di passaggio esemplare, rappresentato dal lancio, dal salto, dal tuffo in acque salmastre, da quel katapontismos ( il tuffo nelle acque) che nella mitologia greca ha assunto le caratteristiche di un vero e proprio rito iniziatico connesso con il distacco dalla condizione adolescenziale».         





 





27 «Nelle leggende e nelle tradizioni associate alla Madonna nera, ritorna il mito del ritrovamento in cui la statua della Madonna nera, veniva ritrovata casualmente in all’interno di una foresta oppure nascosta in luoghi particolari, dove gli animali si rifiutavano di passare. Sovente, quando la statua veniva recuperata e riposta in un posto sacro o in una chiesa, miracolosamente essa spariva per tornare al posto occulto e segreto dove era stata inizialmente trovata ed allora lì, proprio lì, in quel preciso punto, che la devozione dei fedeli innalzava una cappella votiva in suo onore. IL culto è anche immancabilmente collegato, con luoghi rinomati per i poteri di guarigione delle salutari acque che sgorgano nei pressi, come per esempio a Tindari, ove si trova un santuario dedicato ad una Madonna nera. Secondo le testimonianze di molte persone, le acque dei cosiddetti laghetti, che si trovano sotto il santuario, sono considerate curative per tutti coloro che hanno problemi reumatici». Il brano è tratto da un post sul sito della “Commenda Santa Maria Magdalena dei Templari di Palermo”, visibile all’indirizzo http://www.osmthpalermo.it/files/la_venerazione_della_madonna_nera.pdf


28 Faranda Laura, Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia Antica, Armando Armando editore, 2009,


2Faranda Laura, Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia Antica, Armando Armando editore, 2009,





Il percorso intorno a Tindari potrebbe chiudersi qui. Ma elementi richiamati nelle pagine precedenti sono presenti nel territorio intorno a Tindari. Per esempio a Librizzi, dove la Madonna della Catena, aveva bloccato il carro trainato da buoi durante il trasporto verso il paese. «Il popolo librizzese – racconta Carmelo Arlotta - non resta indifferente di fronte al culto della Madre Celeste. Va in cerca di una Immagine bella che possa simboleggiare la Madre del Divin Redentore, ma non la trova. Finalmente nel 1600 quando Gaggini o la sua scuola, da al mondo Cattolico le belle Immagini raffiguranti la Madre Celeste, sotto il titolo della Catena, i cittadini librizzesi acquistano la più bella ed ad Essa dedicano una chiesetta nel centro dell'abitato. Una pia leggenda narra che Librizzi, Montagnareale e Gioiosa Marea, si contendevano per avere la statua più bella fra le tre ultimate. Per evitare questioni vennero ad un accordo di tirare le sorti, ed a Librizzi toccò il Simulacro della Madonna della Catena la statua più bella. E' ancora la pia leggenda che lo dice: Mentre la Statua veniva veniva trasportata a Librizzi, giunta nel territorio librizzese, precisamente nella Contrada Maiesale, è diventata tanto pesante che non si è potuta, con nessuna forza, trasportare. Intervennero musiche, ma la pesantezza non è cessata, tentarono di trasportarla al suono di tutti gli altri strumenti, ma inutilmente; infine suonò la Cornamusa, cosa incredibile, la statua è diventata leggerissima e trasportabile. Così al suono della Cornamusa fu portata a Librizzi e posta nella sua chiesetta ove ha stabilito il suo trono d'amore e di misericordia, chiamando ai suoi piedi non solo i fedeli del paese, ma anche quelli dei paesi vicini, e spesso anche quelli dei paesi lontani e non ha mai cessato di consolare gli afflitti, spargere a profusione le sue grazie e Benedizioni. Anche oggi esiste la tradizione di trasportare il Simulacro in Processione col suono della Cornamusa».

Il racconto popolare non ci spiega perché la  Madonna di Librizzi non volesse proseguire e neanche quale sia il valore simbolico della Cornamusa. Resta il fatto che come la Madonna del Tindari si sia bloccata durante il trasporto. Abbiamo anche raccontato come la Vergine Nera abbia dato il suo assenso alla collocazione nel tempio greco-romano di Tindari assestando un forte calcio che la lascio la sua impronta. E a Canneto posò la sua testa su un masso dove poi fu costruita la sua chiesa.

Questi particolari li ritroviamo a Gioiosa Guardia. Forzano Natoli, infatti, scrive: « Sulla terra, di cui imprendo a parlare, e sulla quale le mie ricerche furono sempre pazienti e coscenziose, nulla ormai resta a ricerca di fonti, ed a ricostruzioni cronologiche e topografiche. La storia ha ottenuto la sua solenne vittoria; essa si è affermata una volta e per sempre. Ormai è ven­tura d’ingegno sottilissimo l’insinuarsi nei meandri intricati della leggenda; ed io che mi sono occupato, sin dal 1886, delle ricerche storiche del mio nativo suolo, credo prezzo dell’opera di portare i miei modesti studi alla ricerca di quelle leggende. Comincio con un motto che corre per le lingue di tutti, e che si presta a varie interpretazioni, secondo l’intenzione di chi lo pronunzia: “Giujusa, terra amurusa, cu cincu grana s’havi na carusa”. A chi vieni dato di sentir pronunciare quel mottetto, non sem­bra, di primo acchito, alquanto difficile la relativa spiegazione, giacché, partendo da un criterio preconcetto, che puzza di corruzione morale, si viene a dar la stigmata più riprovevole sui co­stumi di quelle antiche generazioni, Ecco perché i maligni e gli ignoranti, giudicando, con leggerezza inaudita, strombazzano ai quattro venti che a Giojosa Guardia le donne eran tutte di facili costumi; che in esse era sbandato il senso della pudicizia e che il più lurido mercimonio rappresentava il ludibrio di quelle genti.

Ma essi erano lontani dalla verità; e per amor del natio loco, a me sembra utile di chiarire il concetto esatto espresso dal mottetto, “Giujusa, terra amurusa”, esprime proprio quel significato che la natura ha voluto imprimere a quella terra, colla sua posizione topografica ed etnografica. Giojosa Guardia sorgeva sulla sommità di un monte, scoperto a tutti i venti, in una pianura vasta oblungitudinale. La posizione era in­cantevole nei mesi di primavera ed in quelli estivi, per l’aria pura, sana, e per il miraggio esteso, su cui, all’intorno, vagava l’occhio dell’osservatore. Le terre ubertose, gli alberi di una su­perba e ricca vegetazione, l’acqua limpida e fresca, che sgorgava dalle rocce vicine, rendevano quel sito non solo delizioso, ma adatto agli amorosi idilli di quelle forosette vezzose, che i poeti antichi inneggiavano colle loro anacreontiche. Ragion per cui quella denominazione: “terra amorusa”, nel dialetto siciliano, compendia quanto di più bello, di sublime, di casto, possa rintracciarsi sulla terra; sì che, inspirando ai fortunati mortali i sensi amurusi, cioè: quelli di affetto vero, e di stima, la si rendeva anche cara ed accetta alle celesti divinità.

La leggenda, infatti, nota che la Ver­gine Maria soleva, negli antichi tempi, visitare quei locali di Giojosa Guardia, perché li riteneva degni della sua divina prote­zione, e per attestate il suo amore, volle lasciare il ricordo di un suo miracolo. In un sito, denominato Convento Vecchio, ove sor­geva un grandioso fabbricato per ricovero dei monaci, e presso la strada che conduce nell’interno di Giojosa Guardia, esiste un ma­cigno di pietra liscia, di natura calcarea, sopra la quale pietra si scorge, chiaramente, l’impronta di un piede umano, colla forma naturale delle cinque dita. Da quella strada soleva passar la Ma­donna, e su quella pietra si fermò un giorno, quando le venne incontro una misera feminuccia di Giojosa, chiedendo grazia per l’esaudimento di parecchi voti. Essa, prostrata, così le disse:

Ogni passu chi dugnu, ogni pidata

Chistu è suduri chi ghietto pi tia

Ci l’offirisciu a da madri avvucata

Da virginedda chiamata Maria”.

E la Madonna rispose:

Non dubitari no, chi non su ‘ngrata,

Chisti suduri chi ghietti pi mia

Un giornu vinirò senza chiamata

E di lu celu, pi salvari a tia.  

La Madonna lasciò, su quella pietra, l’impronta del suo piede divino, ed è a tutti visibile nel sito sopraindicato, Anche i padri religiosi dell’antichità, che solevano recarsi a Giojosa Guardia, per l’esercizio del loro ministero, appellavano Giojosa: amorosa e religiosa, A completare il mottetto, segue: “Cu cincu grana s’ havi ‘na carusa”. Chi di voi, o lettori, non si ferma a riflettere ed a vagliare bene il significato di quelle parole, andrà ruminando nella sua mente le idee più basse e volgari intorno alle povere caruse di Gioiosa! Or bene, da banda i falsi pensamenti  dappoichè quel mottotto ha un significato solamente ristretto alle condizioni topografiche e speciali del paese, e non mai ai costumi, più o meno, leggieri del popolo e alla sua educazione. Col detto: “Cu cincu grana s’havi ‘na carusa” non si è voluto intendere che le donne si davano facilmente alla mala vita, e che il prezzo della di loro di­sonestà era appunto esiguo, per la mancanza del pudore; ma piut­tosto: che, in Gioiosa Guardia, il sesso femminile era talmente ab­bondante e dava un contingente così elevato, in proporzione del sesso maschile, da determinare quel popolare ritornello, quasi per dire: Ce n’è ad ufo delle donne, e che a volerle comprare, se si trattasse di genere commerciabile, si comprerebbero a prezzo mitissimo (con cinqne grana) per l’abbondanza della materia prima! E’ una figura rettorica, che trova anche il suo addentellato nella storia del censimento, come andrò per dire, Quel sistema di pro­lificazione, con prevalenza del sesso femminile, si è incarnato e se­guito anche nella nuova Giojosa, dove moltissime son le famiglie con un numero esagerato di figlie. Da quali ragioni fisiologiche esso dipenda, o da quali cause climatologiche è determinato, non è tanto facile l’indagare, senza studiarne i temperamenti, l’aria, i cibi, l’acqua e gli usi del popolo. Per affermare, poi , il nostro ragionamento, potremmo qui riportare altri mottetti, relativi a paesi finitimi a Giojosa, ma ci bastano i seguenti, ripetuti per i comunisti di Montagnareale e Sorrentini: La Muntagna è terra siccagna, Cu cincu grana s’ havi na cavagna, quasi per dire che quella terra alpestre abbonda di erbaggi e di pastorizia come Gioiosa abbondava di caruse. Sorrentini terra suttili cu cincu grana s’havi un barile, per alludere alla grande produzione di vino».

Dunque anche a Gioiosa, dove bisogna ricordare scorre un fiume sotterraneo noto agli abitanti, dunque un luogo tellurico, ha la sua Madonna che lascia l’impronta su una roccia. E infine c’è Montagnareale con la sua Madonna delle Grazie. Sappiamo che la pesante statua, 1.200 chilogrammi fu portata in processione la prima volta per le strade del paese il 15 agosto del 1706.  Come annotò l’arciprete don Nicolao La Greca, «l'anno 1706 si portò in processione la prima volta l'immagine della Santissima Vergine delle Grazie, che è di mar­mo, ai 15 di ag., con devozione esemplare di tutto il popolo, havendosi fatto per tre sere innanzi la festa la luminaria d'oglio per tutta la sera e case habitate in campagna e pi doppo ancora. (La) detta Immagine fu portata da Pa­lermo e per timore di non potersi conducere non si conducea: ai travagli dell'arciprete D. Nicolao La Greca che per la luminaria fece ven­dere a sue spese l'oglio ad un grano la misura e piccoli. Laus Deo et Beatissimae e Virgini Gratiarum. Per portare in processione detta Immagine si elessero cinquanta nudi che ven­nero dall'Immacolata Concezione, con corone di spine e discipline, dopo il Sanctus della Messa cantata e ricevettero il Santissimo Sacra­mento dell'Eucarestia in detta Missa cantata».

Ma sappiamo anche che prima di questa statua ne esisteva un’altra in mistura, molto più leggera, che veniva portata in processione ad aprile. Nel registro parrocchiale della chiesa Madre degli anni 1684-1743 si legge infatti: “«A di 11 d’Aprile 1706 si fece la Benedizione Pasquale in questa Madre Chiesa e doppo si andò in processione in Belvedere con portare l’immagine della Beatissima Vergine delle Grazie e di Belvedere processionalmente si arrivò a San Sebastiano, dove dietro la Chiesa si fece l’acqua e si Benedissero li campi, e dalla detta Chiesa si venne a Santo Nicolao e da Santo Nicolao alla Santissima Annunziata e doppo si ritornò alla Madre Chiesa e si  rendero le grazie a sua Divina Maestà di tanto beneficio ricevuto. Si fece benedizione generale di tutto il popolo ed accorsero tutti l’abitanti di detto territorio e si communione di quasi due mila persone con devozione ed esemplarità grazie al Signor Arciprete che fece la funzione don Nicolao La Greca, a travagli del quale si fece tanta opera pia et la spesa fu onze cinque».  [45]

La cosa interessante di questo scritto è che “si andò in processione in Belvedere”. Chi abita a Montagnareale sa benissimo che oggi Belluvidiri è quel piccolo altopiano dove sorge il cimitero del paese e la piscina comunale che ha preso il posto del vecchio campo di calcio. Un luogo che un tempo si raggiungeva da un ripida salita che partiva dietro la chiesa di Santa Caterina e che i muntagnari chiamavano “u timpuni”. Ora, per antica tradizione orale, un tempo a Belluvidiri c’era quello che gli abitanti chiamavano “u vulcano”, qualcosa che doveva assomigliare molto ad un geyser, una manifestazione proveniente dal sottosuolo. Dunque potevano esserci manifestazioni gassose, emissione di fanghi o di acqua termale a cui venivano magari attribuite delle virtù curative. Siamo allora in presenza di un fatto tellurico che spiega il pellegrinaggio della Madonna delle Grazie, qualcosa che viene ereditato da luoghi come Tindari e ricordato nel territorio. Inoltre, bisogna anche ricordare che la corrispondenza fra Belvedere, in effetti da questo luogo si può ammirare una meravigliosa vista del Golfo di Patti e Milazzo con sullo sfondo le isole Eolie, e Belluvidiri non è automatica.

Infatti Maugeri, grande indagatore dei castelli siciliani, scrive: «Si può ipotizzare che rientrassero nella categoria multiforme delle domus e dei palatia anche i complessi di Bellumvidere e Bellumreparum, da localizzarsi in Sicilia occidentale, presso l’odierno comune di Campobello di Mazara. L’area, infatti, era boscosa, ricca d’acqua, semispopolata e di nessuna importanza militare attorno al 1240. Non è possibile ipotizzare per essi altra destinazione che quella di “castelli forestali” [46]. Entrambi, però, sono definiti castra nell’unica fonte d’età sveva che li ricorda[47] e vengono compresi nel novero dei castra exempta che comprende normalmente castelli di grande importanza militare: non bisogna quindi mai perdere di vista il dato di fatto di una certa ambiguità di base del lessico».

Ora una cosa è certa: il terreno dove ove sorge Montagnareale e il piccolo altopiano del Belvedere ai tempi normanni e svevi era sicuramente ricoperto da un bosco, ricchissimo d’acqua e probabilmente già caratterizzato dal “vulcano”. Dunque il toponimo Belvedere troverebbe una ratio in una utilizzazione di quello spazio, aperto su una vasta zona, marittima,  in funzione militare e di sorveglianza. La stessa che aveva quello che i Muntagnari chiamavano “U carziri”, un grosso torrione circolare che sembra avere la funzione di sorvegliare la valle del torrente sottostante dove sorgevano diversi mulini ad acqua. Questa costruzione, dimezzata negli anni 70 per infelice scelta amministrativa sembra assomigliare molto al torrione che sorgeva vicino il palazzo vescovile di Patti. Monumento crollato per incuria anch’esso negli anni 70.

Il pellegrinaggio al “vulcano”, come scrive don Nicolao La Greca, si svolse l’11 aprile 1706, cioè una settimana dopo Pasqua. E questo è un altro elemento importante, perché colloca questo rito fra quelli propiziatori del raccolto.


[1] Abulafia David, Il grande Mare. Storia del Mediterraneo, Mondador, Milano, 2013, pp 22-23

«Nel lungo periodo del Paleolitico inferiore e medio, la navigazione del Mediterraneo fu probabilmente un evento raro. Alcune delle attuali isole di questo mare erano probabilmente accessibili mediante lingue di terre, poi sommerse dall’innalzamento del livello marino. La grotta Cosquer, nei pressi di Marsiglia, conserva incisioni di Homo sapiens databili già a 27.000 mila anni a.C. e dipinti antecedenti al 19.000; oggi si trova sotto il livello del mare, ma quando era abitata il litorale del Mediterraneo distava diversi chilometri dalla costa. La prima prova plausibile di brevi traversate marine risale al Paleolitico superiore, cioè a ridosso dell’11.000 a.C. Fu allora che l’uomo mise piede per la prima volta nell’isola cicladica di Melo, alla ricerca del vetro vulcanico di ossidiana utilizzato per fabbricare utensili litici dal taglio più affilato di quelli in selce». E qui abbiamo una notazione importante su cui torneremo: fa la sua comparsa l’ossidiana. Abulafia poi prosegue: «La Sicilia ci ha lasciato decine di siti paleolitici risalenti a quella stessa epoca, spesso situati presso la costa. I loro abitanti consumavano grandi quantità di molluschi marini, pur dedicandosi anche alla caccia di volpi, lepri e cervi. Si prendevano cura dei defunti, cospargendone le salme con uno strato di ocra rossa e a volte adornandole con collane decorative (…). Le istorazioni delle grotte siciliane rivelano la presenza di una società di cacciatori-raccoglitori che, come si evince da altri indizi, fabbricava efficaci utensili in selce e quarzite e praticava attività rituali, come la magia propiziatoria alla caccia. Per catturare le prede usavano archi, frecce e lance, vivevano in grotte e caverne, ma anche in accampamenti all’aperto. Non erano molto diffusi e se i lori antenati erano giunti in Sicilia con mezzi galleggianti di fortuna, le successive generazioni non si avventurarono in ulteriori esplorazioni marine (…)».



[2] Sul Paleolitico superiore in Sicilia confrontare Domenico Lo Vetro – Fabio Martini, Il Paleolitico e il Mesolitico in Sicilia, in Istituto di Preistoria e Protostoria, Atti della XLI Riunione Scientifica, Dai Ciclopi agli Ecisti, Società e territorio nella Sicilia preistorica e protostorica, San Cipirello (Pa), 16-19 dicembre 2006, Firenze 2012, pp 20-47


[3]  Fasolo Michele, Dinamiche dell’insediamento nel territorio di Tindari, Atti del VII congresso di Topografia antica. “Ricerche di topografia antica: bilanci critici e prospettive”, parte III, in Rivista di topografia antica, XXI, 2011, Congedo editore Srl, Roma, 2012, pp 121


[4]  Fasolo Michele, citato, pp 121


[5] Fasolo Michele, citato, pp  


[6]  Abulafia David, citato pp


[7] Michele Fasolo  opera citata. Pp 121

[8] Enrich Neumann, La Grande Madre, Edizione Astrolabio, 1974-1981. «La psicologia analitica, quando parla di “immagine primordiale“, della “Grande Madre”, non si riferisce ad un’entità concretamente esistente nello spazio e nel tempo, ma ad un’immagine interiore che agisce nella psiche umana. L’espressione simbolica di questo fenomeno psichico è costituita dalle raffigurazioni e dalle forme della grande dea femminile che l’umanità ha rappresentato nelle creazioni artistiche e nei miti. L’emergere di tale archetipo e la sua attività possono essere osservati nel corso di tutta la storia umana: esso è attestato, infatti, nei miti e nei simboli dell’umanità primitiva, così come nei sogni, nelle fantasie e nelle raffigurazioni creative di persone sane o malate del nostro tempo”.


[9] Gimbutas Marija, La religione della Dea nell’Europa mediterranea. Sacro, simboli, società, in Le civiltà del Mediterraneo e il Sacro, volume 3, Jaca Book- Massimo. Milano 1992, pp 49-67

«La religione che durante il Neolitico e l’età del bronzo fiorì nell’area mediterranea, nell’Europa in generale, nell’Anatolia e nel Vicino Oriente, affonda le sue radici antichissime nel Paleolitico, I simboli più remoti, incisi su pietra o su manufatti di osso e di corno, riflettono la profonda credenza in una dea generatrice della vita, che dalla sacra oscurità del suo grembo dà origine a tutta la creazione: si tratta della natura stessa, che dona e toglie l’esistenza, che è sempre capace di trasformarsi nel ciclo eterno costituito dalla vita, dalla morte e dalla rinascita».

           [10] Martinelli Maria Clara, L’insediamento preistorico dell’età del Bronzo, in Spigo Umberto ( a cura di), Tindari. L’area archeologica e l’antiquarium, Rebus edizioni. Milazzo, 2005, pp 11

«I livelli preistorici sono stati scoperti nel 1950 e nel 1952, durante un approfondimento dello scavo archeologico nel vano B10 della casa B appartenente all’insula IV dell’impianto urbanistico romano. L’insediamento si doveva estendere sulla collina perché altri materiali furono rinvenuti in modo sporadico all’interno di alcune cisterne (A, B, E) delle case romane. Pur risultando in gran parte sconvolto dalle costruzioni più tarde, lo strato preistorico conserva in alcuni punti le tracce di un abitato dell’età del Bronzo, riconoscibili in “ammassi di pietre e terra bruciata” forse identificabili come focolari. La documentazione archeologica ha contribuito a definire la facies culturale di Rodi-Tindari fornendo i caratteri e lo stile principali. Studi recenti inquadrano un aspetto più locale che si sviluppa nell’ambito del territorio della Sicilia orientale che si affaccia sullo Stretto di Messina e nella Calabria meridionale».


[11] Collura Francesco, Gioiosa Guardia, modalità insediative e urbanistica di un centro indigeno di epoca tardo arcaica in area nebroidea: https://www.academia.edu/7108280/Gioiosa_Guardia_modalità_insediative_e_urbanistica_di_un_centro_indigeno_di_epoca_tardoarcaica_in_area_nebroidea


[12] Rangoni Laura, La donna Sacra, Dalla Grande Madre alle Madonne nere, Gruppo editoriale Castel Negrino, Milano, 2008, pp 12. «Le Veneri paleolitiche sono simboli di una dea Madre, personificazione, al tempo stesso, della terra che porta in grembo le messi da cui spunta il nuovo grano e della donna fonte di vita. La loro caratteristica iconografica più evidente è una notevolissima accentuazione delle parti anatomiche femminili: gli attributi sessuali sono ben visibili, e sono raffigurate con grandi fianchi ed enormi seni a indicare una maternità incipiente; inoltre sono nude e si nota l’assenza di tratti specifici quali il volto, le mani o i piedi. Queste caratteristiche sono simili in tutte le opere ritrovate in un territorio immenso che si estende dalla Siberia ai Pirenei».


[13] Rangoni Laura, La donna Sacra, Dalla Grande Madre alle Madonne nere, Gruppo editoriale Castel Negrino, Milano, 2008, pp 19


[14]  Rangoni Laura, La donna Sacra, Dalla Grande Madre alle Madonne nere, Gruppo editoriale Castel Negrino, Milano, 2008, pp 19


[15]   Maria Gimbutas, La religione della Dea nell’Europa Mediterranea: sacro simboli società, in Le civiltà del Mediterraneo e il sacro, Trattato di antropologia del sacro, vol.3, Editoriale Jaca Book, Milano 1991


[16]    Begg Ean, Il misterioso culto delle Madonne nere, Edizioni L’età dell’Acquario, Torino, 2006, pp. 58


[17] Rangoni Laura, La donna Sacra, Dalla Grande Madre alle Madonne nere, Gruppo editoriale Castel Negrino, Milano, 2008, pp 31: «Esiste una continuità tra la figura divina della Dea paleolitica e il culto neolitico di divinità femminili adattate alle nuove esigenze dei gruppi umani, fattisi stanziali. Per convenzione il Neolitico si situa fra il 10.000 e il 4.000 a.C. circa e in questo periodo l’uomo inizia a usare utensili di pietra levigata, impara ad addomesticare gli animali e comincia a coltivare le piante commestibili».


[18] Gimbutas Marija, citato, pp 49

«Il culto della divinità femminile è sempre legato ad un sistema sociale di tipo matriarcale e inoltre al culto degli antenati, di cui la donna, in quanto madre, costituisce il centro. L’emergere nel Paleolitico, di questa religione della dea doveva essere dunque il riflesso della struttura sociale esistenti. Tale antichissima società matrilineare passò poi a venerare la donna in quanto progenitrice della famiglia e della stirpe, rafforzando in questo modo l’identità sessuale della suprema divinità. Le figure femminile del Paleolitico, in avorio o in pietra morbida non sono quindi “Veneri” o “amuleti” fatti per risvegliare il desiderio sessuale del maschio. Il loro significato era ben più complesso: esse erano connesse al dono e alla protezione della vita, e insieme alla morte e alla rigenerazione».  


[19] Rangoni Laura, La donna Sacra, Dalla Grande Madre alle Madonne nere, Gruppo editoriale Castel Negrino, Milano, 2008, pp 22  


[20] Testart Alain,  


[21] Maria Gimbutas, La religione della Dea nell’Europa Mediterranea: sacro simboli società, in Le civiltà del Mediterraneo e il sacro, Trattato di antropologia del sacro, vol.3, Editoriale Jaca Book, Milano 1991


[22] Lo Iacono Nino, Nauloco e Diana Facellina, Un’ipotesi sul territorio di Patti fra Mitologia, Storia e Archeologia. Armando Siciliano Editore, Messina, 1997: “Secondo quanto ci tramandano gli storiografi antichi la località denominata Nauloco faceva parte di un più vasto territorio chiamato dell’Artemisio, dove cioè predominava il culto per Artemide, la Diana dei Romani. DI tale area il centro vitale e propulsore era l’impianto templare di Diana Facellina (Templum Facellinae Dianae). Secondo Lo Iacono il porto del Nauloco sorgeva ad ovest di Tindari e il tempio di Diana Facellina doveva essere collocato fra Tindari e il Timeto.

[23] Gulletta Maria Ida

[24] Umberto Spigo (a cura), Tindari. L’area Archeologica e l’antiquarium, Rebus edizioni. Milazzo, 2005

[25] Umberto Spigo (a cura), Tindari. L’area Archeologica e l’antiquarium, Rebus edizioni. Milazzo, 2005

[26] Brunn Heinrich, Artemia Eupraxia, in Annali dell’Istituto di corrispondenza Archeologica, Volume 21, pp 264-269

[27] Portale Maria Chiara

[28] Van Cronenburg Petra, Madonne nere. Il ministero del culto, Edizioni Arkeios, Roma, 2004. L’8 settembre è anche la data della festa di un’altra Madonna nera: “Spesso sulla base dei rituali delle processioni, si può ancora stabilire quale Madonna Nera riconduca alla venerazione della virgo paritura. Se veniva portata attraverso le strade la Notre-Dame de Vernouillet  per la festa della sua nascita l’8 settembre, questa processione era per le coppie senza figli e per gli innamorati a cui il rituale prometteva fertilità ed amore”.

[29] Badolati Eduardo, Tindari, Cenno storico descrittivo con dieci tavole fuori testo, Stabilimento per le arti grafiche Alfieri e Lacroix, Milano 1921 pp 110-111


«A settembre cominciano i pellegrinaggi d’autunno; quelli che hanno luogo nei giorni 5, 6 e 7 sono i più grandiosi perché coincidono con la festa della Madonna (8 settembre). Spettacolo veramente pittoresco e caratteristico, feerie, di cui non ha l’idea se non assistendo, quella che che offre l’insieme della festa e del pellegrinaggio! Non solo dal circondario e dalla provincia ma da tutti i paesi della Sicilia e della Calabria accorrono i pellegrini, dopo avere percorso 20, 50 e non di rado100 chilometri, la maggior parte a piedi, il resto su qualsiasi genere do veicoli dal tipico carretto istoriato alla vecchia diligenza sconquassata, dal carro tirato da un paio di bovi rossi alla veloce auto signorile e tutti questi veicoli infioriti, dai cavalli o muli o bovi infiocchettati, imbubbolati, impennacchiati, sono stracarichi di gente che canta le appassionanti canzone isolane con accompagnamento di chitarre, di zampogne, di cembali e di nacchere. Sono diecine e diecine di migliaia, gente per cui felicemente si composero litigi ed ire, per cui si attutirono spasimi ardenti e i calmarono voglie inappagate, gente provata dalla sventura e dai triboli e che n’è stata salvata, che fu straziata dal male ed è stata miracolosamente guarita, storti ch’ebbero raddrizzate le membra atrofizzate, ciechi che riebbero la vista, donne gentili a cui tornò a sorrider eun labbro sul quale esse credettero il sorriso spento per sempre. E il carico dolorante d’infermi, di vecchi cadenti, di fanciulli ignari, di gente tutta che il male colpì nelle sue forme più varie e più ripugnanti accorre al Tempio da dove una fede che non ammette limiti o discussioni li farà tornare guariti. Anche qui – come nei primordi dell’umanità – è la fragile creatura che pel sollievo dei suoi mali s’affida ad una potenza sovrumana e da essa spera e vuole. E queste miriadi di colpiti nel corpo e e nello spirito traggono a Lei, offrono ceri e oro, si prostrano, invocano, reclamavano a gran voce, a calde lacrime, con i nomi più teneri, coi gesti più espressivi, con un fervore che pare demenza e… spesso la grazia si compie e spiriti e corpi tornano mondi dalle turpi piaghe, scevri dalle colpe che li oppressero. Dopo la visita al Tempio la moltitudine si sparpaglia nei piani d’intorno ove un numero incalcolabile di mercanti offre ogni sorta di merce, dalle filigrane, alla càlia (ceci abbrustoliti), dalle pannine al tamburello, dagli utensili agricoli alle scarpe intonso. Ed anche qui – come venticinque secoli addietro – questa lieta e chiassosa, felice e soddisfatta perché una mano potente ha steso un velo pietoso sulle sue miserie, siede sulle riarse restoppie, a gruppi, a brigatelle, a riunioni di familiari e di compaesani e consuma allegramente il pasto nel quale compaiono le prime carni suine dell’annata e nel quale scorrono torrenti di vino poderoso e rosato».


[30]  Fazello Tommaso, le due deche dell’historia di Sicilia, Palermo 1628. È il Fazello a raccontare di Sòprato fatto fustigare due volte da Verre. Ma lo storico siciliano confonde il nome di Sòprato con la sua carica e forse esagera nella descrizione della malvagità di Verre.

«I Tindaritani per la gran cupidigia c’haveva Caio Verre d’havere l’imagine di Mercurio, furono molto afflitti, trà quali Proagora c’hera dei nobili della città, sopportò maggiore afflittione di tutti gli altri, perochè essendogli stato comandato da Verre, che portasse la detta imagine a Messina e havend’egli riposto che non poteva, e non doveva fare simil cosa, senza licenza, e consiglio del Senato, Verre lo fece battere con le verghe, e lo minacciò anche di farlo ammazzare s’egli non la levava via quanto più presto. Ma non ottenendo egli la seconda volta di domandarla al Senato, benché egli piangendo pregasse Verre, che gli desse tal licenza, ne volendo usar la propria autorità, per fare quest’atto si brutto fu di nuovo preso da’ ministri, e littori di  Verre, e ribattuto con le verghe un’altra volta, fu legato (quantunque fusse di verno) alle statue di Marcello, ove stette legato tutto il giorno, e tutta la notte, all’aria al freddo , e alla pioggia, e vi stette tanto che il popolo havendone compassione, promise a Verre l’imagine, e rimettendo tutta la vendetta in Dio, lo levarono di quivi più morto che vivo. Per questa scelleratezza e crudeltà, essendo stato accusato Verre al Senato Romano da Zosippo e Ismenia, Gentiluomini Tindaritani, operarono in maniera che con l’aiuto e favore di Cicerone, egli fu privo della Pretura», pp 190.


[31] Fasolo Michele, Tyndaris e il suo territorio, Volume II, Carta archeologica del territorio di Tindari e materiali,  MediaGeo, Roma, 2014, pp 215:  

«Conosciamo alcuni di questi cittadini agiati di Tindari, che denotano un’onomastica tutta greca: il ginnasiarca Demetrio, Zosippo e Ismenia “homines nobilissimi et principes Tyndaritanae civitatis”, il proagoro Sopatro, il nobile Desione padre del navarca Aristeo ingiustamente messo a morte, Polea. Costoro spendono parte della propria ricchezza per l’abbellimento della città e delle proprie dimore. Il loro rapporto con le attività produttive nel territorio e diretto e continuo. Possiedono infatti residenze fuori citta, che dobbiamo immaginare lussuose per i beni che le ornano e la capacita di dare dignitosa ospitalità al governatore dell’isola, come nel caso della villa di Cn. Pompeius Philo. La loro adesione al sistema di potere romano appare totale. Dall’onomastica proprio di Cn. Pompeius Philo apprendiamo come il patronato, in particolare quello dei Pompei specificatamente legato alla presenza in Sicilia nell’82 a.C. di Pompeo, di cui il personaggio reca il prenome ed il gentilizio, sia uno dei mezzi di mobilita sociale dei ceti emergenti locali e della loro cooptazione nel sistema di potere romano e quindi si venga a configurare come una delle forme più precipue attraverso le quali prende consistenza nel tempo

la romanizzazione. Nel I sec. a.C. Tindari ha raggiunto un buon livello economico, che ne ha fatto una nobilissima civitas, in qualche modo sostanziato dalla rassegna delle razzie di opere d’arte, pubbliche e private, perpetrate da Verre. Oltre alla statua aurea di Mercurio, tra le ventuno sottrazioni compiute dal governatore in Sicilia e portate in giudizio da Cicerone ben quattro riguardano proprio Tindari: una patella sottratta a Trasone, una patera ad Eschilo e dei sigilla ex patella a Cn. Pompeius Philo, una bardatura di cavalli a Cratippo. Verre e riuscito a saccheggiarle agli incauti ospiti che gliele avevano esibito nelle loro ricche residenze. Si tratta di oggetti di grande valore, non solamente il ministerium ordinario composto di argenta potoria ed escaria, ma argenteria, probabilmente di antiquariato, cesellata e decorata con sigilla ed emblemata da artisti di talento, segno della privata luxuria che pervade la provincia greca più profonda. Questi beni sono posseduti ed esibiti da una classe cittadina la cui ricchezza proviene da attività produttive evidentemente redditizie, in settori molteplici, ricostruibili sulla base delle fonti: la cerealicoltura, la viticoltura, la pesca,  l’artigianato ceramico, il commercio. Il gruppo sociale che esercita queste attività appare urbano, grecofono e mostra di aver assimilato modelli e comportamenti propri dell’aristocrazia peninsulare e della koine culturale ellenistico-italica.», pp 215


[32] Gulletta Maria Ida Patriiza, Tyndaris per uno status quaestionis sulle ipotesi di ubicazione dell’agorà/foro, in Sicilia occidentale, Studi, rassegne, ricerche. (a cura di Carmine Ampolo), Atti delle settime giornate di studi sull’arte elemica e la Sicilia occidentale nel contesto mediterraneo. Erice 12-15 ottobre 2009, Edizioni della Normale, Pisa, 2012: «Fu da ultimo il ginnasiarca Demetrio ad ottenere il consenso del Senato per il trasferimento della statua a Messina», pp. 300


[33] Marco Tullio Cicerone, accetta l’incarico di difendere la citta e nelle Verrine, fornisce ai senatori romani la versione “autentica degli abitanti di Tindari:  «Avete udito poco fa la testimonianza la deposizione dei delegati di Tindari; persone fra le più rispettabili e autorevoli della loro città, secondo i quali il Mercurio venerato presso di loro con celebrazioni annuali e con la più profonda devozione, quella che Publio Africano  dopo la conquista di Cartagine aveva donato loro a ricordo e testimonianza non solo della sua vittoria, ma anche della loro fedeltà di alleati, fu sottratta loro da Verre con un colpo di man: un delitto favorito dalla sua posizione di potere. Egli infatti, non appena arrivato in quella città, subito, quasi che un’azione simile gli fosse imposta non solo da ragioni di opportunità, ma addirittura da una necessità imprescindibile, quasi che fosse un incarico ricevuto dal Senato e dipendesse dalla volontà del popolo romano, così senza perdere tempo diede ordine che la statua fosse rimossa e trasportata a Messina. Questo parse vergognoso a quelli cui veniva riferito: perciò in quella sua prima visita non insistette. Sul punto di andarsene, però prescrive al proàgoro Sòprate, di cui avete udito la testimonianza, di rimuovere la statua; di fronte al suo rifiuto, Verre formula feroci minacce e subito se ne parte da quella città. Sòpatro sottopose la questione al Senato, dove si levarono energiche voci di protesta da tutti i settori. Per dirla in breve, qualche tempo dopo il nostro uomo si ripresenta agli abitanti di Tindari e senza indugi chiede della statua. Gli si risponde che Il Senato ha espresso parere alla rimozione e ha deciso la pena di morte per chiunque l’avesse toccata in violazione del decreto del Senato: nello stesso tempo gli si fa notare che si tratterebbe di un sacrilegio. Allora lui: “MA che mi vieni a raccontate con la storia del sacrilegio, della pena, del Senato? Non ti lascerò in vita: ti farò flagellare a morte se non mi viene consegnata la statua.”. Sòpatro, fra le lacrime sottopone una seconda volta la questione al Senato, sottolineando la bramosia e le minacce di Verre. I senatori non danno a Sòpatro nessuna risposta ufficiale, ma tolgono la seduta in preda alla più profonda costernazione. Intanto Sòpatro, convocato con un messaggio dal governatore, spiega la cosa e ribadisce che non c’è nessuna possibilità di una conclusione positiva. E si aggiunga che Verre (nulla infatti deve essere trascurato a mio parere, quando si parla della sua sfrontatezza) affrontava simili questioni pubblicamente mentre amministrata la giustizia assiso sulla sedia curale, dall’alto del suo seggio di governatore. Si era in pieno inverno, il clima, come avete udito proprio dalle parole di Sòpatro, era rigidissimo e pioveva a dirotto, quando Verre ordina ai littori di scaraventare giù dal porticato, dove egli sedeva nell’esercizio delle sue funzioni, Sòpatro in mezzo alla piazza e di denudarlo. L’ordine era stato per l’appunto dato appena impartito, che già avresti potuto vedere Sòpatro spogliato e assediato dai littori. Tutti credevano che il disgraziato pur essendo innocente sarebbe stato fustigato, ma questa volta non l’azzeccarono. Verre avrebbe fustigato senza un buon motivo un alleato e un amico del popolo romano? Non è malvagio fino a questo punto; non si può pensare che una sola persona abbia in sé tutti i vizi; egli non è mai stato crudele. Trattò Sòpatro con delicatezza e clemenza. In mezzo alla piazza sorgono delle statue equestri dei Marcelli, come in quasi tutte le altre città di Sicilia. Tra queste Verre scelse la statua di Gaio Marcello, le cui benemerenze nei confronti di quella città e di tutta la provincia erano molto recenti e molto grandi. Su di essa fa levare saldamente a cavalcioni Sòpatro che nella sua città non era soltanto un personaggio eminente, ma ricopriva anche la più alta carica pubblica, In che consistesse la tortura non è possibile che a qualcuno sfugga, visto che era stato legato nudo alla mercè del vento, della pioggia, del freddo. Eppure questo trattamento ingiusto e feroce non ebbe fino sino a quando i cittadini di Tindari e tutta la folla presente, profondamente scossi dall’efferatezza dell’oltraggio e mossi a compassione, non ebbero costretto con le loro grida il Senato a promettere a Verre la statua di Mercurio di cui stiamo parlando. Gridando che sarebbero stati gli stessi dei immortali a vendicarsi di lui, per il momento non era giusto che perisse un essere umano innocente. Allora i senatori in folla vanno dal governatore e gli promettono la statua. Così Sòpatro, ormai pressoché assiderato, viene tirato giù più morto che vivo dalla statua di Gaio Marcello».


[34] D’Andria Francesco, I regali per Atena Troiana, Il Sole 24 Ore, inserto Domenica del 14 gennaio 2018.

«Sino a quindici anni fa era la zona più degradata della cittadina di Castro, nel Salento, C’era pure la cisterna del liquame che le era valsa il brutto nome di fondo Chiavica, Infine il muretto di recinzione di un orto a chiudere la vista sul mare. Poi la scoperta di alcuni blocchi di fortificazioni messapiche e gli scavi che hanno portato alla luce il santuario di Minerva e la zona è divenuta metà obbligata per i visitatoti. (….) Lo scorso ottobre sono finalmente ripresi gli scavi archeologici, grazie al finanziamento di un privato, Francesco Lazzari e le scoperte non si sono fatte attendere; fondamentale l’identificazione dell’altare, l’unico di tipo greco che si sia mai ritrovato in tutta la Puglia, dove se si esclude Taranto, l’intero territorio era abitato da popolazioni indigene.  Ma l’Athenanion di Castro era luogo di incontro tra culture diverse, in un luogo strategico della navigazione, e fucina di innovazioni. L’altare si presenta come un basso recinto coronato da un fregio dorico, in blocchi ben squadrati di calcarenite, largo due metri e mezzo e lungo almeno otto metri del tutto simili a quelli presenti nei santuari della Magna Grecia e della Sicilia. Lo scavo ha portato alla luce anche i depositi di fondazione e si possono così riconoscere le azioni rituali compiuti al momento di consacrare la struttura, nella metà del IV secolo a.C.: una quantità consistente di ossa degli animali sacrificati erano conservate in due buche, insieme ai vasi per le libagioni (…) Ma già dalle prime analisi ci informano che si sacrificavano soltanto buoi e pecore: della vittima si dividevano le parie parti secondo modalità specifiche: alla divinità erano destinate la testa e la parte inferiore delle zampe e queste ossa soltanto erano deposte nella fondazione dell’altare, secondo un ordine preciso, separando le mascelle  dalle ossa lunghe. In altre zone dell’area sacra si trovano invece vertebre e costole degli animali, chiaramente relative alle parti che venivano consumate sul posto dai fedeli e dagli addetti al rito; associate ad esse sono sempre presenti le coppe per le libagioni, ma anche i frammenti di pentole, a indicare che il cibo era cotto e mangiato all’interno del ricetto santuariale. Accanto alle ossa i depositi votivi hanno restituito gli oggetti offerti ad Atena: migliaia di coppe di argilla per versare vino e latte, a testimoniare la frequentazione di gente comune, ma anche oggetti preziosi: anelli di argento, figurine di bronzo, scudi e altre armi metalliche, statuette e bacini in marmo delle Cicladi ed infine sculture in avorio considerate fra i doni più rari».

[35] Omini pede stare, Saggi architettonici e circumvesuviani in memoriam Jos de Waele, a cura di Stephan T.A.M Mols e Eric Moormann, Electa Napoli.

La struttura urbana di Tindari, l’ultima fondazione coloniale greca in Sicilia ricalca dei moduli ben precisi nel mondo ellenico. «Appare chiaro che il piano di Tindari si inserisce direttamente nella tradizione dell’urbanistica modulare del V secolo a.C. ma con un’importante modifica nelle proporzioni dell’isolato che risulta molto meno allungato rispetto ai rapporti 1:4 (Noto e Camerina) e 1:5 (Napoli) adoperati nella prima metà del secolo precedente: correzione che in Magna Grecia presenta Eraclea (1:3) - e che in Grecia è documentata , come è noto a Olinto /1:2.5) – nella quale continuiamo a vedere la lezione ippodamea che detta proporzioni più armoniche del modulo base. In Sicilia, se i dati disponibili sono esatti, la prima città in cui si riscontra questa novità sarebbe Morgantina, il cui piano, che presenta isolati 1:3, sarebbe da attribuire alla rifondazione di Ducezio, o piuttosto, a nostro parere, potrebbe datarsi dopo il 424 a.C., anno in cui il Congresso di Gela attribuì il territorio a Camarina. Ma Tindari si inserisce anche in un processo di urbanizzazione della costa settentrionale della Sicilia che ha luogo a partire dalla seconda metà del V secolo che ci sembra si sia svolto lungo linee urbanistiche analoghe. Nulla purtroppo sappiamo ancora di Calacte, anch’essa fondazione di Ducezio, mentre dati non completi sono disponibili per Alesa che Arconide di Herbita fondò nel 404 a.C., ma il cui piano progettuale ci sembra quello più vicino a Tindari nella configurazione complessiva, nelle dimensioni degli isolati (larghezza 100 piedi) e nella posizione dell’agorà compresa tra l’abitato e l’acropoli, esattamente come nella colonia dionigiana. Questa posizione della piazza, collocata all’estremità dell’abitato e servita dalla plateia principale è tipica delle città di altura di questo periodo e ricorre anche a Termini Imerese   (407 a.C) e a Solunto (intorno al 340 a.C., ma si riscontra anche a Camarina  dove il sistema delle due agorà va visto in relazione con il porto. (….). Tindari pertanto si inserisce chiaramente nel processo di urbanizzazione della costa settentrionale della Sicilia che ha luogo fra la fine del V secolo e la prima metà del IV secolo, ma le scelte che presiedono alle sue strutture urbanistiche non possono essere viste isolatamente; ma vanno lette in un contesto più ampio che comprende non solo la Sicilia e la Magna Grecia, ma anche la Grecia, l’Asia minore, la Cirenaica e il mondo punico».

[36] Marcello Mollica

[37] Giardina Nicola, L’Antica Tindari. Cenni storici. Tipografia dell’Istituto San Bernardino, Siena 1882. pp. 180

«Si vuole che fin dalla età anteriore al Cristianesimo fosse esistito in Tindari un tempio dedicato alla Dea Cibele. Era un culto che, sin dai primi tempi del politeismo, quasi generalmente prestato in Sicilia a quella divinità, e con distinzione in tutti i paesi graniferi, tra i quali il territorio di Tindari meritavasi uno speciale riguardo, riconosciuto dallo stesso Cicerone. Si favoleggia esser Cibele figlia del Sole, moglie di Saturno, che con altri nomi si chiamava Ope, Rea, Vesta, Deìmedea. Idea, Berecintia, e si rappresentava con un disco in mano, una chiave nell’altra, una torre sulla testa, una feste cosparsa di fiori, circondata da una molteplicità di animali. I sacerdoti di lei detti Galli, Coribanti, Dattili dansavano intorno all’idolo con salti determinati e con movimenti straordinari. Della statua marmorea di questa divinità sino alla metà del secolo passato esisteva il capo disvelto dal tronco presso i sacerdoti del Santuario della Madonna.  Ma essa ora non più non esiste: e forse per esecranda fame di oro venduto, destinato ad adornare qualche museo particolare di stranieri signori; come probabilmente accadde al mezzo busto di Cicerone che i nostri maggiori videro per tanto tempo collocato sulla porta di ingresso al cortile del Santuario, e che oggi non esiste più. Si vuole che, da tempi immemorabili, sule rovine del tempio di Cibele sia stata fabbricata l’attuale cappella della Madonna. Cosi avvenne in tanti altri luoghi (…) Noi però non abbiamo tal documento da poter provare, senza timore di essere contraddetti, che il Santuario del Tindari sia stato fondato sulle rovine del tempio di Cibele, come gratuitamente asseriscono taluni cronisti ecclesiastici. Come neppure ci è noto, se esso sia qualche edifizio superstite alla devastazione dell’intera città, avvenuta in epoca saracena; né che esso sia

[38] Maria Gimbutas, La religione della Dea nell’Europa Mediterranea: sacro simboli società, in Le civiltà del Mediterraneo e il sacro, Trattato di antropologia del sacro, vol.3, Editoriale Jaca Book, Milano 1991:

«La dea gravida dell’agricoltura: la madre Terra Per almeno 8.000 anni l'animale sacro alla Madre Terra fu in particolare il maiale, di cui sono state ritrovate rappresentazioni in argilla o in pietra risalenti all'inizio del Neolitico. Le culture di Vinea e di Karanovo, dd v millennio a.C., produssero maschere di maiali, spesso decorate con orecchini, e vasi cerimoniali con coperchi a forma di testa suina. Ha una testa dd genere, per, esempio, una piccola figura della dea, ritrovata nel Vicino Oriente e attribuita al III millennio a.C., compostamente seduta in trono. Dello stesso periodo è un vaso a forma di maiale proveniente dalle Cicladi. Queste maschere e vasi cerimoniali implicano probabilmente celebrazioni per la semina e per il raccolto, accompagnate dall'offerta di sacrifici alla dea e da danze mascherate. Anche nella Grecia classica ed ellenistica, del resto, si svolgevano celebrazioni analoghe in onore di Demetra, durante le quali venivano sacrificati alla dea e a sua figlia Persefone alcuni porcellini da latte. Gli Ateniesi, infatti, chiamavano Persefone «colei che uccide i porcellini da latte». Duemila anni più tardi, nel XVIII secolo, un'usanza assai simile è ancora documentata in Lituania, dove si sacrifica ritualmente un porcellino nero alla Madre Terra, al tempo della benedizione autunnale dei semi. Queste usanze tradizionali dimostrano come il maiale fosse considerato importante per la fertilità dei campi. L'intimo legame fra il porcellino e il frumento è peraltro riscontrabile nelle figurine di argilla decorate con chicchi di grano che appartengono alla cultura di Cucuteni (Ucraina occidentale) e che risalgono al v millennio a.C. Senza dubbio la venerazione preistorica per la Madre Terra sopravvisse immutata fino al tempo in cui subentrò il culto di Demetra e Persefone in Grecia, di Opi a Roma, di Nerthus nelle regioni germaniche, di Zemyna o Zemes Mate nell'area baltica, della Madre Umida Terra nelle regioni slave. La Madonnà Nera non è in fondo diversa da questa antichissima Madre Terra, e il suo colore scuro rimanda a quello della terra fertile. Il suo fondamentale intervento miracoloso consiste nel ripetersi annuale della fecondità. Gli antichi riti misteriosi, celebrati, lungo i millenni della preistoria e della storia, nelle caverne, nelle necropoli, nei templi o all'aria aperta, servivano appunto ad esprimere la gratitudine degli uomini nei confronti della fonte di ogni vita e di ogni nutrimento e a partecipare ritualmente al segreto dell'abbondanza della terra».


[39] De Grossi Mazzarin Jacopo – Minniti Claudio, Studi sul sacrificio animale nel Mediterraneo antico. Alcuni contesti a confronto, Santuari mediterranei tra Oriente ed Occidente, Intere e contatti culturali, Atti del Convegno Internazionale, a cura di Russo Tagliente Alfonsina e Guarneri Francesca, in atti del Convegno internazionale, Civitavecchia- Roma 2014, Scienze e lettere Srl, Roma, 2016: «ll sacrificio era il momento fondamentale del rito religioso e consisteva nell’uccisione di un animale che veniva offerto alla divinità: una parte della vittima era consumata dagli uomini che ne mangiavano le carni, un’altra veniva donata alla divinità. In questo modo si suggellava il legame di solidarietà reciproca tra i membri della comunità umana e quella divina», pp 329



[40]  Barreca Francesco, Tindari colonia dionigiana, in Atti dell’Accademia dei Lince, anno CCCLIV, 1957:

«… proprio nel luogo ove poi sorse il centro della città greco romana, sono venuti alla luce i resti di un abitato preistorico. La scoperta, avvenuta durante la precedente campagna di scavo, è preziosa perché, integrando la storia, ci dice come i coloni greci avessero per loro un luogo ove già da secoli viveva una popolazione indigena con la sua organizzazione e i suoi usi e le sue tradizioni».  


[41] Barreca Francesco, Tindari colonia dionigiana, in Atti dell’Accademia dei Lince, anno CCCLIV, 1957:  «Quale fu la sorte di questo centro siculo nel 396 a.C.? Non sappiamo, ma è probabile che di esso non tutto sia andato distrutto. È probabile fra l’altro che i Greci abbiano ricevuto dai Siculi il culto di una divinità femminile impersonante le forze della natura nei suoi molteplici aspetti, assimilandolo all’antichissimo culto di Elena, la cui testa figura nel dritto delle monete greche di Tindari. Infatti, non solo l’attuale culto della Vergine (che anche le tradizioni locali asseriscono sovrapposto a quello romano di una divinità femminile, la Magna mater), presenta tracce evidenti di un più antico culto pagano di carattere ctonio (specialmente nella grande festa settembrina, la tradizionale uccisione del maiale, altrimenti inspiegabile considerando il calore della stagione ancora estiva), ma la favola popolare della Donna Villa, di sapore prettamente locale, sembra di proiettare quel culto in un’epoca di assai più antica di quella dionigina. È evidente infatti che Donna Villa, fata abitatrice di un antro in vista del mare sotto capo Tindari, dove essa attirava, amava e poi uccideva i naviganti precipitandoli in una cisterna visibile in fondo all’antro altro non era che una specie di Circe, e, come quella, dovette appartenere alla cerchia antichissima delle divinità pre-arie, indigitazione anch’essa della grande Potnia mediterranea, indomita amante e dispotica signora di ogni esistenza. Ciò spiegherebbe come i Messeni della colonia dionigina la abbiano potuto identificare con la loro Elena, altra indigitazione della Potnia. Più tardi, non se ne sarebbe più compresa l’illimitata e tremenda libertà e gradatamente la Grande Dea sarebbe diventata Donna Villa. Nonostante l’affermarsi di divinità maschili come i Dioscuri e Mercurio, essa dovette tenacemente sopravvivere nel culto popolare, se il Cristianesimo ritenne di doverle contrapporre e sovrapporre la Vergine, riuscendo a cancellarne il ricordo e a sublimarne il culto, non però a cacciarla del tutto dalle misteriose profondità dell’animo popolare e della suggestiva caverna sotto i il Capo Tindaro».


[42] Capodieci

[43] Micalizzi Carmelo, La leggenda di Donna Villa, in Messina ieri e oggi, http://www.messinaierieoggi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1734:la-leggenda-di-donna-villa&catid=52:carmelo-micalizzi&Itemid=2519

«Nell’immaginario della gente del luogo Donna Villa e una donna necessariamente bella nell’aspetto e il nome riassume funzione e semantica di quelle speciali qualità estetiche. Infatti Villa, “Velia”, “Bella”, da cui, ad esempio, i cognomi DI Velia, Divella, (Di Bella), La Velia, (La Bella), e il toponimo Villezzi (Bellezze). (…). La metanalisi di Donna Villa, l’antico nome della tradizione, e di Donna Bella, l’apparente non è spiegato, riconosce la proposizione emendata di Donnavida che conduce alla lettura di numerosi toponimi siciliani, pertinenti soprattutto alla cuspide nord-orientale dell’Isola, alle varianti trascrizioni di Donnavita, e Donna Vita, alla falsa etimologia di Donna Vile e alle più stratificate corruzioni di Danavedao e Tannavita. Ma il luogo identifica più un fitonimo, la versione popolare del nome di un’erba che definisce (o ha definito in passato) un territorio caratterizzato da sua cospicua presenza. È questa, come compendia Girolamo Caracausi, una pianta dalle foglie sottili, una specie di caprifoglio. Appartiene alla famiglia delle Rubiacee che raggruppa alcuni arbusti rampicanti con trascrizione vernacolare derivata dal latino Danaìsidis traslata dalla glossa greca, una specie di còniza indicata dai contadini come Dannaide, oppure con le diverse corruzioni sopraindicate. È lemma siciliano per millefoglio, Vachillea millefoliumm riletto da Giorgio Piccitto anche Donnavita e Tannavita. Il millefoglio, una varietà officinale di achillea, era un tempo adoperato come vulnerario, balsamo che favoriva le cicatrizzazioni di ferite e piaghe, oppure come tossico e antielmintico mentre oggi è utilizzato come erba foraggio».


[44] Faranda Laura, Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia Antica, Armando Armando editore, 2009,  


[45] L’esistenza di un’altra statua è evidente nei numerosi lasciti dei defunti alla Madonna prima del 1706 e soprattutto da un documento conservato nell’Archivio della diocesi di Patti: l’elenco dei beni della chiesa Matrice, definita “sub titulo Santa Maria La Nova”, di quello che allora si chiamava il casale della Montagna stilato dal vescovo don Bartolomeo Sebastian nel giugno del 1573. Elenco minuzioso che fra le altre cose riporta «septi intorchi jnnanti la jmagini di nostra donna dela gracia tri dili quali sono su di chira bianchi ad 4 micchi, dui di chira comuni ad tri micchi e laltro di chira comuni ad un micchio». Volendo essere scrupolosi si può sollevare il dubbio se il vescovo Sebastian si riferisca ad una statua o ad un quadro, visto che nei registri parrocchiali spesso si indica con il termine “immagine” sia un quadro che una statua. Ma il dubbio viene completamente fugato il 30 giugno del 1585, quando sale al casale della Montagna il vescovo Gilberto Isfar y Corillas e visita la chiesa Madre che viene ancora indicata “sub titolo Santa Maria La Nova”. E questa volta il vescovo dice di avere visto “una jmagine della madonna in mistura sub titolo de santa maria la gratia con suo figliolo». Dunque non ci sono dubbi. Nella chiesa madre c’era una statua della Madonna delle Grazie con suo figliolo. Ma non era di marmo, bensì in mistura. Cioè era costruita con un misto di legno, gesso, tessuti come il cotone o il lino. Dunque doveva essere abbastanza leggera e questo spiega come nell’aprile del 1706 potesse essere portata in processione lungo un percorso piuttosto impervio. La presenza di questa statua viene confermata, come detto, dai numerosi lasciti, dei fedeli defunti. La prima volta che la Madonna appare nei registri parrocchiali è il 18 aprile 1590, quando muore Dominica Spatola, moglie di Dominico Spatola e lascia per «l'anima sua ala ditta majore ecclesia tarì 12 et unza una ala ecclesia di santo joanni, tarì 8 alli hebdomadari che li satisferano tanti missi per l'anima sua nello altare di Santa Maria la Gratia». Due anni dopo, il 3 marzo 1592, muore Diana Traxio e lascia «per l'anima sua ala maiore ecclesia uno pedi di celso  in la contrada di Santo Pietro acciò si compra una tovaglia alla madonna della gratia».


[46] Cfr. Licinio, Castelli, p. 146.

[47] Huillard-Bréholles,, V, p. 414 (1239, ott. 6); inoltre cfr. E.Sthamer, Die Verwaltung der Kastelle im Konigreich Sizilien unter Kaiser Friedrich II. und Karl I. von Anjou, Leipzig 1914, p. 58.

Potremmo allora subito raccontare che un casale della Montagna esisteva già nel 1308. Altro che 1638. Prove alla mano. Ma preferiamo andare su è giù per i secoli, alla ricerca di spunti, intuizioni, suggestioni. Proviamo a collocare nello spazio e nel tempio Il casale della Montagna. Prendiamo allora in mano allora un volume scritto da Al Edrisi, un geografo e viaggiatore arabo vissuto fra il 1099 e il 1165, che, su impulso di Ruggero II, re normanno di Sicilia, pubblicò un libro di viaggio, [1]. Partendo da Palermo, arriva a San Marco e Naso e descrive il litorale di Capo d'Orlando: Poi scrive: "Di lì a dodici miglia è Baqtus (città di Patti), fortezza difendevole, con vasto territorio che racchiude feraci campi da seminare, casali prosperosi, acque correnti, numerosi giardini: bel paese che sovrasta al mare alla distanza d'un miglio. Da Patti a labìry 1 (comune di Oliveri) tre miglia. È bello e grazioso casale, con un gran castello in riva al mare. Avvi un mercato, un bagno, delle case; delle buone terre da seminare e delle acque perenni, sulle sponde [dei quali rivi] si stendono dei campi da seminare e sonvi piantati dei molini. Possiede anche un bel porto, nel quale si fa copiosa pesca di tonno".

Qualche secolo dopo, nel 1537, Claudio Mario Arezzo, nato a Siracusa alla fine del 1400 o agli inizi del 1500 e morto a Messina verso il 1575. [2] pubblica in latino una descrizione storico-geografica della Sicilia. Quando arriva nella piana di Milazzo, da Messina, procede verso ovest e si trova di fronte la foce del fiume Elicona. Descrive tutto quello che è compreso fra questo corso d'acqua. la fiumara di Naso e le montagne verso sud, fino a Montalbano e Floresta. Scrive di Tripi, Casalenuovo, Furnari, Oliveri Montalbano, Novara. Si dilunga su Tindari e la sua storia, parla del mito del tempio di Diana Facellina, descrive il Timeto, il fiume di Patti e questa citta. E scrive che vicino Patti sorgono "le piccole città di Librizzi, Gioiosa Guardia. Montagna, Sorrentini, casali di Patti, Piraino".

La copertina del libro del Fazello

Venti anni dopo viene dato alle stampe un altro libro di geografia e storia sulla Sicilia, scritto da Tommaso Fazello. Nato a Sciacca nel 1498 e morto nel 1570 a Palermo, frate domenicano, descrive così nel suo libro De Rebus Siculis Decades Duae, pubblicato in latino nel 1558, questo pezzo del messinese, stretto fra la costa Tirreno e le prime  pendici dei Nebrodi orientali, arrivando però da occidente, da Palermo. “Lungi due miglia poi è il Casale di Pilaino, dal quale è lungi quattro miglia il piccolo castello di Giusa. Segue presso a due miglia Sorrentino e a un miglio appresso Montagna ed altro tanto spazio di via è per fino alla città di Patti, di là dalla quale quattro miglia si trova Brizi, da cui altra tanta via è lontana San Piero da Patti”. [3]

Abbiamo così inserito Patti in uno spazio più ampio che, spiega ancora Michele Fasolo, "si apre dal passo di Polverello, sullo spartiacque dei Monti Nebrodi in Sicilia, e degrada a ventaglio in direzione nord verso il mare Tirreno imperniandosi su Capo d’Orlando e capo Tindari, rispettivamente all’estremità NO ed a quella NE, più precisamente tra il bacino idrografico del fiume Naso e quello del fiume Timeto".[4] Un vasto territorio solcato da un sistema stradale che collega la costa tirrenica con Randazzo, la piana di Catania e apre ai viaggiatori il centro e l'occidente della Sicilia.

Ma torniamo ad Edrisi, Lo scrittore non cita espressamente il Casale della Montagna. Ma parla di "casali prosperosi" che fanno parte di Patti. E allora una domanda sorge spontanea: cosa era un casale? Maria Adelaide Vaggioli[5] risponde che in Sicilia "almeno fino alla fine del XIII secolo un casale è un villaggio rurale aperto, privo di difese, appartenente al territorio di un castrum (cioè di un abitato fortificato e munito di castello: quello che verrà definito terra nella terminologia ufficiale del regno normanno-svevo). Non è difficile pensare a Patti come un castrum. "i suoi abitanti, che generalmente appartengono alle etnie sottomesse (greca e musulmana), sono di norma donati insieme al casale stesso e alle relative terre", scrive ancora la Vaggioli". E ifine ricorda che i casali siciliani hanno subito nel Trecento un processo di spopolamento che ha portato alla loro scomparsa.

Ma su questo punto lo storico francese Henri Bresc[6] non è completamente d'accordo e scrive che centri abitati simili ai casali rimangono in vita in Sicilia

Ma noi sappiamo che i casali di Patti noti sono quello della Montagna e quello di Sorrentini. Librizzi è Gioiosa erano invece sotto la giurisdizione del vescovo di Patti. Sappiamo anche che dopo l'arrivo dei normanni nella zona di Patti si sono verificate complesse vicende di popolamento, abbandoni, rivolte e scontri. Proviamo a seguirle usando come guida i lavori di Michele Fasolo. In particolare un breve saggio in cui riassume altri studi. [7] Fasolo scrive di una fase bizantino-araba "dai contorni evanescenti" per mancanza di documenti. Poi, "nel 1094, il toponimo Pactes compare in tre documenti (atto di fondazione del monastero di S. Salvatore a Patti, assenso alla fondazione di Roberto, vescovo di Troina-Messina, diploma con donazioni al monastero di San Bartolomeo di Lipari). La nuova geografia del potere normanno ridefinisce con un monastero fortificato Pactes ma il centro emerge in queste fonti e anche dai resti di chiese altomedievali (al di sotto di S. Ippolito e della Cattedrale) come un abitato già di una certa consistenza, dalla vita civile organizzata, con clero secolare, chiese, decime, qualificato villa, e, qualche anno più tardi castrum forse dopo la costruzione di un apprestamento".

Dunque, si afferma che Patti esistesse prima della fondazione del monastero benedettino del S. Salvatore. Prima come villa, poi come castro. Secondo Fasolo, "Patti, tra la fine dell’XI e quella del XII secolo, emerge e si afferma invece nel ruolo prima di Tindari di baricentro del territorio con l’abbazia di rito latino che diviene in breve tempo il principale centro propulsivo di un vasto riassetto del comprensorio che ha come fine il ripopolamento, attraverso l’incentivazione dell’insediamento di popolazioni latine, e il riavvio delle produzioni agricole e delle attività economiche con la costituzione di alcune strutture antropiche di lunga durata".

Perchè, continua il ricercatore, "a essere riorganizzato è infatti non solamente il territorio intorno a Patti ma l’intero comprensorio, tra Polverello, Capo d’Orlando e Capo Tindari, all’incirca 380 km², facendo perno su quattro realtà territoriali, quattro grandi aziende agricole, due abbazie di rito greco, preesistenti all’arrivo dei normanni, i monasteri di S. Angelo di Lisico dei Demenni a Sant’Angelo di Brolo e quello di San Nicola de Valle Demone detto de la Fico presso Raccuja, una «colonia» demaniale, Phokairòs (Focerò) e per l’appunto il monastero benedettino di S. Salvatore in Patti . Più a ovest è, sempre preesistente alla conquista normanna, il monastero greco di San Filippo di Fragalà. Alcuni confini dei territori loro assegnati ripercorrono in tutta evidenza limiti di età precedenti".

Così, secondo Fasolo, a Patti: "in un contesto multietnico, le tre principali etnie presenti nel territorio, divise da diversa condizione giuridica, probabilmente si caratterizzavano anche, nei possedimenti dell’abazia, per modalità insediative diverse. La componente latina era di duplice matrice: quella 'erede' della Colonia Augusta Tyndaritanorum, concentrata nel centro abitato di Patti, forse non sottoposta alla giurisdizione temporale dell’abate, e quella di recente immigrazione nelle terre da mettere a coltura. Le altre due etnie, la greca e la 'saracena', che costituivano le platee dei villani, erano disperse nei casalia, sorti forse sul sito di villae rustiche, principali punti di sviluppo del processo di ruralizzazione, nei loca, nelle valles, nei nemora, termini dell’organizzazione agraria che emergono dalle fonti. Sparuti ma presenti gli ebrei. Dai documenti provengono indicazioni sulle coltivazioni praticate: frumento, orzo, uva da vino. Non risultano menzionati oliveti o gelsi e neppure seta o lino a differenza della ghianda. Citati tra gli animali maiali, buoi, pecore, capre, galline. Molti i riferimenti ai mulini ad acqua".

Tutto chiaro. Sul fatto che a Patti ci fosse una presenza umana prima del 1094 concordano in tanti. Luciano Catalioto, ricercatore che ha studiato a fondo le vicede pattesi, scrive che "sebbene non sia confermata la tesi secondo la quale le origini dell’insediamento urbano di Patti coinciderebbero con il sacco saraceno di Tyndaris dell’827 e con il successivo accordo tra coloni e invasori (da cui il toponimo Pactas), esse andrebbero comunque individuate nella composizione ad opera dei fuorusciti tindaresi di una nuova comunità, la terra Pactarum. Questa esisteva prima del 16 luglio 1027, data in cui gli Annales Siculi pongono l’inizio della devastante incursione messa in atto dal saraceno spagnolo Gaìto Maimone nell’agro siracusano ed attorno al centro pattese, che all’epoca era molto verosimilmente un casale aperto" [8]

L'ipotesi che Patti sia stata assaltata da Gaito Maimone nel 1027 viene però confuta da Giuseppe Arlotta. [9]




Boschi di Montagnareale
Boschi di Montagnareale

La Montagna di cui scrivevano Arezzo e Fazello, fino al 1638 si chiamava Casale della Montagna e dopo quella data è stata ribattezzata Montagnareale. E' un paese in provincia di Messina, a cinque chilometri da Patti, che alla fine del 2020 aveva 1461 abitanti. Si trova in una valle a 300 metri di altezza, sulla sinistra orografica del torrente Montagnareale, immerso fra orti, aranceti, noccioleti, castagneti e querceti che si arrampicano fino a 1000 metri di altezza.

Al tempo del Fazello era invisibile dal mare e dai suoi pericoli, ma la presenza a fondo valle di numerosi mulini ad acqua di proprietà del vescovo dj Patti non la metteva al riparo dalle incursioni dei pirati saraceni alla ricerca di uomini e donne da catturare e ridurre in schiavitù. Un destino che non risparmiava gli abitanti del Casale della Montagna[10]


Le prove? Siamo dentro un "cunto" e dunque possiamo correre con la fantasia scrivere quello che ci pare; ma bisogna tenere conto che vicende, nomi e luoghi che stiamo per narrare sono veri. Perché il 2 settembre 1596 tre "muntagnare", Filippa Cappadona, intisa Pulejo, Caterina Gallina e Nunzia Catania, si incontrano nello spiazzo davanti alla chiesa madre del casale della Montagna, scendono verso la chiesa dell’Annunziata, imboccano la strada che passa davanti, escono dal paese a Fontanarame e si avviano verso Patti.

Imboccato la strada che scende verso il fiume, le tre donne si fermano qualche minuto davanti alla cappella delle anime del Purgatorio per recitare una preghiera e con il cuore colmo di tristezza, ma anche di speranza, si avviano verso la città. Qualche giorno prima il banditore della città era salito al Casale della Montagna e rullando il suo tamburo per attirare l’attenzione aveva avvisato che chiunque avesse un parente nelle mani dei corsari doveva presentarsi il due settembre davanti ai giurati e denunciare la loro situazione. Qualcuno nelle bettole del paese raccontò che a Palermo avevano formato una congregazione per la redenzione dei cattivi in mano ai nemici musulmani. E gli servivano i nomi dei prigionieri per cercare di riportarli a casa. Glielo aveva spiegato anche l’arciprete Mariano Pallotta a cui avevano subito chiesto consiglio. [11]

Dieci anni prima, nel 1585, in effetti, Il Parlamento siciliano aveva chiesto al vicerè di fare qualcosa per cercare di riportare a casa i numerosi schiavi siciliani che si trovavano prigionieri in Africa. E si era deciso di creare un fondo per pagare i riscatti. Era dunque, importante fare sapere ai giurati di Patti che tizio o caio era prigioniero. così aveva qualche speranza di finire in una lista di prigionieri da riscattare con i soldi raccolti dall'Arciconfraternità dei redenti di Palermo.

Nei decenni precedenti le comunità dei prigionieri avevano cercato di fare per contro proprio. A Patti per esempio, scrive Sirna, "nei giorni di settembre 1556 (il 7,9,13 e 19) alcuni testi spiegavano che erano falliti i tentativi del vescovo Sebastian negli anni 1551/52 di riscattare alcuni prigionieri dei corsari. Il vescovo, dopo avere ascoltato il pattese Vincenzo Pellegrino, già prigioniero “in legeri”, aveva fatto redigere un elenco nominativi dal suo sacrista e aveva inviato a Valencia un mayorchese, residente a Patti da circa sei anni per cercare di ottenere il riscatto. Ma da “ligeri” non era arrivato il via libera. Per la liberazione del sacerdote Francesco Gaglio, il vescovo voleva inviare  “alligeri” il padre Clemente Pellegrino. Secondo il guardiano della torre di Patti. Nicola Giacomo de Arlotta, il Sebastian aveva sborsato per il riscatto dei pattesi dai 500 ai 600 scudi: il sacerdote Ambrogio Liparoto affermava invece che la somma era stata spedita per “majorca; secondo il sacerdote Domenico Sardarella, il vescovo aveva pagato il riscatto per una donna napoletana e per altre due persone". [12]

Arrivate al palazzo dove ricevevano i giurati, le tre donne di Montagna, si trovarono in compagnia di molte altre persone. E dovettero aspettare pazientemente che un usciere gli dicesse di entrare nella stanza dove dietro un grande tavolo le attendeva un notaio della città. La prima a parlare, terrorizzata, fu Filippa Cappadona. Il notaio la ascoltò con attenzione e alla fine trascrisse il suo racconto: "Filippa Cappadona Pulejo del casale della Montagna, destritto della città di Patti, revela essere in potere dei mori suo marito nome Vincenzo Cappadona Pulejo di baxa statura, tenendo cum lo petto palumbino, cum li capilli rari perché havi la tigna con un scanchettta alla fachi di età di anni trenta incirca fu pigliato nello Capo de Orlando già si fanno anni sette.  Si dice che è a Biserta. Teni un frati di nome Dominico Cappadona Pulejo che non teni nenti".

Vincenzo e Filippa, che all’epoca aveva 15 anni, si erano sposati il 18 agosto del 1585. Figli di Stefano e Caterina Cappadona Pulejo e Angelo e Caterina Cappadona Calici. I registri parrocchiali non registrano nulla relativamente a questa coppia dopo il matrimonio. E c’è da pensare che il povero Vincenzo non abbia mai fatto ritorno in patria. Filippa, magari dopo avere ottenuta una dichiarazione di morte presunta del marito. si risposa: una Filippa Calici si presenta infatti all’altare il 4 novembre del 1604 per sposare Bernardo Cappadona Matarazzo.

Dopo Filippa toccò a Caterina Gallina. Potrebbe essere la Caterina Sidoti che nel 1593 aveva sposato Mercurio Gallina. E il notaio registrò: "Catrini Gallina del detto casale della Montagna destritto di detta città di Patti revela essere in potiri dei mori uno suo frate nome Antonio Sidoti, figlio di Minucunu Musca, di baxa statura, ruxano di età di anni trenta doi incirca, cum alcuni segni ala gamba ….. essendo malata, fu preso già si fanno sette anni a Capo de Orlando, si dice che è a Biserta, non teni altri parenti eccetto essa revelanti non ha faculta alcuna".


Per ultima si presentò Nunzia Catania. Anche lei doveva denunciare l’assenza di un fratello. «Nuncia, muglieri di Vincenzo Catania, de detto casale della Montagna, distretto di questa città di Patti, revela che teni un suo fratello di nome Bernardo di Nora Gitto, di anni trenta incirca, di mediocre statura , brunetto fu preso a Capo de Orlando già si fanno anni setti, si dice che è in Biserta, non havi facultà alcuna".

Conclusa la loro triste incombenza, le tre donne uscirono dal palazzo e si ritrovarono nella piazza di San Nicola dove si teneva il mercato cittadino. E tutte e tre non poterono fare a meno di notare che fra tanti uomini e donne che si aggiravano fra le bancarelle c’erano anche degli stranieri dalla pelle nera o olivastra. Tornarono indietro verso la Cattedrale e il Castello, imboccarono la strada che da Sant'Antonio, scendeva al fiume, lo guadarono e ripresero la strada per Fontanarame. Insieme ad altre donne e uomini che tornavano a Montagna, con "panara" e "cufini" vuoti dopo avere venduto le loro mercanzie al mercato di Patti. Risalendo verso il casale, una delle tre tirò fuori il pensiero che la assillava, ma al tempo stesso la rinfrancava: se mio fratello è vivo, potrebbe vivere in questa città che chiamano Biserta e magari adesso è al mercato per comprare qualcosa per il padrone. E magari se la passa meglio che in Sicilia e dunque non tornerà mai. Le altre due annuirono e invocando la Madonna dissero che sì, magari era così.

Cadere nelle mani dei pirati o dei corsari turchi, era dunque un rischio da mettere nel conto anche quando si facevano piccoli spostamenti. I tre muntagnari prigionieri a Biserta erano stati catturati insieme vicino Capo d'Orlando. Poteva capitare andando per mare, ma anche restando a terra, con i piedi saldamente aderenti al terreno. Pio Sirna, raccontando dei mulini che sorgevano lungo il corso del torrente Montagnareale, ad un certo punto parla di un impianto che si trovava molto vicino alla costa e che può essere collocato vicino alla chiesetta di Sant’Eramo. Spiega Sirna che  "erano attestati “un mulinello a baxio pi dela marina” ed uno nella “propinqua ad astari vicina alla marina delli territori di ditta chita di patti”; questo era “multo pericoloso di corsari” come nel passato era avvenuto per due volte. Due atti del 1581 attestano infatti che furono fatti schiavi prima undici persone e poi altre ventidue"[13]

Stiamo parlando di un mulino che sorgeva più o meno nell'area dove è stata scoperta la Villa romana. Ma neanche i luoghi più lontani dalle coste erano al sicuro. E questo forse spiega la presenza nel territorio di Montagnareale, a poche decine di metri dal mulino oggi chiamato di Capo di una costruzione, adibita a fienile, distrutta negli Anni 80: senza porta e molto simile ad una torre. Si accedeva all’interno da una grande finestra posta molto in alto e raggiungibile solo con una scala che si poteva facilmente ritirare. Doveva servire molto probabilmente come luogo di rifugio per i contadini che di fronte ad un allarme si trovavano al mulino o nelle campagne vicine.

Elenco di siciliani riscattati nel 1590

Il problema dei "cattivi" in mano ai corsari era dunque ben noto anche a Patti e dintorni. I documenti dell'archivio vescovile sono pieni di nomi e cognomi. E di storie tristi. L'Archivio della Curia di Patti ne fornisce un vasto campione, ricordato da Sirna nei suoi libri. "Verso il 1564, anche il pattese Iacopo Di Dominico era prigioniero a Costantinopoli insieme a Riezo da Ucria, “priso ala galera et era schiavo di lo genero di lo gran turco”. Le sue condizioni erano comunque buone e viene descritto Iacopo come “persona rifatta e di buona salute e cum la faci biancolina”. Reizo poi parte e il testimone ritornato a Costantinopoli dopo sette anni viene a sapere della sua morte da altri prigionieri. Un altro pattese, Salvo De Amato, nel 1572, dà notizie di “Bernardino Nicolosi, “ de castro ad mare del golfo” che dopo otto anni di prigionia a Costantinopoli e altri due di prigione era riuscito a scappare. Ma muore e viene seppellito da altri due cristiani fuori dalla città".    


Abbiamo ancora un'altra testimonianza che rigurda Sorrentini. Intorno all’anno 1568 su “una galera di turchi dela quale era raissi no.e raissi calasar d’algeri” si trovava uno “sbandato” trentenne pattese; liberato dagli spagnoli, che partiva “da barselona per genua con uno brigantino”, ma moriva annegato nei mari di Francia. Il testimone che parla in questo atto dice anche di avere conosciuto un ventenne sposato di Sorrentini. Racconta che lui era stato fatto prigioniero su una nave di Trapani “in lo capo di s.to vito d’otto vasselli di turchi deli quali era raissi lo nipote di drogut invaxa di tripoli”. Era riuscito a fuggire dopo sei mesi “in la flumara di tortosa in catalogna” ed aveva raggiunto Genova su un brigantino. E nella città ligure aveva ritrovato il giovane di Sorrentino libero".


Il fenomeno non risparmiava gioiosa Guardia. Scrive Stirna: "Fra il 1568/69 e fino al 1583, il pattese Antonio Manna risultava essere prigioniero a Tripoli. E in questa città aveva conosciuto Pietro Spagnasanti di Giusa, morto di peste sulla galera di “sambasa” della città e sepolto da altri schiavi, Nello stesso periodo era prigioniero a Tunisi, presso il rais “maymi” un altro pattese, Vincenzo Foti, che aveva avuto conferma della morte dello Spagnasanti da altri cristiani. Un evento confermato anche da un altro abitante di Giusa, Marzio Gaglio, che lo aveva appreso a Palermo da un giovane appena rientrato dalla prigionia".


Ancora nel 1573, "un pattese ricorda che verso febbraio si trovava  “in susa di barbaria undi si havia rescaptato da potiri di turchi”. Qui moriva fuori dalla città un abitante di Sorrentini e diversi cristiani, tra cui due pattesi, lo avevano seppellito “intra la rina”. Un altro teste colloca il fatto nel mese di giugno e dice di due pattesi morti: la moglie di uno, poi riferisce che il marito era stato preso dai corsari “in li zappardini”, ove erano stati compiute alcune depredazioni. Il prigioniero, “portato captivo in barbaria”, come riferivano alcuni riscattati, vi moriva".


L'incontro delle tre donne di Montagna con schiavi stranieri a Patti mostra come se fosse alto il rischio per un siciliano di finire in schiavitù, lo era altrettanto per gli uomini e le donne che vivevano sulle sponde opposte del Mediterraneo. E non solo. Perché molti schiavi approdati sulle coste del Mediterraneo arrivano direttamente dall’Africa nera. Molto prima che il flusso prendesse le rotte del Nuovo Mondo.  E ancora una volta i registri della Corte giuratoria conservati a Patti ce ne danno una dimostrazione. Ecco il risultato di un altro censimento, compilato nel 1593, in occasione del rivelo dei beni e delle anime.

"Revelo delli scavi esistenti nella città di Patti, soi casali et territorio, fatti per li patruni di quelli in vertù di bannu promulgato dello spettabile capitano et giurati della città di Patti dell’anno presente VI inditione 1592 del primo di gennaio di detto anno per tutti li medesimi mesi conformi ad una lettera viceregia spedita in palmo a li atti di luglio 1589 nel modo che segue.

Il dottore Mercurio Di Muni rivela quattro scavi cristiani, tre femine, una di nome Epifania di anni vintotto, l’altra nome Antonina di anni sei, l’altra nome Margherita d’anni tre, l’altro mascolo di nome Tomaso di anni 5, nigri così nati.

Il mastro Marco Ferrante revela uno scavo turno facto cristiano di nome Francesco di anni trentuno.

Il mastro Andrea Lo Proro, quondam Prospero, rivela quattro scavi cristiani, di quali una femina e tre mascoli; una nome Maddalena d’anni cinquantuno, l’altra Jacomo di anni tredici, l’altro Joandominico di anni otto, l’altro di nome Filippo di anni 25, nigri.

Mastro Giuseppe Leto revela una schiava cristiana cafardita di nome Vincenza di anni trentuno incirca. Mastro Giovanni Barbaro revela quattro scavi bianchi cafarditi cristiani: una nome Isabella di anni trentacinque; l’altra Magdalena di anni trentadue, l’altra di nome Minichella di anni nove, l’altro mascolo di nome Jeronimo di anni 3.

Il dottore Cesare Stoppia revela uno scavo bianco di cristiano di nome Prospero di anni trentancinque incirca.

La mastra Masa Stoppia, rivela aviri due scavi cristiani di nome di anni trentuno incirca, l’altro Dominico di anni trentuno all’incirca, l’altro di nome Francesco di anni sei.

Il mastro Andrea Stoppia rivela aviri uno scavo bianco cafonatico cristiano di nome Mercurio di anni trentanove.

Il mastro Francesco Buchiaresimo revela aviri una scaca cafotinazzata olvastra crisitiana di nome Nina di anni sessantre.

Il mastro Giuseppe Calcagno rivela avere due scavi cristiani olivastri cafotinazzati, uno nome Paolo di anni tredici circa, l’altro di novi anni incirca.

Lo eccelletissimo et reverendisismo vescoco di Patti revela avere uno schiavo nigro cristiano di nome Giovanni di anni trentatre incirca.

Il mastro Giuseppe Rizzo revela avere due scavi, una cristiana di nome Julia di anni trentuno incirca e un figliolo battizzato di nome Filici di anni cinco incirca.

Il dottore Andrea Lo Proto revela aviri uno schiavo nigro saracino di nome Giorgio di anni quindici.

Lo spettabile capitano Aloisio Pinzadenella, regio capitano, revela tenere una scava olivastra di nome Giulia, cristiana di anni quarantacinque"


Dunque anche il vescovo di Patti, all'epoca era monsignor Gilberto Isfar y Corillas, possedeva uno schiavo. Come altri prelati. La mano pietosa di un chierico del casale della Montagna, per esempio, registra il 13 luglio 1615 la morte di una "scavotta di prete Pietro Tinghino". Neanche un nome, Perchè probabilmente si trattava di una "verna", una bambina nata da una schiava. Ma nomi e cognomi siciliani, spesso rivelano questa antica condizione sociale. Perchè molti schiavi si riscattavano o venivano liberati dai loro padroni. E fissavano nel nome e nel cognome questa nuova condizione: "Lo schiavo manomesso or prendeva il nome di Liberto o di Franco or quello del padrone che lo aveva reso libero; ora appunto quello di Rosalibra, Libera, Libra, Nigro, Lo Nigro, Scavo, Lo Scavo, Morano, Marana, Maurizi, Bianca, Lo Blanco, Salvo, Fortunato, etc. etc. Se verna foggiava il cognome sul nome della madre: Di Lucia, D’Anna, Di Grazia, Di Antona,  D’Agata, Di Maria, Di Margherita, Di Filomena, Di Chiara, Di Martina etc., cognomi molto diffusi in Sicilia.  [14]

Ma andando per mare tutti erano cacciatori e prede. E i ruoli spesso non erano molto chiari. Perchè non c'erano solo i corsari di una parte e dell'altra. Lo si capisce molto bene leggendo questo passo di un anonimo viaggiatore francese che consegnò ad un testo scritto[15] il suo viaggio. E alla data 24 marzo 1589 lo troviamo a Patti, dopo qualche giorno travagliato a causa di una mareggiata che lo aveva sorpreso insieme ai suoi compagni di viaggio a Capo d'Orlando. Quella mattina si imbarca per raggiungere Messina. "Partimmo due ore prima del levare del giorno, - annota - e appena fummo due o tre miglia in mare, vedemmo un piccolo brigantino che ci seguiva, nel quale erano dei corsari, non turchi, ma dello stesso luogo dal quale eravamo partiti: ciò che sapemmo per averli visti venire da terra". Il comandante manovra abilmente e grazie al vento in poppa distanzia gli assalitori e si rifugia nel porto di Milazzo, sventando il sequestro della comitiva di francesi che qualcuno a Patti e dintorni aveva individuato come facile prede da vendere sul fiorente mercato mediterraneo degli schiavi.

Un mercato che non conosceva confini, razze e religioni. Perchè poteva capitare che i corsari saraceni venuti per rapire potenziali schiavi finissero loro in quello stato. Il 2 luglio del 1571, per esempio, anche gli abitanti del casale della Montagna erano stati allertati dai fuochi che erano stati accesi sulle torri di guardia per segnalare la presenza di navi saracene nel golfo di Patti, fra la costa e le isole Eolie. In quel periodo il mare era solcato da galere e navi di ogni tipo che si dirigevano verso Messina, dove don Giovanni d'Austria stava organizzando la flotta che si sarebbe scontrata il 7 ottobre con i turchi nella famosa battaglia di Lepanto. E gli assalitori islamici incapparono in una nave veneziana, Il braccio di Venezia che li attaccò e li sconfisse. [16] Della vicenda, episodio minore di uno scontro ben più ampio, resta traccia perché il comandante della nave entro in conflitto con un altro comandante veneziano che sosteneva di avere partecipato allo scontro e chiedeva una parte del bottino: a bordo della nave corsara algerina c'erano 12 corsari: uno morì nello scontro, gli altri 11 vennero venduti come schiavi[17]

Strade e torri

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Il Casale della Montagna fino al 1638 giuridicamente faceva parte della città demaniale di Patti. [18] Come il casale di Sorrentini. Mentre Librizzi e Gioiosa Guardia, questa fra mille polemiche e cento cause, appartenevano al vescovo di Patti. In quell’anno memorabile gli abitanti del Casale della Montagna, ì muntagnari, pagando, riuscirono a separarsi da Patti e divenne la 43esima città demaniale del Regno di Sicilia. E per segnalare il cambio di status, città autonoma, appartenente al demanio regio, il nome fu cambiato in Montagna regia o Montagna reale. L'indipendenza duro però molto poco, travolta dalle complesse vicende politico-finanziarie della Spagna.[19]

Montagnareale oggi si trova a dieci minuti di macchina dal casello di Patti della A20, la Palermo-Messina. La chiamano autostrada, ma questa parola suona beffarda e quasi ingiuriosa. Comunque, se si fanno una settantina di chilometri verso est si arriva a Messina. Percorrendone 120 nella direzione opposta ci si ritrova a Palermo. Al tempo dell'Arezzo e del Fazello da Palermo a Messina il mezzo più comodo per viaggiare era una imbarcazione. Ma questa scelta aveva come contro indicazione il rischio di finire, come abbiamo visto, nelle mani di qualche corsaro, di ritrovarsi schiavo ad Algeri o Tunisi.


L'alternativa al pericoloso viaggio per mare era quella di mettersi in groppa ad una cavalcatura e andare per via di terra. Seguendo quello che restava della vecchia Via Valeria romana, la via della Marina, che partiva da Trapani e arrivava a Messina. O imboccare invece la via della Montagna per Messina, che tagliando dall'interno dell'isola portava verso la costa ionica e poi risaliva verso Messina e lo Stretto. Ma prima, come nelle moderne autostrade. c'erano posti di sosta e riposo e numerosi svincoli che attraverso le "purtedde" scavalcavano i Nebrodi e scendevano verso la costa tirrenica. Uno di questi svincoli partiva da Randazzo e risaliva verso lo spartiacque dei Nebrodi: superato questo ostacolo la strada si dirigeva verso Raccuia, Sant'Angelo di Brolo e Capo d'Orlando verso ovest, Montalbano, Tripi e Oliveri verso est. E Librizzi, Montagnareale, Patti verso nord. I pericoli anche qui però non mancavano. Fra Palermo e Messina c'era ancora una fitta foresta popolata di animali non proprio socievoli come orsi e lupi. [20] E da ancor meno socievoli banditi, anche loro a caccia di bottino.

Cancilia scrive del bosco di Gioiosa. Scrive anche dell'uso di legna che facevano i mulini per la produzione dello zucchero. E a Patti c'era uno di questi mulini. Ne parleremo più avanti. Il problema del disboscamento era comunque ben presente alle autorità pattesi. Lo dimostra udue bandi dei giurati del settembre 1580 in cui si ordina che "nixuna persuna digia ne presuma tagliari ne fari tagliari inli boschi et feghi di questa città tanto citatina quanto foristera nixuna spetia di legnami". Nel secondo bando si chiarisce "nixuna persuna, tanto citatina coome foristera, digia ne presuma tagliari ne fari tagliari ligna inli boschi et feghi di ditta città ad effetto di fari casi et barchi senza licentia di essei m. s. giurati, sotot pena di onze 4 di applicarsi al M. S.capitano di essa città et onze 7 e tarì 10 ad essi giurati".

Sulla via Valeria c'erano poi i "mali passi", difficili da superare, molti ponti erano crollati e bisognava guadare i fiumi. Arrivati a Tindari bisognava superare uno di questi "mali passi", il valico della Scala, poi attraversare il Timeto, il torrente Montagnareale e poi l'altro "malo passo" di Capo Calavà. E non era per niente agevole. E allora si poteva scegliere la via della montagna, chiamata Trazzera Regia, che una volta superato il Ponte Vecchio sul Timeto risaliva verso sud, in quella che viene chiamata "Campagna grande" di Montagnareale e poi proseguiva verso ovest. Toccando Bonavita e Laurelllo di cui parleremo. E soprattutto toccando la "Portella grande" che immetteva nell'alveo del Timeto e dava la possibilità di risalire verso Librizzi. San Piero Patti, Ucria, Rocca Valdina o Floresta e da li scendere verso Randazzo e la piana di Catania. La trazzera regia andava poi verso ovest fino ad incrociare in contrada Santa Domenica altre strade e proseguire verso verso Sant'Angelo di Brolo. Qui si formava un crocicchio che fa pensare subito alla "via cruciatam" delle donazioni normanne all'abbazia benedettina di Patti.


Qui arrivava, infatti, un'altra trazzera che veniva da Patti, la Regia Trazzera, che partiva dall'attuale cimitero di Patti, dove sorgeva il convento dei Cappuccini, risaliva verso contrada Monte, Sorrentini e Gioiosa Guardia. Proseguendo poi verso est fino a Santa Domenica. E questa strada potrebbe corrispondere alla via de Arangeriis sempre citata nelle donazioni normanne. Infine c'era una quarta strada, che "darreri o casteddu, scendeva verso il torrente Montagnareale, lo scavalcava e risaliva verso contrada Fontanarame, entrava a Montagnareale, proseguiva verso contrada Granaio e poi si inerpicava fino a Santa Domenica con delle deviazioni verso Bonavita-Laurello da un lato e Gioiosa Guarda dall'altro


Nonostante queste difficoltà la gente si muoveva per i motivi più disparati. Persino quello di sposare una ragazza in un luogo a qualche centinaio di chilometri da casa propria. Cosa avrà spinto Baldassarre Ruffino il 17 novembre del 1604 a lasciare Castrogiovanni, oggi Enna, e spingersi fino al Casale della Montagna per sposare nella Chiesa madre Dominica Caleca? Appare evidente che la coppia, dopo la cerimonia, che dopo il concilio di Trento si celebrava nella parrocchia della sposa, abbia fatto ritorno a Castrogiovanni. Di loro e della loro discendenza nei registri del Casale non c'è più traccia.[21] Dunque ci si muoveva. Si superava anche l'ostacolo dello Stretto. Dalla Calabria arrivava un flusso costante di lavoratori stagionali di cui parleremo. Si creano legami vecchi e nuovi. E anche in questo caso abbiamo prove di spostamenti per motivi matrimoniali. Nel 1580 la Curia vescovile di Patti autorizza un "genthilomo di Montibello di Calabria" a recarsi a Librizzi per sposare una donna locale.[22]


Le vicende, piccole e grandi di Montagnareale sono comunque strettamente intrecciata a quella della vicina città di Patti. E anche dopo la separazione, nonostante gli scontri, anche armati, [23]e le differenti narrazioni sull'evento[24] , vista la vicinanza fra i due paesi, i legami sono rimasti molto forti sia sul piano economico sia su quello sociale. La storia del piccolo borgo, quindi, per secoli è quella di Patti. A partire già dalla presunta fondazione di questa città che viene fissata convenzionalmente il 6 marzo 1194, quando Ruggero I con un diploma ad hoc decide di fondare il monastero benedettino del Santissimo Salvatore con l’annessa chiesa di San Bartolomeo, concedendo all'abate Ambrosio, già a capo dell'abazia di Lipari un vasto territorio. Parte di luel triangolo, di cui abbiamo parlato, con un confine ben definito a oriente, capo Tindari, che risale verso sud, fino a Polverello, e ridiscende verso il mare ad occidente verso capo d'Orlando con un possibile confine delle proprietà dell'abbazia fissato fra Patti e Gioiosa. Più o meno dove oggi scorre il torrente Santa Venera.[25].


Naturalmente è aperto il dibattito fra chi, forte del documento emanato da Ruggero I, fa partire le vicende storiche dal 1094 e chi obietta che l’archeologia segnala presenze umane nella zona ben prima di quella data. Una cosa però sembra certa. All'arrivo dei normanni tutta la zona, dove il potere dei mussulmani era stato più labile, soffriva di una carenza di uomini. Per questo l'abbate Ambrosio, per attirare persone, concesse le terre a condizioni molto favorevoli. E arrivarono quelli che nei testi antichi venivano chiamati "lombardi". Uomini di lingua latina e di religione cattolica provenienti dal nord Italia. Ma non solo. "Altri coloni latine lingue, amalfitani, pugliesi, potentini, uomini del principato di Capua, andarono a popolare Patti, richiamati dall'Abbate Vescovo". [26]

Un afflusso confermato da altri studiosi. Vera von Falkenhausen spiega molto bene quello che accadde. "Essenzialmente diversa era, invece, l’immigrazione lombarda o gallo-italica che riguardava, a quanto pare, esclusivamente la Sicilia. Furono Adelasia dei marchesi di Monferrato, terza moglie di Ruggero I, e il fratello di lei, Enrico, genero dello stesso Ruggero, ad incoraggiare l’afflusso di colonizzatori dell’Italia del Nord verso la Sicilia". [27] Secondo la von Falkenhausen, "sulla scia degli Aleramici anche altri signori incoraggiarono l’afflusso di colonizzatori latini da varie regioni d’Italia: l’abate l’Ambrogio di Lipari invitò ad insediarsi a Patti 'homines quicumque sint, latine lingue' ", dice. E cita il pattese Giovanni Crisostomo Sciacca.[28]

Accanto a questi uomini, ci dice la studiosa tedesca, "di notevole importanza fu l’immigrazione in Sicilia di Longobardi, provenienti dalla Campania e dalla Puglia centrosettentrionale e di Greci dalla Calabria. Tale immigrazione. fu certamente incoraggiata dai Normanni con l’intenzione di rafforzare l’elemento non mussulmano delle popolazione siciliana". Infine c'è da segnalare c'è la terza questione. "L’Immigrazione in Sicilia di Longobardi dell’Italia Meridionale è attestata da un atto di compravendita agrigentino del 1112. Troviamo altri Longobardi identificabili dai nomi e patronimici tipicamente longobardi quali Argesi, Alderisi, Sicardo e Andolfo. Troviamo altri Longobardi, identificabili dai nomi e patronimici oppure dai luoghi di provenienza indicati, se pure raramente, nei documenti tra burgens delle piccole e medie città siciliane: Patti, Cefalù, Petralia e altre".

Ora non abbiamo prove certe d cosa accadde veramente nel pattese, dove la regina Adelasia era di casa e vi fu anche sepolta. Ma questo è un "cuntu". E quindi possiamo azzardare una narrazione. A cominciare dalle parole, dalla toponomastica. E possiamo rivolgerci ad un maestro come Gerard Rohlfs. Il quadro che descrive, parlando dell'arrivo dei normanni, parte sempre da un dato che sembra assodato: “Si ebbe allora una massiva immigrazione di coloni chiamati dai nuovi feudatari e dalle autorità normanne per ripopolare vaste zone rimaste semidesertiche  dopo l’espulsione degli Arabi. Queste immigrazioni che per via di mare provenivano principalmente da Genova e dal Piemonte, (Monferrato), ebbe l’effetto  di una vera colonizzazione, nel senso di una nuova colonizzazione. Essa si manifestò con chiara e assoluta prevalenza,  se pur con diseguali conseguenze, nella Sicilia orientale. Esistono ancora oggi alcuni grossi centri  dove i discendenti degli antichi coloni settentrionali (una volta chiamati comunemente lombardi), hanno mantenuto il loro linguaggio di tipo ligure piemontese: Novara e San Fratello in provincia di Messina, Nicosia, Sperlinga, Aidone e Piazza Armerina in provincia di Enna. Altri gruppi di coloni settentrionali hanno accolto man mano l’indigeno dialetto siciliano, frammisto però a non pochi elementi del loro antico linguaggio”. [29]


Lo studioso aggiunge: “E non sono rari i settentrionalismi che nel corso dei secoli si sono incorporati nel siciliano come nell’intero territorio siciliano”. Rohlfs elenca alcuni apporti di  linguaggio ligure-piemontese di cui è rimasta importante traccia nel dialetto siciliano: l’aggettivo pronominale mè, tò, sò che rimane sempre invariato (mè frati, mè soru, tò matri, sà figghiu), l’avverbio unni, dove,  invece del duve dei dialetti meridionali della penisola (antico piemontese e genovese unde) e tomma o tumazzu  (piemontese tuma) invece del meridionale casu, formaggio. I nuovi venuti hanno portato parole come orbo, cieco, soggiro, suocero, boccetta, bizzuni , testa per capo, troja per scrofa. Esempi di ligurismo  è beccu, maschio della capra". [30]

Ma nel Casale della Montagna i lombardi hanno lasciato altre tracce. Hanno portato dalle loro valli l’etimo verna, letteralmente luogo dove crescono gli ontani. Alberi che nascono e crescono bene nelle vicinanze dell'acqua. E verna è un toponimo gallo celtico che si ritrova nell'ambito ligure piemontese, in Emilia e Toscana. E anche in Lucania. Verne o verni è una parola molto comune a Montagnareale e dintorni. Esiste, per esempio, una contrada Acquaverni, dove c'è una sorgente; esiste una contrada delli Verni oggi nel territorio di Gioiosa Marea. Soprattutto esiste a Montagnareale a fontana “i Verni”, situata nel cuore del piccolo paese. Reminiscenza dell'antico “quartero delle Verni” di cui parlano di documenti del tardo ‘500 e del primo 600.

Prendiamo per esempio alcuni riveli, documenti di epoca spagnola a metà strada fra il censimento demografico e la dichiarazione dei redditi. Andiamo a sbirciare in quello di Santoro Lupuglia, nel 1584 uno dei maggiorenti del casale. L’uomo dichiara di avere 50 anni, di essere sposato con Perna, di avere un figlio maschio, Vincenzo, di 18 anni, e cinque femmine: Minica, (età sconosciuta), Ventura (battezzata, secondo i registri parrocchiali il 14 agosto del 1582), Andriana (28 febbraio 1585), Joanna (3 novembre 1587) e Vennera (23 febbraio 1590). Al momento di “rivelare”  i suoi “beni stabili” il Lopuglia inizia dichiarando di avere “due case e un casalino terrani nello quartero delli Verni, confinante con Joanni Santospirito, Matteo Lucchesi e via pubblica”. Santoro continua e “revela” di possedere “un’altra casa nello quartero delli Verni confinante con la casa di Garita Giuttari e con li eredi di Santoro di Nioro”.

Nel 1623, per esempio, davanti alle autorità si presenta Bernardino Spatola, che, che sarà uno degli abitanti che più si batterà per la divisione da Patti. Ora, il nostro Bernardino dichiara di avere 26 anni, di essere sposato con Isabella, di avere due figli, Simone, quattro anni, e Antonello, due. Inoltre in casa vive anche Finuzza Rottino, “sua garzona”. Ecco l’elenco dei “beni stabili”. “Una casa solarata nella contrada delli Verni, confinante con casa di notar Antonino Muni et casa di Mico Stancanplano, la quale si potea locare ogni anno onza una ad ragione di onze 1000. Valore onze 20. Un loco con arbori di celsi e casa terranea".


Dunque il "quartero delli Verni" era la zona bene del casale della Montagna. Costruito intorno alla sorgente. Ma i suoi abitanti non sapevano che molto probabilmente quel none "verni" l'avevano importato ed imposto antichi abitanti di Patti e dintorni che venivano dal basso Monferrato e usavano una parola gallo celtica che è ancora in uso in alcune zone della Val d'Aosta e della Francia. E visto che "narriamo" buttiamo sul tavolo anche il toponimno Bocchetta. Quello che indica l'alta collina che si staglia proprio di fronte a Montagnareale. Abbiamo già visto come questi migranti raggiungessero la Sicilia via mare, partendo da Genova. Ma come arrivavano queste persone dal Monferrato sulle coste del Tirreno: attraverso il passo della Bocchetta. Un valico storico che era attraversato dalla via Postumia una consolare romana. E difficile pensare che la Via Valeria di cui abbiamo parlato. e la collina boscosa dove sorgeva Bocchetta, ricordassero agli emigranti i luoghi di origine?

Questi migranti arrivavano comunque con uno status particolare. "Ebbevi terre concedute nella quali i signori invitavano e raccoglievano uomini e famiglie per venirvi ad abitare: furono insomma popolazioni quasi tutte nuove e vassallaggi di prima fondazione: ora in esse prescrivevano alcune leggi i baroni e fissavano ai loro nuovi vassalli le maniere e le condizioni del pascolare e dichiaravano i servizi che dovean prestare. Tale fu Patti, conceduta ad Ambrosio, abbate del monastero di Lipari, nella quale città avendo ei raccolto di quelli uomini spezialmente che dicansi di linguaggio latino, che è quanto dire naturali siciliani, lombardi e normanni, stabilì egli dal principio alcuni statuti che ridusse in atto pubblico, chiamato allora carta di memoria, e fattene due copie autentiche simigliantissime, una ritenne per sé e consegnò l’altra ai pattesi", scrive Rosario Gregorio. [31]

La questione è naturalmente molto complessa. Basta pensare che il successore dell'abbate Ambrosio, Giovanni da Pergana, quelle concessione cerco di limitare e ridimensionare. Ma quello che ci interessa è stabilire una probabile iniziale distinzione, via via poi sempre più sfumata. fra i burngensis e i villani. "Il burgensis viene definito come colui che vive o risiede in un burgus o in un centro urbano fortificato, all’interno del quale possiede dei beni allodiali, e che paga al dominus burgi una tassa, il burgagium, proprio in virtù di questi suoi possedimenti". [32] Gli altri, invece, chiamati in modi diversi, invece erano gli uomini legati alla terra, in uno stato servile. Dunque i nuovi arrivati vivevano nel castrum di Patti e avevano gl stessi diritti di quelli che ci abitavano. Gli altri, invece, popolavano i casali. Questo non vuol dire che non ci fossero greci o arabi in posizioni importanti dell'amministrazione.

Ma lo schema principale sembra quello di dominanti, anche i nuovi arrivati, sistemati al riparo delle mura e delle torri, e gli altri, nei luoghi aperti. Nel nostro caso abbiamo anche una platea, un censimento, voluta dal vescovo di Patti fra il 1131 1147, che fotografa questa situazione. Fra i casali censiti c'è infatti anche Librizzi, dove la popolazione è divisa fra greci e musulmani.. Fra le terre censite non c'è Montagna. Forse perchè non ancora esistente. O forse perchè considerata parte integrante di Patti. O forse perchè nascerà quando lo status e le condizioni di vita degli immigrati peggioreranno, fino ad avvcinarrsi a quelle dei villani con l'espulsione verso il casale.

Questi centri abitati erano aperti e senza difese e come spiega benissimo uno storico siciliano, Carmelo Tasselli, all'inizio erano composti da "pagghiari". [33] Nel caso di Montagna probabilmente. all'inizio erano abitati da allevatori di bovini e ovini, sorveglianti di maiali allevati allo stato brado, raggruppati intorno ad una unica costruzione in muratura, una stanza, che ospitava la chiesa. Di culto greco bizantino. Una predominanza della lingua e della cultura greca che ruota intorno al monastero basiliano di Sant'Angelo di Brolo, trovato ancora in funzione dai normanni e rilanciato dagli Altavilla.


Questo humus greco bizantino è confermato a Montagnareale da altri indizi. in primo luogo il ricordo orale di un insediamento sulle montagne circostanti chiamato Sant'Ippolito. Sarebbe stato distrutto da una frana, ma le campane della chiesa sarebbero state trasportate nell'omonima chiesa che sorge a Patti, dedicata sempre a Sant'Ippolito. La vicinanza di questo sito con la Portella Grande, un varco che permette di ridiscendere verso il Timeto e risalire verso Librizzi, San Piero Patti, Raccuia, Ucria e Floresta, per ridiscendere poi vero Randazzo e la piana di Catania, fa ipotizzare che si trattasse di un luogo cresciuto intorno ad una torre costruita per controllare l'importante via di collegamento. Un fortilizio speculare a quello che in epoca normanna Ruggero I farà costruire nel territorio di Focerò, ad occidente di Sant'Ippolito.

Un altro racconto orale su un monastero che sorgeva in contrada Bonavita, nella località chiamata "u chianu u monacu. rimanda nuovamente a queste radici greco bizantine. I contadini hanno sempre parlato di ceramiche e utensili che venivano alla luce durante i lavori in questi terreni. Sempre a Bonavita, sempre secondo la tradizione orale, nella valle dove nel 1969 sono state ritrovate delle tombe greche risalenti al IV secolo a. C. sarebbe sorto anche un monastero femminile. Infine, poco più sud, sorge la frazione di Laurello, il cui toponimo rimanda alle lauree, insediamenti di monaci basiliani, eremiti che vivevano in delle grotte, ma condividevano una chiesa e una mensa comune.

Di questi casali di Patti abbiamo una prima notizia dal libro del viaggiatore e geografo arabo Edrisi, nato alla fine del 1100 e morto nel 1254, che di Patti scrive: “Bel paese che sovrasta il mare alla distanza di un miglio, (...) è una fortezza difendevole con un vasto territorio, che racchiude feraci campi da seminare, casali prosperosi, acque correnti, numerosi giardini”. Il primo documento che attesta l'esistenza del casale della Montagna è però del 1308.

Si tratta dell'elenco delle decime raccolte nel vescovato di Patti fra il 1308 e il 1309, un documento conservato all'Archivio segreto Vaticano. dove ad un certo punto si legge. "Presbiter Nicolaus capellanus ecclesie S. Marie de casali Montanie". Dunque Nicola esercita la sua funzione in una chiesa dedicata a Santa Maria, che nel contesto greco bizantino di cui abbiamo parlato potrebbe essere Santa Maria la Nova, madonna a cui era dedicata la chiesa del Patirion di Rossano, il centro religioso culturale più importante della Calabria e della Sicilia bizantina.

Agli inizi del 1300 la Sicilia era però entrata in una fase di depressione economica e di spopolamento che provocò un vero e proprio abbandono di casali e villaggi. Un processo innescato da un mutamento climatico con più freddo e piogge, che arrecò gravi danni alla produzione agricola che incise in negativo sull'andamento demografico. E alla fine culminò nella Peste nera del 1348 che parti proprio da Messina e travolse il sistema economico e demografico dell'Europa.

La situazione siciliana fu aggravata da mezzo secolo di disordine politico e scontri per il potere che si conclusero alla fine del 1300 con il passaggio dell'Isola sotto il dominio aragonese. Intanto, nella prima metà del 1300 del casale della Montagna e di quello di Librizzi si perdono le tracce. Probabilmente vittime dello spopolamento e dell'abbandono dei centri abitati. Librizzi e il casale della Montagna riappaiono sulla scena nel 1366, quando a Patti si materializza Vinciguerra Aragona. é uno dei potenti dell'epoca, discendente del re Pietro d'Aragona e per parte di madre della famiglia siciliana dei Palizzi. E' lui che ricostruisce Librizzi e il casale della Montagna. E il verbo non sembra usato a caso. Innalza la torre di Gioiosa Guardia che verrà presto popolata.

Probabilmente da persone che abbandonano il vecchio casale di Zuppardino. E da qui la storia del casale della Montagna ricomincia in maniera confusa. Nella zona spadroneggiano gli Aragona, Il figlio di Vinciguerra, Bartolomeo, entra in conflitto con i vescovi e quando in Sicilia sbarcano i catalani si scontra pure con il nuovo re Martino il vecchio. Alla fine sarà bandito dall'isola e va a cercare rifugio dai suoi alleati milanesi. Il nuovo potere cerca di mettere ordine nel disordine e alla fine, ma è un processo che riguarda tutta la Sicilia, concede al vescovo di Patti il controllo di Librizzi e Gioiosa Guardia, con molte proteste dei gioiosani che contesteranno per secoli, mentre il casale della Montagna e quello di Sorrentini vengono aggreati alla città demaniale di Patti. Inizia così il XV secolo di cui poco sappiamo su Montagnareale.

Perchè nessuno ha mai scavato in un archivio. Ma passano i decenni e arriviamo alla meta del XVI secolo. E ritroviamo il casale della Montagna nella stessa situazione di spopolamento e abbandono della fine del 1300. Lo sappiamo perchè i notai della curia vescovile, alla fine del XVI secolo allarmati dall'aumento del prezzo del grano, la famosa inflazione, e non sapendo spiegare il fenomeno vanno in giro ad interrogare gli anziani su come si vivesse qualche decennio prima.

Una di queste persone Francesco Murro, siamo nel 1581, dichiara di avere 75 anni, e conferma che quando era ragazzo prendere in affitto un mulino costava un decimo di quanto costa adesso. L'uomo dice anche un'altra cosa: dice che dal 1515, 1520, il prezzo delle merci è aumentato perchè è aumentata la domanda. Ci sono più persone, più abitanti. Il suo racconto è illuminante. Dice che "jnquista chita di patti jnlo borgo che hogi che es una altra terra per li tanti casi et habitationi che chi es et jpso testimonio non chi lo sa si non pochissimi casi et cossi ancora jnlo casali di ditta chita che di anno in anno sempri hanno augmentato et augmentano lj genti et li casi". Da questo racconto, trascritto dai notai, veniamo a sapere che l'uomo usa come metro di valutazione il prezzo del grano e quello dell'affitto di un mulino.

Due elementi fondamentali per entrare in possesso del pane, il fondamento dell'alimentazione della popolazione. Ora, sotto il casale della Montagna, scorreva, come scorre ancora oggi il torrente Montagnareale. Oggi è quasi secco e non incute molto timore. Ma una delle prime cose in cui ci si imbatte aprendo il volume più antico della chiesa parrocchiale è un atto di morte di un bambino del 1559: Una scarna annotazione nel libro defunti ci informa che “Minico, figlio di Joanni Sidoti è morto nigato nella chumara”.

Dunque quel torrente aveva una portata ben più consistente. E giocava un ruolo economico importante perchè, come detto, lungo il suo corso c'erano diversi mulini ad acqua. Nei pressi del Casale c'era quello di "suso", ancora in piedi, collocato nei pressi di contrada Vignale, quello di "mezzo", identificbile con l'attuale Mulino di Capo, restaurato e funzionante, e quello di Juso. collocabile più meno sotto la chiesa di San Nicola. Ora, questa zona è chiamata nel dialetto locale "a costa 'nfernu", letteralmente il "costone dell'inferno". E il suo carattere scosceso, inaccessibile, l'essere una gola stretta, basterebbe a giustificare il toponimo. E invece Corrado Avolio, studioso di onomastica siciliana di fine Otitcento, ci informa che no, quella dizione "costa 'nfernu" deriva dall'arabo e vuol dire "luogo dove sorgono i mulini".

Sorpresa? Non tanto. Perchè questi relitti arabi sono molto presenti nel dialetto e nella toponomastica siciliana. E Montagnareale non fa certo eccezione. Qui tutto quello che fa riferimento all'acqua ha una diretta ascendenza linguistica araba: a cominciare dalla gibbia, la vasca dove si raccoglie l'acqua, a tutto il complesso apparato che la porta per i fondi, saia, prisa, alle grandezza delle sorgente, favara, ai tubi, catusi, agli accorgimenti per non disperdere un bene prezioso, urio, al fango che tutta questa acqua produce , u margiu. Ma la prova principe di questa presenza araba nel mondo dell'acqua è l'esistenza della contrada Spirini. Il toponimo ,sempre arabo, "luogo dove si raccolgono le acque". E in effetti in questa contrada, dove abbondano orti e aranceti, in alto troviamo una piccola costruzione, un luogo dove viene incanalata una sorgente, e a cascata, fino al letto del torrente una serie di vasche e di condotte che permettono la raccolta e lo sfruttamento dell'acqua che deriva da diversi sorgenti. Questa digressione nel mondo dell'acqua non è però fine a stessa e si lega al fenomeno di crescita demografica e ripopolamento a cui abbiamo accennato. Perchè questo complesso sistema aveva bisogno di manutenzione. E il mulino di "suso" del Casale della Montagna era il primo di una catena di almeno altri otto, con l'ultimo vicino alla riva del Tirreno. Inoltre, a Patti esisteva il viridario del Vescovo, gli orti che sorgevano lungo le sponde del torrente del Montagnareale, una zona, che in un passato non molto lontano era chiamato "ortula". Infine, elemento dimenticato, sorgeva un altro tipo di impresa economica sempre di proprietà del vescovo: uno zuccherificio, dove si lavorava la "cannamele". Ora, queste imprese, mulini, orti, zuccherificio, si reggevano sull'acqua per fare muovere le macine, irrigare le piante. Soprattutto le canne da zucchero che avevano bisogno di molta acqua. Ora, abbiamo le prove che questa opera di manutenzione fosse affidata a squadre di calabresi, migranti stagionali, che si trasferivano in Sicilia seguendo l'andamento delle attività agricole. In particolare quelli che si occupavano dell'acqua erano composte da 25 persone, sotto la guida di un caporale che li raggruppava e li dirigeva. Come detto, non si occupavano solo di acqua. Per esempio, al tempo della mietitura si spargevano nella Sicilia centrale e occidentale: le terre del latifondo e del grano. Per molto tempo questa attività prevedeva un viaggio di andata e uno di ritorno con alcuni inconvenienti: dalla Calabria alla Sicilia si passava da uno Stato ad un altro. Inoltre, il salario veniva pagato in onze siciliane e doveva essere poi convertito in ducati napoletani con i rischi del caso che potevano incidere sul potere di acquisto. Per questo, ad un certo punto, la migrazione stagione si trasformò in trasferimento stabile in Sicilia insieme alle famiglie. E la prova di questo evento è nei registri parrocchiali del casale della Montagna, dove nella seconda metà del 500, si vede che c'è stato l'aumento della popolazione dichiarato dal teste Murro interrogato dai notai del vescovo. Lo si vede perchè abbondano atti dove i contraenti vengono registrati così: "Mariola, muglieri di Culella lu calabrisi; Diana di Spatula; Chicco di Calabria; La muglieri di Gilormo Citraro; Vincenzo, figlio di lu calabrisi; Ramunda di Calabria; Autilia di Calabria; Diana lu calabrisi; Plachenzia di Calabria; Filippo Spata; Joanni lu calabrisi; Angela di Giorgio la muglieri di Gilormo Citraro; la moglie di Dominico Billuccia: Filippo Spata". O così: "Chicco di Calabria; Lauria di Calabria: Antonino di Calabria; Rosa di Calabria; Joanni di Calabria; Matteo Calabro; Diana Calabro; Bernardino lu calabrisi; Berta lu calabrisi; Marina lu calabrisi; Vincenzo lu calabrisi; Joanni lu calabrisi; Cathaldo lu calabrisi; Antonina lu calabrisi; Antonino Calabro; Garita Calabro; Caterina Calabro; Bernardina Calabro; Perna Calabro; Mastro Culella lu calabrisi; Antonello Calabro: Augustino Calabrisi Garita di Pizo". Come si vede qualche volta vengono indicati i paese di provenienza. Qualche volta, invece, la corruzione linguistica nasconde questo dato: come nel caso di Sidoti, che in origine suonava come Scidoti, cioè originari di Scido. Ma gli esempio sono ricchissimi: Pelleriti che rimanda a Pellaro, Ioppolo, Calanna. Inoltre, spesso queste persone vengono indicate con un doppio cognome. Per esempio Calabria Spata. E questo fenomeno apre uno spiraglio su un altro aspetto di questa emigrazione: il trasferimento in Sicilia di uomini arrivati in Calabria dall'Albania e dalla Grecia sotto la pressione dell'avanzata turca. Dopo una prima accoglienza favorevole, le popolazioni locali entrarono in conflitto con questi gruppi che alla fine decisero di passare in Sicilia. Il frutto più evidente e la fondazione di Piana dei Greci, oggi ribattezzata Piana degli Albanesi. dove ancora oggi si professa il culto cattolico ortodosso. Ma si intuisce che durante questo spostamento ci siano stati degli abbandoni, dei piccoli flussi che non hanno raggiunto la meta finale se si siano fermati in altri luoghi. E il casale della Montagna, e Gioiosa Guardia, per gli antichi legami con il mondo greco bizantino di cui abbiamo parlato, sembrano veramente dei luoghi ideali da ripopolare e ricostruire. E in questo catalogo di antenati di origine calabro-albanese possiamo trovare: Bruno Spata, Calabria Aurichiella, Calabria Cannata, Calabria Carlino, Calabria Di Giorgi, Calabria Fazio, Calabria Spata, Calabria Vinci, Calabrisello Allio, Calabro Spata". Ora, queste persone, hanno scelto di restare in Sicilia. Ma per secoli hanno continuato a seguire gli antichi percorsi lavorativi degli antenati. E quindi li troviamo nel 1575 che mietono a Castrogiovanni, oggi Enna. Lo sappiamo perchè un gruppo di lavoratori partiti da Patti, Montagna e Sorrentini, fanno causa davanti al tribunale del Vescovo perchè i loro caporali li avevano imbrogliati, facendo la cresta sul compenso che avevano pattuito con i proprietari dei fondi. Un fenomeno questo che è andato avanti, come detto, per secoli. E basta avere la fortuna di sedersi in piazza per potere ancora ascoltare come e quando si partiva, dove si andava e come si lavorava, dalla viva voce di qualche abitante di Montagnareale novantenne. E non andavano solo a mietere o vendemmiare nel catanese. C'erano lavoratori che replicavano lo schema della squadra dei 25 lavoratori che si occupavano negli zuccherifici che punteggiavano la costa tirrenica fino a Trapani. Dunque, nel Cinquecento, il casale della Montagna, e le vicine gioiosa Guardia e Sorrentini, riprendono vita e slancio demografico. E nel frattempo, in seguito alla decisioni del Concilio di Trento, i preti iniziano a tenere i registri parrocchiali. Che non sono solo un arido elenco di date, nomi e cognomi. Nascondono fra le pieghe notizie, andamenti, dati costanti nei scoli da cui ricavare indicazione sociali ed economiche. Nel caso del Casale della Montagna, poi, vista la vicinanza a Patti e alla sede vescovile, abbiamo nel volume più antico, 1555/1602, una parte dove vescovi e visitatori vescovili lasciano traccia nella realtà locale delle decisioni prese a Trento. E, spesso, prescrivendo comportamenti nuovi, tracciano il quadro sociale in cui vivevano i preti e i loro fedeli. Per capire di cosa si parla si veda questo ordine del 1584: "Per quanto in questa visita havimo trovato certi cappelli seu heremiti li quali stanno aperti per possirsi in quelli orari et intrano in quilli animali innomabili et ancora alcuni persuni non per fari orationi si non per fari qualche maleficio, pertanto ordinamo et comannamo che si chiudano li porti di ditti heremiti er inditti porti si faza una seratura seu grata per li quali no possano intrare ditti persuni et animali ma si possa per quelli orari et vidiri li imagini deli sancti et questo si debea fari infra jorni dechi per li previti cappellani et confraternite che hanno cura di ditti ecclesii cappelli et heremiti" Inoltre, questi dati, integrati con altre fonti come gli atti della Curia vescovile di Patti e i riveli dei beni conservati presso l'Archivio di Stato di Palermo, permettono di avere notizie che le altre fonti spesso tacciono. Vediamo, per esempio, l'andamento della popolazione. Spesso in relazione alle epidemie che colpivano con triste cadenza queste popolazioni. Nel rivelo del 1593, per esempio, abbiamo una bellissima lista di tutti gli abitanti del Casali divisi per famiglia e con l'indicazione delle età. Il numero dei "muntagnari" censiti è di 1756. Più che oggi. Ma questo dato deve tenere conto di due fattori. Il primo è che il casale della Montagna nel 1593 usciva da una terribile carestia sfociata poi in un'epidemia di tifo petecchiale che aveva decimato soprattutto i bambini. Nonostante questo la piramide della popolazione divisa per fasce di età è perfetta: una base amplissima nella fascia 0/5, 0/10 che scema salendo verso l'alto con un vertice molto piccolo quando si arriva alla fascia 85/90. Il secondo fattore è una lacuna che esiste sia nei riveli: in questi si registravano la composizione familiare e i beni immobili e mobili in possesso. E quindi essendo atti fiscali sulla base dei quali si ripartiva poi la tanda, il contributo che ogni comunità versava alle casse del vicerè sulla base dell'importo deciso dal Parlamento siciliano, possiamo ipotizzare una certa quota di elusione o di evasione. Inoltre, anche la composizione del nucleo familiare potrebbe risultare alterata perchè c'era la paura che qualche figlio maschio fosse vittima di qualche forma di costrizione a fini militari. E infine, fatto ancora più importante c'erano dei vuoti nelle liste dei censiti dovuto al fatto che, per esempio gli ecclesiastici e i loro familiari, erano esentati dalla dichiarazione dei riveli e versavano qualche forma di contributo blando in un elenco a parte. Nel rivelo del 1593, per esempio, non sono presenti i parenti, tranne uno, della famiglia Saccone, che all'epoca si segnalava come gruppo emergente nel patriziato locale.. Comunque i dati che si possono raccogliere indicano come la fine del 500 e i primi decenni del 600 segnano il punto massimo di espansione demografica prima di un lungo periodo di stabilità. Periodo rotto dalla gravissima crisi del 1672/75 che segna un'inversione di tendenza, verso il basso dello sviluppo demografico, da cu si uscirà alla fine del Settecento. Questo periodo però si segnala per un ricambio piuttosto consistente della popolazione. E lo si vede dalla comparsa di gruppo di famiglie con cognomi estranei alla tradizione bisecolare innescata dalla migrazione calabrese. Un fenomeno legato molto probabilmente ad un impulso della famiglia Ansalone che negli 30 del 1600, aveva contribuito a provocare la separazione del casale della Montagna dalla città demaniale di Patti. Si trattava di licentia populandi che miravano a costruire nuovi borghi dentro la terra, perchè ogni nuovi 70 abitanti il nobile acquistava un voto ulteriore nel Parlamento siciliano. Questa attività, grazie anche ad un'accresciuta sicurezza interna e una calo dell'attività dei pirati musulmani provocò una dispersione degli abitanti sul territorio e la nascita di numerosi piccoli borghi. Tornando alla separazione del 1638, la nuova città demaniale di Montagnareale, dove il reale indicava l'appartenenza al demanio regio, durò pochissimo. Dopo mesi di vita, il vicerè, alla disperata ricerca di denaro per sostenere le guerre spagnole in giro per l'Europa, estinse un debito di 10 mila scudi con il mercante genovese Giovanni Ambrogio Scribani, dandogli il possesso di Montagnareale. Lo Scribani faceva parte di un nutrito gruppo di mercanti italiani che, basati a Palermo, finanziavano la Spagna e lucravano su questi prestiti. Ma, al contrario di altri colleghi che aspiravano ad entrare nella nobiltà isolana, lo Scribani e la sua famiglia non erano interessati a questo tipo di ascesa. Nel 1638, comunque, era stato nominato Guardiano del Tribunale del Real patrimonio e dunque esercitava un controllo diretto sui feudi siciliani e conosceva probabilmente molto bene la vicenda della separazione fra Patti e il Casale della Montagna. Anche per questo nel momento stesso in cui riceve la nuova città di Montagnareale la cede con la forma della persona da nominare ad un terzo. E il terzo era Ascanio Ansalone, un altissimo funzionario messinese. Dunque, non è da escludere che i due personaggi fossero d'accordo per arrivare a questo esito fin dall'inizio e brigavano per avere il massimo utile possibile a danno della comunità del Casale della Montagna e di Patti. La vicenda fu un affare per lo Scribani che rientro dei suoi 10 mila scudi, per il Vicerè che non sborsò un tarì e si ritrovò nelle casse 4 mila scudi versati da "muntagnari" per separarsi e i 6 mila scuciti dai pattesi per evitare la disgregazione. I soldi li tirò fuori l'Ansalone che però pagava ben volentieri perchè acquisire una terra gli permetteva di porre le condizioni per fare il salto dal patriziato giuridico a cui apparteneva alla nobiltà isolana. E infatti nel 1642 ottiene il titolo di Duca della Montagna. E con questa medagli entra nel Parlamento siciliano, nella fila del braccio nobiliare. Anche se al momento dell'acquisto della terra dallo Scribani qualcuno lo ricorda già come Barone di Montagnareale. Ma su questo interregno fra la compravendita e il titolo nobiliare c'è un interregno oscuro in cui non si capisce bene che ruolo esercita nella vicenda don Nicola Bufalo. altro giureconsulto messinese, a cui l'Ansalone sembra vendere o affittare la terra di Montagnareale. Poco dopo, lo stesso Ansalone strappa a Patti anche il casale di Sorrentini che incamera con il titolo di Marchese. E alla fine, a compimento di un progetto che deve avere coltivato a lungo, nel 1661 si compra anche Patti con il titolo di Principe. Ma nel diritto feudale il titolo ha effetto solo se prendi possesso del bene. E l'Ansalone non riuscì mai a mettere piede nella città. Nonostante alcune vere e proprie spedizioni militati partite da Montagnareale e Sorrentini, ma respinte dai pattesi chiusi nella loro città. E questo basta e avanza a spiegare quell'odio e quella rivalità che per secoli ha caratterizzato i rapporti fra pattesi e muntagnari. L'Ansalone era comunque una persona che aveva grandi ambizioni e non suscitava grandi simpatie fra i suoi colleghi esperti di cose giuridiche. Nel 1633 era stato nominato Maestro razionale del Tribunale del Real Patrimonio. Una scelta che gli altro giureconsulti sospettavano fosse stata facilitata da 20 mila scudi pagati dall'Ansalone alle casse reali. L'Ansalone, comunque, proseguì nella su carriera. Ma quando fu proposto all'importante ruolo di presidente del Consiglio d'Italia gli altri giuristi ricordarono ancora una volta che aveva acquisito una carica fondamentale del Viceregno di Sicilia pagando e misero in dubbio le sue conoscenze e le sua competenze giuridiche. L'uomo, figura eminente della politica isolana, accanito sostenitore delle pretese dei messinesi nella lotta battaglia contro Palermo, era odiato anche a livello popolare. E quando nel 1648 il popolo palermitano si ribellò, i manifestanti assaltarono il suo palazzo nel centro della città. La casa fu salvata dalle fiamme e dal saccheggio solo perchè i monaci di un vicino convento si presentarono con il crocefisso e altre immagini sacre davanti al portone del palazzo, convincendo i manifestanti a desistere dall'assalto. Intanto l'Ansalone, vista la mala parata che avevano preso le cose si era ritirato a Montagnareale, dove aveva fatto costruire un palazzo, e dalla relativa tranquillità del borgo, come attestano alcune lettere, gestiva i delicati compiti dei suoi uffici. Il Duca sembrava anche interessato alle vicende del piccolo borgo e partecipava ad un minimo di attività sociale. Per esempio, nei registri parrocchiali della Chiesa Madre il 28 febbraio 1642si può leggere: "Antonio figlio di Dominico e Anna Benfatta fu battezzato da me prete Bernardino La Greca, il patrino Antonio D’Amico commissionato da don Ascanio Ansalone duca di Montagnareale in virtù di procura". Ora il bambino non era un bambino qualunque: il padre Dominico Benfatta figura, come vice capitano del Casale della Montagna, nel documento che riassumeva l'assemblea popolare che nel 1638 aveva decretato la separazione da Patti. All'epoca dipendeva come vice dal Capitano di Patti: in pratica era nel Casale della Montagna il capo delle guardie che dovevano assicurare l'ordine pubblico, dare la caccia ai banditi, gestire le prigioni. E per fare questo si serviva di abitanti che venivano nominati ogni anno. Questo gruppo, chiamato i provisionati per il fatto che ricevano una proviones, uno stipendio per il loro lavoro, "erano spesso personaggi non sempre al di sopra di ogni sospetto, spesso banditi e ladri essi stessi, nominati per la loro conoscenza del mondo del brigantaggio e della malavita". E ' quindi molto probabile che Dominico Benfatta. Il 2 novembre 1647, per esempio, "l'illustrissimo et eccellentissimo don Ascanio e Laura Ansalone duca et patrone di questa terra" fa da padrino a Laura Maria di Amico, figlia del notaio Ant delle mura e del cast

  1. ^ Idrisi, L’Italia descritta nel “Libro del re Ruggero” compilato da Edrisi. Testo arabo pubblicato con versione e note da M. Amari e C. Schiaparelli, Roma, Coi Tipi del Salviucci, 1883..
  2. ^ Arezzo Maria Claudio, De situ insulae Siciliae libellus, Panhormi, Panhormi, in officina Antonii de Mayda sua ipsius impensa excussus, mense Decembri 1537 "Item in montibus oppida Tripis, Casalenovum, Furnaris, Oliveris, e Mon Albanus ad Fontem autem  Heliconis fluminis (lo Vigliatur dicunt) Nohara oppidum a mari octo miliaria remotum. Heliconis autem superato ostio, Tyndaris Urbs in parvo tum sita tumolo mari imminebat, nuncpenivo eversa: quam aTindaro Laedae patre conditave ferunt: veruntamen a P. Scipione hostium  spoliis armatam, omninò constat: inter quae Mercurii simulachrum  pulcherimà factum, Tyndarim hodie locum vocant, Divae Marie, ubi aedicula, fama est ad haec loca cum Diane fascelis simulacro Orestem appulisse Mox ad occidantem Thimetus omnis, fluvius de Pactis nunc appelatus: ultra ostium Urbs Pacate contra Aeolidas Insulsa, passibus mille à mari posita, Antistis decorate digitate: e quia de hac civitate ab authoribus nihil in scriptis relictum est nec à Tyndaride ad Agathirsum ullos populos abitasse legimus, eandem propterea ex Tyndaris riunii erectam five recentem esse censeremus , nisi in privilegiis Messane leggimus, eondem tum Foedas tum Foedera vocari, unde Pacte nomen deductum fuit. Sunt praeterae vicina parva oppida Libricis, Giusa Guardia, Montagna, Casale Pactarum, Surrentino, Pirainus, Sanperis Pactarum quod caeteris rendius”..
  3. ^ Tommaso Fazello, De rebus Siculis decades duae, nunc primum in lucem editae. His accessit totius operis index locupletissimus, Palermo, apud Ioannem Matthaeum Maidam et Franciscum Carraram, 1558. Tommaso Fazello, Le due deche dell'historia di Sicilia ... tradotte dal Latino in lingua Toscana da Remigio Fiorentino, Venezia, appresso Domenico, & Gio. Battista Guerra fratelli, 1573. URL consultato il 23 novembre 2019..
  4. ^ Fasolo Michele, L’assetto del territorio ad ovest di Tindari in età normanna, in Da Halaesa ad Agatirnum, Studi in onore di Giacomo Scibona, Edizioni del Rotary club di Sant’Agata Militello, 2011.
  5. ^ Vaggioli Maria Adelaide "Il termine latino casale, corrispondente all’arabo rah≥l o manzil, in generale, per il lessico dell’insediamento rurale di età normanna compare nell’XI sec., ma è intorno al 1120 che si impone nella terminologia ufficiale latina, ancora in alternanza con vicum, per poi diventare di uso esclusivo verso il 1150, e almeno fino alla fine del XIII sec. designa in Sicilia un villaggio rurale aperto, privo di difese, appartenente al territorio di un castrum (cioè di un abitato fortificato e munito di castello: quello che verrà definito terra nella terminologia ufficiale del regno normanno-svevo). Il casale è caratterizzato, con rare eccezioni, da un rapporto di dipendenza giuridica, amministrativa e militare, e i suoi abitanti, che generalmente appartengono alle etnie sottomesse (greca e musulmana), sono di norma donati insieme al casal stesso e alle relative terre. Riguardo alle dimensioni, il termine casale può indicare realtà molto diverse, estendendosi dal villaggio di una certa grandezza e articolazione, talora anche con edifici di culto (chiesa o moschea) e con strutture produttive (per esempio fornaci di ceramica e vetro) alla semplice azienda agricola a carattere familiare. Con un processo che intorno al 1350 può dirsi ormai concluso, e i cui caratteri costituiscono uno dei grandi problemi aperti dell’archeologia medievale siciliana il popolamento rurale per casali tende a rarefarsi, e nel corso del XIV sec. può dirsi completamente scomparso: la popolazione vive ormai tutta raggruppata nelle terrae fortificate, e anche se il termine casale compare ancora in documenti del XIV sec., non corrisponde più ad un abitato, ma ad un tenimentum terrarum o feudo, cioè ad un territorio spopolato"..
  6. ^ Bresc Henri, Il fenomeno urbano nella Sicilia d'eta Medievale, in L’insediamento nella Sicilia d’età moderna e contemporanea, a cura di Enrico Iachello e Paolo Militello, Edipuglia, Bari 2008 "L’originalità della Sicilia medievale è nella larga diffusione del casale, mentre nell’Italia del Sud questo tipo d’abitato è concentrato intorno a Napoli, a Salerno e in terra d’Otranto. “Casale” è parola ambigua e evolutiva, tra centro di sfruttamento e di amministrazione di un possedimento rurale e abitato permanente non concentrato legato a un possesso più democratico della terra. Nell’isola una combinazione tra abitato concentrato di tipo urbano e abitato a casale lascia posto ad una concentrazione che conserva solo nel latifondo degli abitati temporanei, stagionali. Rimangono però dei casali, nelle montagne di Messina e di Naso, nel Piano di Milazzo, sull’Etna, a Malta e a Pantelleria, con un tipo di paesaggio comune: stradine, mura di pietre a secco, case basse aperte sulle vigne e sui giardini, chiesette. Il casale ha dunque resistito dove i proprietari della terra non erano i latifondisti e dove il suo sfruttamento lasciava una parte alle colture pregiate"..
  7. ^ Sabrina Pietrobono, Michele Fasolo, The Norman link: dati storici ed archeologici a confronto per lo studio dei Normanni in Italia.
  8. ^ Catalioto Luciano, Cives et rugae all'ombra del monastero benedettino di San Salvatore a Patti, in Galleria, rassegna semestrale di cultura, di storia patria, di scienze lettararie e artistiche e delle anrichità siciliane, Anno II, N. 2, Gennaio-Giugno 2021, Società Sicilia, Caltanissetta, pp 125-150.
  9. ^ Arlotta Giuseppe, Patti prima di Patti. Uomini, monumenti. santi. Associazione Teatro-Cultura Beniamino Joppolo, Tipografia Panta, Patti, 1996.
  10. ^ Archivio comunale di Patti, volume 1596, : Abitanti del Casale schiavi in Africa. Ringrazio per la segnalazione Giuseppe Alibrandi "Filippa Cappadona Pulejo del casale della Montagna, destritto della città di Patti, revela essere in potere dei mori suo marito nome Vincenzo Cappadona Pulej di baxa statura, tenendo cum lo petto palumbino, cum li capilli rari perché havi la tigna con un scanchetttta alla fachi di età di anni trenta incirca fu pigliato nello Capo de Orlando già si fanno anni sette. Si dice che è a Biserta. Teni un frati di nome Dominico Cappadona Pulejo che non teni nenti". "Catrini Gallina del detto casale della Montagna destritto di detta città di Patti revela essere in potiri dei mori uno suo frate nome Antonio Sidoti, figlio di Minucunu Musca, di baxa statura, ruxano di età di anni trenta doi incirca, cum alcuni segni ala gamba ….. essendo malata, fu preso già si fanno sette anni a Capo de Orlanndo, si dice che è a Biserta, non teni altri parenti eccetto essa revelanti non ha faculta alcuna". "Nuncia, muglieri di Vincenzo Catania, de detto casale della Montagna, distretto di questa città di Patti, revela che teni un suo fratello di nome Bernardo di Nora Gitto, di anni trenta incirca, di mediocre statura , brunetto fu preso a Capo de Orlando già si fanno anni setti, si dice che è in Biserta, non havi facultà alcuna"..
  11. ^ Oldrati Valentina, «Remota causa removetur effectus». Cattività, gioventù e apostasia all’Islam nelle fonti dell’Arciconfraternita per la Redenzione dei Cattivi di Palermo, RiMe, Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea n. 16/2, maggio 2016, pp. 123‐163 “All’alba del XVII secolo, la redenzione di correligionari caduti nelle mani degli infedeli non è certo una totale novità per le autorità siciliane. Tuttavia, sino agli anni novanta del Cinquecento, la questione è affrontata in modo piuttosto frammentario e, di conseguenza, inefficace. All’ordine mercedario, che nella seconda metà del XV secolo assume la responsabilità di reperire fondi per il riscatto degli schiavi siciliani in Maghreb, si aggiungono nel tempo svariate opere pie di analoga natura. La coesistenza di numerose istituzioni mosse da una medesima vocazione filantropica finisce però per compromettere sia l’efficacia della raccolta di elemosine, sia il successo delle stesse missioni. Non sorprende dunque che nel 1585 il Parlamento siciliano richieda a Filippo II il permesso di fondare un’istituzione specializzata nella redenzione di cattivi siciliani8. Solo dieci anni più tardi, il 7 ottobre 1595, vengono approvati i capitoli dell’Arciconfraternita per la Redenzione dei Cattivi in Santa Maria la Nova di Palermo. A discapito di un inizio non propriamente ruggente, la deputazione rimane a lungo operativa: dedita alla redenzione dei captivi siciliani fino agli anni trenta del XIX secolo, è definitivamente soppressa soltanto nel 1860, ad oltre due secoli e mezzo dalla sua nascita”.
  12. ^ sirna.
  13. ^ Sirna Pio.
  14. ^ Corrado Avolio, La schiavitù in Sicilia nel XVI secolo, in Archivio storico siciliano, anno X, 1885, pp 45-71.
  15. ^ Discours viaitiques de Paris a Rome e de Rome a Naples et Sicile (1588-1589, edizione critica, introduzione e note di Luigi Manga, C.I.R.V Skatine, Geneve 1983, in Giovanni Crisostomo Sciacca, Il Golfo di Patti nei viaggatori dal XVI al XX secolo, Pungitopo editrice, Messina, 2009, pp 16-18..
  16. ^ Arenaprimo Giuseppe, La cattura di un brigantino barbaresco nell’isola di Vulcano, Archivio storico per la Sicilia orientale, IV, 1097, pagina 450 Il capitano Niccolò Lippomanno, veneziano, «appartenente ad illustre famiglia che al governo della Serenissima aveva dato magistrati insigni e non pochi rispettabili ambasciatori, nell’estate del 1571 si trovava a Messina in attesa di salpare con la grande flotta che il 7 ottobre del 1571 si sarebbe scontrata con i turchi a Lepanto, al comando della galera il “Braccio di Venetia”. Nell’attesa di uscire dal porto, il 4 settembre il comandante Lippomanno lascia la galera e si reca nella banca del notaio Antonio Scacco e roga degli atti per rivendicare il diritto di preda su una nave algerina catturata di fronte all’isola di Vulcano il 2 luglio precedente. Atto necessario in vista della prossima partenza perché lo stesso diritto di preda era rivendicato da un altro comandante veneziano, Caterino Malipiero, che sosteneva di avere partecipato allo scontro. Agli atti rimangono i nomi dei corsari catturati e venduti: Man de Costantinopoli, Chafer d Mar Negro Abdela di Bona Memin de Algier Vares de Tunis Alì de Mar Negro Maimet Tremizan, negro Memin de Tripoli Moratt de Alepanto Amatt del Aligieri Amata deli Gerbi Nell’atto si dice che sono dieci turchi e un moretto. Il dodicesimo uomo dell'equipaggio era rimasto ucciso nello scontro i liparitani dopo avere cercato scampo a terra..
  17. ^ Cassar, Mario. ‘I nomi delle galee della Lega Santa alla battaglia di Lepanto, 1571’, in Onomastica bellica: Da Torino a Malta (ed. Giuseppe Brincat). Malta: Malta University Publishing, 2015, 25–34. Nell'elenco delle navi che parteciparono alla battaglia di Lepanto c'è la Braccio di Venezia, comandata da Nicolò Lippomano.
  18. ^ Ruffo Vincenzo, Lotte della città di Patti per la sua libertà e per la sua indipendenza nel secolo XVII. Edizioni Mosca, Patti, 1991. Ruffo, per dimostrare questo legame giuridico fra il Casale della Montagna e Patti cita due esempi. Il primo è relativo alla cessione al Casale della Montagna nel 1632 per cinque anni, della gabella della frasca per completare la costruzione dell'Oratorio di San Filippo Neri iniziata nel 1629. Cessione rinnovata nel luglio del 1637. Il secondo esempio è relativo al parere giuridico f avorevole rispetto alla richiesta di Geronimo Muni, abitante del Casale della Montagna, di non dovere comparire davanti alla Regia Gran Conte perchè godeva del privilegio dei pattesi di "non potere essere estratti nel primo e nel secondo giudizio dagli ufficiali ordinari della città ad istanza di qualsiasi persona, anche privilegiata",.
  19. ^ Riccardo Magistri, Don Ascanio Ansalone compra Patti e Sorrentini. Cronistoria di un trentennio di lotte autonomistiche (1636-1669). Edizioni Mosca, Patti, 2009.
  20. ^ Orazio Cancilia, Baroni e popolo nella Sicilia del grano, Palumbo, Palermo, 1983, pp13 “La Sicilia dell’inizio del Quattrocento era ancora ricca di boschi che lo sviluppo crescente dell’industria dello zucchero si accingeva a distruggere. Coprivano le catene montuose delle Madonie, dei Nebrodi, dei Peloritani, il massiccio dell’Etna, gli Iblei, le montagne alle spalle di Monreale, verso Parco (Altofonte), e il feudo di Borgetto, e alle spalle di Castellamare. Talora la boscaglia e la macchia si estendevano sino alle rive del mare, soprattutto lungo la costiera tirrenica e jonica. All’interno esistevano i boschi di Ficuzza, Godrano, Cammarata, e Rifesi, mentre assai meno ricca di alberi era la costa meridionale, dove esistevano soltanto due grandi foreste, Berribaida e Cammarana. A fine secolo i trenta piccoli trappeti (opifici) di zucchero del palermitano avevano già consumato la boscaglia lungo la costa da Termini a Imerese a Carini,: ad un consumo medio di almeno 500 cantari di legna (400 quintali), assorbivano annualmente 12 mila quintali che equivalgono a 10-12 mila alberi. Anzi, era stato attaccato seriamente il bosco di Cefalu e l’ulteriore espansione cinquecentesca dell’industria zuccheriera lungo la costa da Partinico ad Avola verso ovest, comprometteva anche quelli di Patti, Milazzo, Taormina e persino Gratteri. Comunque ancora all’inizio del Cinquecento esistevano parecchi boschi del demanio regio: Foresta maggiore o Porta di Taormina, Plati tra Castoreale e Santa Lucia, Granita, Etna, Randazzo, Troina, Parcus regius di Milazzo, Mistretta, (foreste di Zuppardo, Foli, Rumeri, Arca, San Filippo, Guzifodi, Guilla, Candito, San Brancato, Fauzuni, San Bernardo, Bordinaro). Altri boschi appartenevano alle università (spesso di uso comune) e ai feudatari: Ficuzza, Godrano, Collesano, Gratteri, Iannello, Castelbuono, Tusa, Castel di Lucio, Caronia, Tortorici, Motta d’Affermo, Reitano, Gioiosa Guardia, Milazzo, Monforte, Alcara, Naso, Linguaglossa, Castiglione, Fiumefreddo, Catania, Cassato, Tavi, Fontanafredda (Sutera), Monte San Giuliano.”.
  21. ^ Archivio parrocchiale Montagnareale, Registro Chiesa Madre, anno 1602-1634.
  22. ^ Buzzanca Silvio. Una ricerca di microstoria. Il Casale della Montagna nel XVI secolo. Tesi di Laurea,Messina, 1986.
  23. ^ Ruffo Vincenzo, Lotte della città di Patti per la sua libertà e per la sua giurisdizione nel secolo XVII. Edizioni Mosca. Patti. 1991..
  24. ^ Il mio paese, giornale parrocchiale, pubblicato a Montagnarale dall'Arciprete Antonino Spicca negli Anni 60 del Novecento Questa è la versione dei fatti che portarono alla separazione fra Patti e il Casale della Montagna, riportati dal giornale parrocchiale Il mio paese, pubblicato negli Anni 60 dall’allora arciprete Antonino Spiccia. Come scrive l’arciprete, i documenti per la ricostruzione fu fatta su documenti forniti da una fonte locale che volle conservare l’anonimato. IL MIO PAESE (3) «Montagnareale era anticamente chiamato “Casale della Montagna”. Nel 1638 mercè un donativo di 4000 scudi, raccolti dal popolo in una sola domenica che fu quella delle Palme e per libero voto dei Capi famiglia convocati a suono di campane e di tamburi, ottenne da Filippo IV di Spagna la liberazione dall’odiato giogo pattese con non pochi diritti dei quali alcuni si conservano ancora e l’alto onore di appellarsi alla Regia. In quella circostanza fu tale la tenacia del popolo e fu tanto lo slancio patriottico per liberarsi della mala e odiata Signoria di Patti per quanto financo le donne più misere, non avendo altro da dare, gli orecchini dagli orecchi toglievansi e con entusiasmo li offrivano alla santa causa della indipendenza per quanto ardentemente bramata, altrettanto ostinatamente contesa. Più tardi lo stesso popolo, per fiera insofferenza al vassallaggio, atterrò la forca che il Duca Don Ascanio Ansalone aveva fatto innalzare sulla spianata del Belvedere ad affermazione del diritto di Mero e Misto Imperio e che migliore fortuna non incontrò quel signore nell’esercizio del suo Jus Primae noctis perché al tentativo gliene fu fatta passare la voglia. In virtù del precennato decreto da Patti venne assegnato a questo nuovo Comune un territorio relativamente allora assai vasto, segnato dai confini naturali quali sono un affluente del Timeto e l’alta catena di monti che da a Sud e a Nord lo cingono in forma di semicerchio, così come fanno le Alpi con la Patria nostra. Tale territorio è salubre, ubertoso, ricco di minerali ed abbondanti sorgive d’acqua tale che è ritenuto un importante centro di coltura intensiva ed a giudizio dei competenti un ancor più importante bacino minerario di antimonio, di ferro, piombo e rame». Quanto sopra mi è stato consegnato da un cittadino di Montagnareale e lo pubblico confessando di non essere in possesso del testo originale Note: La domenica delle Palme del 1638 corrisponde al 28 marzo. IL MIO PASESE (4) Ho scritto precedentemente che il Casale della Montagna per ottenere l’indipendenza da Patti e passare direttamente al Regio Demanio aveva pagato la somma di 4000 scudi. Le terre demaniali erano allora un fastidio per la Corona di Spagna che le tollerava finchè poteva trarne vantaggio per cederle poi al primo offerente. Il 17 marzo 1640 veniva nominato vicario generale del Valdemone don Ascanio Ansalone di antica e nobile famiglia messinese, maestro razionale del Real Patrimonio. Pare che quella nomina aveva come scopo principale obbligare Patti a pagare alla Corona il grazioso donativo di 6000 scudi. Subito don Ascanio si recava a Patti e si fermava alcuni giorni durante i quali faceva frequenti visite in Montagnareale. Dal 30 marzo al 12 maggio, come risulta da diverse lettere, rimaneva quasi continuamente in Montagnareale. Da una lettera del 1 aprile 1640 si ricava che «don Ascanio Ansalone M. R. del Real Patrimonio e vicario generale del Valdemone residente a Patti si era gabellata e affittata la terra della Montagna per onze 200 l’anno». Sembra che tra i Montaganari e l’Ansalone doveva preesistere un accordo, spiegandosi così il favore che essi godevano contro i pattesi, nel Consiglio Patrimoniale. Può anche supporsi che egli voleva approfittare della occasione per completare un piano lungamente studiato. La città di Patti non riuscendo a pagare la somma di 6000 scudi perdeva il feudo di Madoro incorporato per conto della Regia Corte. Anche i Montagnari dovevano subire delle conseguenze che vedremo al prossimo numero. Il MIO PAESE (5) Il vicerè aveva preso in prestito da Giovanni Scribani la somma di 5000 onze per sopperire alle urgenti necessità della guerra. Per questo prestito era stata presa l’ipoteca di 10 mila scudi da introitarsi con la vendita della terra della Montagna. Lo Scribani per rifarsi delle 5000 onze prestate offriva a nome di una persona da nominare la somma di 10000 scudi per comprare la terra di Montagna e il feudo della Rocca. Gli scudi introitati sarebbero giovati 4000 mila da restituire a Montagna e 6000 da pagare alla Regia Corte che così avrebbe avuto di che saldare il debito con lo Scribani. Questi avendo trovato l’Ansalone deciso a comprare lo stesso giorno in cui veniva accettata dalle autorità l’offerta, avuta dall’Ansalone la somma pattuita, stipulava il contratto di vendita. L’Ansalone se ne impossessava subito con il titolo di Duca concesso dal Re Filipppo IV Nel contratto si salvaguardavano i diritti di seminare, raccogliere legna e pascolare goduto già dai Montagnari Dall’insieme si può affermare che l’Ansalone pagò i 10000 scudi allo Scribani che doveva esigerli dalla Regia Corte, ma la Corte non rimborsò più i 4000 scudi ai Montagnari. Da quel tempo i Montagnari, famosi per le loro armi da tiro, venivano dispensati dal contribuire al presidio delle mura e del cast.
  25. ^ Della concessione di Ruggero I all'abbate Ambrosio esistono diverse trascrizioni in latino. Ma per una migliore comprensione preferiamo usare la versione in Italiano di Alfonso Sidoti, relativa ai confini della concessione, pubblicata in I documenti dell'arca Magna del Capitolo cattedrale di Patti, Timeto I, 1987, pagina 48 e seguenti: Il documento, tradotto da padre Alfonso Sidoti dalla pergamena originale conservata presso l’Archivio capitolare della cattedrale di Patti e integrato con documenti del XVII secolo presenti nell’Arca Magna, fissa i confini del territorio originale di Patti. Il 6 marzo 1094, scrive Sidoti, “Ruggero di Altavilla, Conte di Calabria, fratello del signor Roberto il Guiscardo, gloriosissimo Duca delle Puglie”, decide di “edificare un monastero di monaci in Pactes, a onore del Santo Salvatore”. A quella chiesa, fa scrivere Ruggero e “al signor Ambrogio, primo abbate dello stesso monastero e a tutti i suoi successori dono e concedo che abbiano per sé ogni diritto che rientra o rientrerà nei termini qui de¬scritti. L’inizio di tali termini è: presso la grande scala apparten1ente al¬la città antica, così come la via monta in su presso l’alto picco che sta sopra il mare, e sale questa divisione la cresta dalla scala fino oltre Livir (= Librizzi), andando su per la cresta fino ai tre monti. Di là poi at¬traversa una profonda e scura cavità andando fino alla torre di Vocali e sale in alto verso il monte di Egiro. Di là poi giù verso le grotte di Barachali e alla fonte che sta in pianura attraversando il fiume di Patti ancora verso la cresta di S. Epinico. E la cresta di 5. Epinico sale fin in alto verso il monte di Fulchero. Di là poi discende la cresta allargandosi in giù fino alla via de Arangeriis andando sino al fiume di Botania così come questo fiume va giù nel mare”..
  26. ^ Maurici Ferdinando, Castelli medievali in Sicilia. Dai bizantini ai normanni. Sellerio, Palermo, 1992, pp 108.
  27. ^ Von Falkenhausen Vera, Il popolamento: etnie, fedi, insediamenti, in Terra e uomini nel mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle 7 Giornate normanno-sveve, a cura di Giosuè Mosca, Dedalo, Bari, 1985.
  28. ^ Sciacca Giovanni Crisostomo, Patti e l'amministrazione del comune nel Medioevo, Scuola Tip Boccone del Povero, Palermo, 1907.
  29. ^ Rohlfs, Gerard, Dizionario storico dei cognomi della Sicilia orientale, Palermo Sellerio, 1984, pp22.
  30. ^ Rohlfs, Gerard, Dizionario storico dei cognomi della Sicilia orientale, Palermo Sellerio, 1984.
  31. ^ Gregorio Rosario, Opere rare, edite ed inedite riguardanti la Sicilia, Stab. tip. di Pietro Pensante, Palermo, 1873.
  32. ^ Brunoro, Giacomo. Il "caso" dei Burgenses nella Sicilia Normanno-Sveva (Storia Medievale Vol. 1) (Italian Edition) . La Case. Edizione del Kindle..
  33. ^ Carmelo Trasselli, Aspetti della vita materiale, in Storia di Sicilia, volume III, pp. 603-622: "In Sicilia non abbiamo oggi e non abbiamo nemmeno nei documenti le costruzioni in zolle di terra appena connesse da qualche pezzo di legno, tipiche della Calabria, della Sardegna, dell’Aragona. Ma abbiamo il pagliaio che è, tutto sommato, una costruzione di tipo almeno protostorico, approntabile in poche ore e che funge, occorrendo, anche da ricovero per un accampamento provvisorio. Quattro muretti di pietre e pietrisco raccolti nelle vicinanze, più o meno alti secondo la disponibilità del materiale; il resto di frasche e ramagli; il tutto coperto da rame, canne e paglia", pp 607.