Utente:Carolus2/Sandbox

La Calabria era ed è una regione povera ed indubbiamente la sua cucina risente di questa povertà. Ma ciò non vuol dire che non esista in Calabria una una gastronomia tradizionale, cioè un complesso di regole e tradizione nella preparazione dei cibi, esiste ed è certamente appetitosa e ricca di fantasia. Al contrario la ristrettezza dei mezzi ha spinto i calabresi a sopperire alla povertà dei mezzi con la fantasia. Di rado i libri dell'arte culinaria riportavano, fino a qualche anno addietro, ricette con l'aggettivazione «calabrese».[1] Le pietanze erano invariabil¬mente «milanesi», alla «romana», «bolognese», «torinese», «ven¬eta» e, quando si discendeva la penisola verso Sud, tutto ciò che non era «napoletano» era sicuramente «siciliano». In real¬tà anche in questo campo (come del resto in altri che di solito son presi più sul serio) la suddivisione politico-amministrativa aveva la sua decisiva influenza. Occorre tener mente, infatti, che il regno del Sud era distinto, fino all'Unità, nelle province napoletane e nella Sicilia, che godeva di ampia autonomia, per cui nella terminologia, non solo dei meridionali, ma anche e soprattutto dei «polentoni» [2] ed in genere degli italiani «da Roma in sù», l'unica distinzione che si faceva era tra «Napoletani» e «Siciliani». Infatti «Napoletani» senz'altra distinzione venivano chiamati gli abitanti di tutta l'Italia meridionale. Logico quindi che napoletane venissero aggettivate le loro produzioni culturali e folkloristiche e, più modestamen¬te, culinarie. Ecco perché tra tante ricette di pietanze alla napoletana quasi nessuna esiste - nei testi di molti anni fa - di calabrese, lucane, pugliese, abruzzese. Il grande Artusi che passò alla storia come il grande divulgatore ed unificatore della cucina italiana, avendo nel suo fondamentale testo “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene edito a Firenze alla fine dell’ 800 dall’editore Bmporad),[3] raccolto circa 800 ricette appartenenti alla tradizione italiana, riporta quasi esclusivamente pietanze un uso nell’Italia centro-settentrionale e non riporta nemmeno una pietanza alla calabrese. Orbene, la Calabria era sì una regione povera, ma non tanto povera da non avere nella sua tradizione una sola pietanza degna d'essere riferita. Anche il moderno «Cucchiaio d'argento “ non riportava, fino alle edizioni di qualche anno addietro, alcuna ricetta calabrese. Soltanto di recente ci si è accorti che esiste una cu¬cina calabrese degna di attenzione e gli autori più seri ne fan¬no menzione. Il merito di questa scoperta spetta Innanzitutto a due grandi della Cucina, a Luigi Carnacina[4]; ed a Luigi Vero¬nelli. Soprattutto quest'ultimo, del quale è a tutti nota l'ap-passionata competenza e la serietà della ricerca, ha riservato in numerose sue pubblicazioni il giusto posto alla gastrono¬mia calabrese. Un merito va pure riconosciuto alla nota gastronoma Anna Gosetti della Salda con il suo prezioso volume “Le ricette regionali italiane[5] nel quale alla Calabria viene riconosciuto il posto che merita. Fino a che punto questo lungo oblio sia giustificato non è facile dire. E' pur vero che la Calabria era isolata dal contesto delle altre regioni italiane, ma i suoi contatti con Napoli e la Sicilia furono sempre assidui e persistenti per cui l'incidenza di questi due grandi poli d'influenza fu, anche nel campo che qui interessa, notevole e determinante, specie nei centri maggiori e nelle marine. L'avere ignorato la Calabria fu un cattivo affare pro¬prio perché la Calabria rappresenta il punto di congiunzione e di mediazione di due grandi tradizioni gastronomiche: quel¬la napoletana e quella siciliana. In Calabria troviamo infatti molti piatti che si attribuiscono alla tradizione siciliana e na¬poletana ma che qui ricevono una nuova interpretazione ed elaborazione che, senza nulla togliere all'originale piacevolez¬za, ne completano ed affinano il sapore, stemperando nella moderazione napoletana quanto vi è di troppo aspro c deciso nel gusto siciliano. Qual è il contributo autonomo ed originale della cuci¬na calabrese alla tradizione cucinaria del Sud non è facile stabilire. Possiamo però ritenere che questo contributo è sta¬to notevole se dobbiamo giudicare dalla varietà e ricchezza (certamente ai più insospettata) della cucina popolare cala¬brese che pone a base delle sue ricette i prodotti tipici della regione. D’altro canto l’isolamento, pressoché totale, fino agli inizi del secolo scorso dei paesi di montagna e d’alta collina, specie nel cosentino, portò all’affermazione di una cucina autoctona ed originale, tuttora a volte ignorata dagli stessi calabresi. Esistono ancora in Calabria tradizioni che risalgono agli antichi coloni greci, conservate intatte attraverso ì secoli per un miracolo che la storia a volte compie; è questo il caso delle famose «nzuddhi» (6), greche nel nome, nella forma e negli ingredienti, fatte a base di farina, miele, e vin cotto, a forma di pesce, di cavallo, di donna, di antica triremi, capra (la capra Amaltea di Giove) ete.,addobbate con fiori multicolori (oggi sostituiti da stagnola multicolore) che sì ritrovano sulle bancarelle invariabilmente ad ogni festa paesana insieme alla «calia» (ceci abbrustoliti) oggi come 2.700 anni fa, perché tanto è il tempo della Calabria. Ne fa menzione un Greco della ΜεγαΙε ΕΙΙασ nelle “Siracusane” ove in pratica detta la ricetta di questi biscotti.[6] E forse questo non è l'unico esempio di una tradizione così a lungo tramandata, anche se non è sempre facile risalire nel tempo per trovare il capo di un filo tanto lungo. E' certo però che se i Calabresi volessero trovare titoli nobiliari per la loro tradizione culinaria ne troverebbero a non finire tra i loro antichi progenitori greci che dell'arte del mangiar bene ne avevano fatta una scienza nobile. Basti pensare che nell'antica Sibari un qualunque personaggio che ambisse al rispetto altrui aveva alle proprie di¬pendenze non meno di un centinaio tra cuochi ed addetti alle cucine, almeno così si racconta. E sempre a Sibari venne in¬ventato e messo in uso il brevetto d'autore per cuochi che dava diritto all'inventore di una nuova pietanza di sfruttarla in esclusiva (con tutte le implicazioni di natura economica) per un anno. I pranzo era un rito ed una festa insieme alla quale si accedeva dopo preparativi che a volte duravano un intero anno. Famosi erano i cuochi sibariti per la preparazione del pesce e delle anguille in particolare (che all'epoca si allevavano un po’ dovunque in Calabria); pure famosi per alcune salse a base di pesce come il garau o garo che si otteneva dalle ovaie dello sgombro messe in salamoia e poi diluiti con vino dolce ed altri condimenti, come riferisce Ateneo (8) nella sua monumentale Opera in 15 libri intitolata «I commen¬sali dei dotti», ripreso da Fra Girolamo Marafioti da Polistena (Reverendo Padre Fra Girolamo Marafiori da Polistena scrisse le «Cronache e antichità di Calabria», stampate in Padova ad istan¬za degli Uniti nel 1601. Attinge notizie da autori greci e latini come Ateneo, Strabone, Plinio etc.. «La Magna Grecia - Paesaggio e storia», Parigi 1881, in tre volumi, tradotto da Ai-mando Lucifero e pubblicato a Crotone dalla tipo¬grafia Fratelli Pirazzi, 1932-1933.

') e poi dal francese Franqoìs Lenormant (10) e che altro non sarebbe che un antichissimo caviale. In proposito ricordiamo la copiosa letteratura greco¬latina sviluppatasi intorno ai banchetti sibariti ricordati anche dal poeta Metagene (11) Ma se a Sibari l'arte dei cucchi raggiunge 1'apice del_ Mondo Antico, è da dire tuttavia che nelle altre città italiche la preparazione dei cibi trovò sempre la dovuta attenzione. Ancora Ateneo nell'8° libro ricorda un dotto filosofo locrese a nome Glauco che scrisse un libro intitolato “Delle vivande e dell'arte di cucinare»: un Artusi, come ognuno può vedere ante litteram. Di questa tradizione non si perde la traccia in età romana e, sebbene le fonti siano scarse, tuttavia ritroviamo in Plinio ed in Strabone alcune citazioni a proposito dei ¬vini di Calabria, dei cibi ed in particolare dei pescespada . Si pescava, allora come ora, presso Scilla. Relativamente ai periodi successivi le notizie sono molto limitate e frammentarie, segno evidente dell'impoverimento economico e culturale della Calabria. Gli autori che incidentalmente fanno menzione dei cibi della Calabria, che lodano senza riserve, sono quasi sempre all'Età classica,. Il riferimento riguarda soprattutto i prodotti del territorio non il modo di cucinarli. Notevole comunque l'influenza della cucina araba, giunta con la mediazione siciliana, le cui tracce sono tutt'oggi evidenti nella cucina calabrese.; Si arriva così all'800', all'epoca cioé dei viaggiatori stra¬nieri giunti alla scoperta della Calabria, al tempo di Brian Hill,(11) Edward Lear(12), A. Dumas(13), Gissing(14), F. Lenormant(15), Norman Douglau(16), etc.. Le loro impressioni di viaggio riguardano ben poco la gastronomia, ma qualche indicazione possiamo trarla, se non altro un orientamento su quelli che: erano gli usi nel periodo che va dalla fine del 700 alla fine dell'800'. Apprendiamo da Lear (17) che in Calabria il piatto forte più comune, quello che si usava per ogni dove, fin nei più interni pae¬sini, e che si destinava agli ospiti d'onore, era costituito dal classici maccheroni, vale a dire dai «maccarruni 'i casa”, indicati con nomi diversi come scilatelli, fileja, maccarruni a fittittu etc, che l'ospite straniero non disdegnava. Altri cibi molto diffusi erano, a quanto pare, il montone, il maiale, i polli, ricotte, formaggi pecorino e verdure d'ogni specie. I giudizi dei viaggiatori stranieri non sono, in genere, lusinghieri, ma a parer nostro sono del tutto inattendibili poiché ìl loro palato non era di certo abituato alla rustica complessità delle pietanze calabresi. Così ad esempio, men¬tre il già citato Gerolamo Marafioti(18) ci informa che «...„ le peco¬relle producono il latte buono e perfetto, che cacio migliore di quello che si fa in Calabria non si trova in alcuna parte del Mondo». Norman Douglas (') dello stesso cacio dice: «.,... in caso dì estrema necessità, sì può anche inghiottirlo, seguen¬do il proverbio tedesco: “Quando il diavolo è affamato mangia pure le mosche». Noi siamo naturalmente con Marafioti perché co¬nosciamo ed apprezziamo il pecorino calabrese che, quando è fatto a regola d'arte e proviene dai pascoli d'alta collina, può ben dirsi, senza esagerazione, che non trova eguali. E poi a Douglas, con tutto il rispetto, non riconosciamo l'autorità di un qualsiasi giudizio sui cibi. Egli è un anglo-tedesco, appartiene cioé ai popoli meno dotati in fatto di gastronomia e di gusti alimentari. A Douglas non piacevano neppure i maiali calabresi perché erano piccoli e neri e mangiavano di tutto. «Provviste alimentari buone - egli dice -si possono trovare di solito anche nei più sperduti c'entri, il problema è che non li sanno cuci¬nare». Douglas è abbastanza recente, in fin dei conti parla della cucina dei nostri nonni c quini abbiamo elementi si¬curi dì riscontro per dire che era un povero incompetente. Ma non diversamente il francese Dumas (h) che si lagna ripe-tutamente della cucina calabrese e dell'abitudine di condire l'insalata con l'aceto «...., ciò che è, come si sa ma vera eresia culinaria», Oggi nessun francese direbbe una simile castroneria. Diverso ìl giudizio di un altro straniero, il francese Francois Lenormant (`'), il quale peraltro è autore dì pagine bellissime sulla Calabria alla quale si era avvicinato con amo¬re e rispetto. Degne di attenzione alcune notazíoni che colgo¬no l'essenza stessa dell'anima popolare: «...., in ogni casa calabrese si manifattura la conserva dì pomidoro per l'uso di queste contrade, una specie di festa, un pretesto per ritrrziorzi e veglie..... operazione che termina con un gran pranzo...,. E' lì. che si stabilisce e si commenta la cronaca scandalosa della località; è lì che si ripetono di generazione in generazione, quelle vecchie canzoni e quei racconti popolari che raccolgono oggi così avidamente gli eruditi appassionati del folklore».

Occorre però avvertire che la gastronomia calabrese non è uniforme in tutto il suo territorio suddiviso, prima nelle tre province storiche Calabria Citeriore, Ulteriore prima e Ulteriore seconda, oggi cinque, poiché non esiste una vera unità etnica e neppure linguistica e quindi diverse sono le sue produzioni culturali delle quali il modo di cucinare i cibi ne è un esempio. Avviene così che anche alcune pietanze diffuse in tutto il territorio come “a pasta ca muddica e alici”,” a parmigiana”,” u piscistoccu”, così  i maccheroni fatti in casa prendono nomi diversi: “maccarruna a firrettu”, fileia” “scilatell”i etc. e  vengono preparate in modi differenti. Diverse le pitte, diversi i timballi, diversi soprattutto i dolci che a Reggio hanno un marcato riferimento a fatti e consuetudini religiose(18) come i “cudduraci” che ricordano addirittura la fuga dall’Egitto degli ebrei, “la pignolata” che fa riferimento inconsapevole alle feste precristiane legate al risveglio della foresta in primavera, ai “petrali”, tipici di Natale..

Qualcosa di più sulle abitudini dei Calabresi nel secolo scorso apprendiamo da un saggio di Cesare Lombroso ('°) (il medico criminologo) che venne in Calabria una prima volta nel 1862 e poi vi ritorno più volte, interessandosi un po’ di tutto. Da questo saggio ricaviamo notizie che possiamo rite¬nere attendibili e che trovano riscontro obiettivo nella realtà calabrese del tempo: «La carne è scarsa specie nei piccoli pae¬si ..... nelle marine il colono vive di verdure e patate rnczl con¬dite con cipolla, pomodoro e peperoni ...., legumi..... for¬maggio caprino..... tonno e pesce spada ..... ». «Gli alimenti so¬no appropriati al clima: tali sono la cipolla, la lattuga, il pepe e fino al caffé. Poco le carni di capra e di bue; moltissimo è ricercato il pesce spada ed il tonno». «II pane dei ricchi è buono, non quello del povero (era di grano turco). Assai poco in onore vi è il riso.,... enorme il consumo dei fichidindia, dei poponi e dei peperoni. Del lesto il piatto più corrente, sia al¬la mensa del ricco come (i quella del povero, è il proverbiale maccherone col sugo (i famosi «r;accurruni 'i casa»),.... Bello e generale è l'uso della neve e delle granite che ti riesce tro¬vare, con tuo grande conforto, nei più meschini paeselli di montagna », Pure interessanti le relazioni ufficiali sullo stato del Regno dalle quali si possono trarre non poche notizie. Da un'opera di Giuseppe Antonio Pasquale ("), edita nel 1863, ma che si riferisce ad anni precedenti, apprendiamo fin nei particolari la quantità e qualità di cibo che veniva me¬diamente consumata da una famiglia contadina (braccianle conodo): granoturco, grano, grano germano (jurmanu), legumi diversi, sugna, salami di maiale, formaggio, peperoni all'aceto, cipolle, olive salate, peperoni e pomodori secchi, olio d'oliva, galline (poche), vino etc.. Apprendiamo i vari modi di preparare le olive, in tale varietà che forse solo la Calabria conosce: 1) olive salate, che si raccolgono ad ottobre; 2 ) caro¬lei o galatresi della Piana o tamborelli di Rosarno, che si con¬servano in una speciale salamoia; 3) olive mature, scaldate, salate e condite con olio, origano, peperone e finocchio; 4) oli¬ve infornate; 5) olive schiacciate, che si raccolgono a settem-bre e si lasciano addolcire per qualche giorno in acqua; 6) oli¬ve cumbìtè di Grotteria, che si conservano in aceto; 7) olive morte, cadute dall'albero naturalmente e che si mangiano senz'altra preparazione; 8) olive appassite al sole ('mpassu¬Iuti); 9) olive zunzifarichi, diffuse nella zona jonica; 10) olive nere, tagliate, scaldate e lasciate per- qualche giorno a dolci¬ficare e poi condite con sale, origano, aglio e prezzemolo. Altre notizie si ricavano circa i dolci ed i dolcieri; famosi quelli di Reggio, Bagnara c Sinopoli. Rinomato per ogni dove il torrone di Bagnara della ditta fratelli Cardona «..... Ancora son pregiatte: le cosidette Dita de¬gli Apostoli ed i Suspiri di monaca..... » la copeta, che è un im¬pasto di miele e semi di giugiulena (di evidente origine araba) ed il Leuzzaccaro, dolce esclusivo di Reggio, ma che oggi non è più di moda.

A continuare il discorso ci porterebbe troppo lontano ed andremmo fuori dal tema di una breve pagina informativa.

Se vogliamo individuare gli alimenti tipici della cucina calabrese, anche se ciò non è facile poiché essa e legata in un tutto inscindibile - come abbiamo già detto - alla tradizione meridionale, il riferimento d'obbligo va fatto alle melanzane ed al pescespada. Le melanzane, «orgoglio o gloria» della Calabria, che qui fruttificano in maniera eccelsa. Adatte a mille usi hanno dato occasione alla fantasia popolare di sbizzarrirsi nel trovare sempre nuovi modi per cucinarle. Ogni paese, si può dire, ha la sua ricetta sempre gustosissima: parmigiana a cotolette, polpette, braciolette, ripiene, a caponata etc. Altro alimento tipico è il pescespada che si pesca da aprile a settembre. Merita un discorso a parte perché la sua «calabresità» è stata talvolta trascurata a vantaggio della vi¬cina ed onnipresente Sicilia. Tanto che su alcune pubblicazioni si fa riferimento a Messina. Niente di più sbagliato. I1 pescespada è rigorosamente calabrese e, solo per esteso, siciliano. Lo si pescava oltre mille anni fa nelle acque di Scilla così come oggi, con una tecnica rimasta pres¬socché invariata per tanti secoli. Ce ne da testimonianza Ateneo nel VII libro, riportato dal Marafioti) «Ma la più destra et ingegno¬sa piscagione in Scilla è quella del pesce spada.....» e Strabone: «...,, de galeatur piscatione, qztae circa Scjllezvm tractum insti-ttaitur, rnanentihu.s, in statione jrequentibus refnorzam duorum scaphis..... ». In Italia il pescespada oggi viene pescato lungo le coste tir-reniche calabresi ira Cannitello e Palmi, con il suo centro a Scilla e Bagnara, ed in misura minore lungo la costa settentrionale della Sicilia ed al largo delle isole Eolie, da aprile a settembre, non solo con speciali barche dette “passarelle”, ma anche e soprattutto con motopescherecci d’altura e palamiti. Nelle acque siciliane si pesca soprattutto il pesce spada «di ri¬torno», quello cioè dell'estate inoltrata che è il meno saporito. Ma ovunque a pescare sono soprattutto i pescatori calabresi, specialmente scilloti e bagnaroti, che hanno i loro «posti» assegnati da ge¬nerazioni e generazioni anche sulle spiagge siciliane. A buon diritto quindi il pescespada, lo «xiphia» dei gre¬ci e dei latini, viene considerato l'emblema stesso della Cala-bria. Si cucina alla mammolese, alla bagnarota (a bagno maria), alla riggitana, cu sarmurigghiu a cotolette e così via.( ) Altro pesce molto diffuso è “la spatula”, ossia pesce bandiera, un pesce azzurro che vive in acque profonde dello Stretto per poi riemergere con le correnti e viene pescato in gran copia nel tratto di mare tra Reggio e Palmi e viene cucinato in mille modi: a brodetto, cotolette, braciolette, tortiera e così di seguito. Molto diffuso, aspecie nella Calabria meridionale l’uso dello stoccafisso, qui detto piscistoccu con i suoi centri a Cittanova e Mammola, che si cucina in vari modi: “alla trappitara” a ghiotta, a turtera. lesso olio e limone, fritto con patate, ammuddicatu etc. Un posto d’onore nella gastronomia calabrese merita pure il maiale che qui viene “trattato” con rara sapienza. La sua “festa” inizia già ai primi di settembre con grandi scorpacciate di frittuli che trovano nella zona del reggiono, e nella Calabria meridionale in genere, la loro patria d’origine e i cultori più appassionati. Prosegue poi per tutto lpinverno fino a primavera inoltrata con i soffritti, i murseddu i curcuci, i sanguinacci, la cui primogenitura viene contesa tra Calabria s Sicilia. E che dire dei capicolli, delle suppizzate, delle salsicce rosse di Cosenza e Cacanzaro ? Nonostante il parere contrario del povero Norman Douglas il maiale nero calabrese e tra i migliori essendo di razza magra e asciutta. Oggi recuperato dalla zoofilia locale ed alimentato prevalentemente con mangimi naturali, anche se, purtroppo, è diminuito l’uso delle ghiande, delle fave, dei lupini e dei pastoni, un tempo alimenti base, ma l’antica arte del contadino che si trasforma all’occorrenza in sapiente macellaio e cuoco è rimasta.. .. A conclusione possia¬mo ben dire che esiste una cucina tradizionale calabrese che merita di essere conosciuta. Ignorare questa tradizione, com'è avvenuto fin'ora da parte della cucina ufficiale italiana, ovve¬ro disconoscerla e contrabbandarla sotto altri nomi è stato, più che un errore, una colpevole negligenza.

(1) IL prIlimo libro moderno dedicato alla cucina calabrese pare sia quello di Carlo Baccellieri: “La buona cucina di Calabria”, edizioni Reghion, Reggio Calabria 1976 seguito da Ottavio Cavalcanti “Panza china fa cantari e non cammisa nova”, Cosenza Perri editore s.d. . (2) Luigi veronelli e luigi carnacina : “la cucina rustica regionale vol.3 rizzoli milano 1974 (3) Anna gosetti della salda: le ricette regionali italiane, editrice la cucina italiana, milano 1967 2 (4) Pellegrino Artusi “La scienza in cucina e l’arte di mangiar beve” – Bemborad Firenze 1896, ristampa (5) Polentoni sono chiamati dai meridionali in genere gli italiani del Settentrione per l'abuso di polenta che essi fanno ( ) Pare che I versi latino, che una _ - beri, ,ep,r ~ tati ai visino u:-..: _ _ (") Edward Lear, «Diario di un viaggio a piedi, Calubriu I847 pubbli” pubblica a Londra per la prima volta nel 1852. Edizione italiana parallelo 38. Traduzione di A. Spencer Mills, Reggio Calabria 1973. ¬( ) Norman Douglas, «Old Calabria», pubblicato per la prima volta in Inghilterra da Martin Secker nel 1915. Edizione Italiana Aldo Martello, Milano, 1962.

(°)  Alessandro Dumas, «Impressioni di un viaggio in Calabria», pubblicato a Parigi nel 1855. Edizione italiana a cura di Parallelo 38, Reggio Calabria, 1974

() Errudito greco vissuto nel 2" secolo d. C., prima in Oriente e poi a Roma. ()Reverendo Padre Fra Girolamo Marafiori da Polistena scrisse le «Cronache e antichità di Calabria», stampate in Padova ad istan¬za degli Uniti nel 1601. Attinge notizie da autori greci e latini come Ateneo, Strabone, Plinio etc.. «La Magna Grecia - Paesaggio e storia», Parigi 1881, in tre volumi, tradotto da Ai-mando Lucifero e pubblicato a Crotone dalla tipo¬grafia Fratelli Pirazzi, 1932-1933.

() Pare che si tratti dell'architetto greco vissuto nel VI)" secolo a. C.. I versi sarebbero stati raccolti da Strabone e poi, tradotti in tardo latino, sono riportati da Girolamo Marafioti. I1 poeta immagina che una gran copia di succulente pietanze a base di pesce (gam¬beri, seppie, neonata, frutti di mare, molluschi etc.) vengano por¬tati ai suoi piedi dalle acque dei fiumi Sibari e Crati e vi improv-visino una danza, con sua grande rneraviglia. ( -) Edward Lear, «Diario di un viaggio a piedi», Calubriu I847 pubbli¬cato a Londra per la prima volta nel 1852. Edizione italiana paral¬lelo 38. Traduzione di A. Spencer Mills, Reggio Calabria 1973. v ) Norman Douglas, «Old Calabria», pubblicato per la prima volta in Inghilterra da Martin Secker nel 1915. Edizione Italiana Aldo Mar¬tello, Milano, 1962. (') Alessandro Dumas, «Impressioni di un viaggio in Calabria», pubbli¬cato a Parigi nel 1855. Edizione italiana a cura di Parallelo 38, Reggio Calabria, 1974. ( ) Francois Lenormant, la magna grecia, paesaggi e storia, edizione italiana a cura di armando lucifero, crotone, 1932-1933.. ('°) Cesare Lombroso, «In Calabria», Giannotta editore, Catania 1898. Ristampata a cura della Casa del Libro, Reggio Cal. 1973. (") Giuseppe Antonio Pasquale, «Relazione sullo .stato fisico, economico agrario della Calabria Ulteriore», Napoli 1863.

  1. ^ Il primo libro moderno dedicato alla cucina calabrese pare sia quello di Carlo Baccellieri: “La buona cucina di Calabria”, edizioni Reghion, Reggio Calabria 1976 seguito da Ottavio Cavalcanti “Panza china fa cantari e non cammisa nova”, Cosenza Perri editore s.d. .
  2. ^ Polentoni sono chiamati dai meridionali in genere gli italiani del Settentrione per l'abuso di polenta che essi fanno
  3. ^ Pellegrino Artusi “La scienza in cucina e l’arte di mangiar beve” – Bemborad Firenze 1896, ristamèa
  4. ^ Luigi Carnacina & Luigi Veronelli:“la cucina rustica regionale vol.3 Rizzoli Milano 1974
  5. ^ Anna Gosetti della Salda: Le ricette regionali italiane, La cucina italiana editrice, Milano 1967
  6. ^ Teocrito: "Le siracusane, Antologia dell'Età ellenistica, Rozzo del Corno Editore, 1987