Giuseppe Maria Felicini

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Nato nel 1626 da nobile e ricca famiglia di origine milanese, poco e nulla si sa del primissimo periodo della sua vita, che dovette verosimilmente passare tra agiatezza, divertimenti e la convenzionale educazione domestica tipica dalla sua classe. A ventitré anni sposa la contessa Fulvia Boschetti; ma questo inizio di normalità, non impedirà alla sua pessima indole di venire presto alla luce; dalle cronache criminali bolognesi del 1651, si viene a sapere che una sera è andato in giro per la città armato, accompagnato da degno codazzo di scagnozzi, provocando e insultando chi gli capitava a tiro. È l'inizio di una lunga carriera. Se la cava con una ammenda, ma la sua inclinazione delinquenziale non tarderà a dare nuove e migliori prove di sé.

Prepotente, impulsivo, meschino, vendicativo, schiavo di una bassa sensualità, prende a vessare e tormentare gente che, per i più diversi motivi, non trova di suo gusto. Dopo aver collezionato ragguardevole serie di condanne per crimini vari (bastonature, violenze, furti, ricatti ed estorsioni), nel 1652 si rende responsabile del ratto di Domenica Manfredini, reato per il quale, ancora una volta, se la cava con una ammenda, ottenendo perfino la rinuncia a procedere del padre della malcapitata, la quale – a quanto consta – rimane al suo servizio. Bandito, infine, nel 1669, dallo Stato Pontificio sotto pena della morte, chiesta e ottenuta licenza al governo toscano, con la sua banda di bravazzi, domestici e concubine, va a fare tristo nido a Fivizzano, in Lunigiana, dove riprende la vita di sempre, diventando in breve Signore e tiranno del luogo. Nessuna delle autorità locali incaricate dell'ordine pubblico (Bargello, Auditore e Maestro di campo) osa fiatare di fronte ai suoi soprusi, tutti temendo la sua corrività al sangue e alla vendetta. Non ha, per altro, dalla nuova sede, affatto smesso di minacciare, perseguitare e vessare bolognesi e sudditi pontifici in genere, raggiunti spesso da rapide scorrerie oltre confine, tutte a base di violenze, percosse, ricatti, estorsioni, ammazzamenti. Le bricconate proseguono per circa due anni, sinché travolto dalle lamentele, il Legato Pontificio di Romagna, Lazzaro Pallavicini, presa carta e penna, in nome e per conto di Sua Santità, finalmente scrive al Granduca:

Sono così continui, e così gravi li delitti che il Conte Giuseppe Felicini ha commessi e va commettendo in questa Città e contado, come V. Altezza potrà vedere dalla nota, che qui inclusa riverentemente le trasmetto, che tiene sottosopra tutta questa legazione, mentre mandando a domandare in prestito danari, fa ammazzare chi glieli nega e per cause leggerissime prendendo a perseguitare qualcuno, lo fa parimente ammazzare: per il che non è qui persona che non stia in timore della temerità di detto Conte Felicini, a segno tale che molti non assicurandosi dell’ira di esso, non osano nemmeno d’uscire dalle proprie case. Onde V. Altezza vede la necessità ben grande che mi costringe a ricorrere alle sue grazie, supplicandola con la maggior vivezza dell’animo a voler dare ordine ch’egli resti fermato in Fivizzano ove al presente si trova, perché venga poi consegnato alla mia Corte e spero di godere in ciò gli effetti della di lei impareggiabile benignità, non solo per la notizia che ho del suo ottimo zelo verso la giustizia, ma… accertandola che farà cosa anco di particolar gusto di N.S. [Nostra Santità], oltre la gloria e merito che ella ne acquisterà presso Dio, mentre coopererà ad un’azione, che libererà molti dalli disturbi e fastidi ai quali continuamente soggiacciono per le suddette cagioni (…)[1]

Passa un anno, e Cosimo de' Medici, finalmente decide di farla finita col gaglioffo che sta mettendo a subbuglio lo stato e molestando i vicini; ma il Principe vuole muoversi con giudizio e ponderazione; visto che si è deciso di catturarlo, occorre non allarmarlo; occorre prendere le cose alla larga, usare un diversivo e, soprattutto, mantenere l'affare nella massima segretezza. Il Capitano Cusani, milanese, in passato già al servizio del Granduca e in fama di uomo abile e militare espertissimo, viene da Livorno richiamato a Firenze e incaricato della missione. Il Cusani, con il finto incarico ufficiale di ispezionare truppe e caserme di Stato, con largo giro si avvicina lentamente a Fivizzano, dove giunge giovedì 21 luglio 1672, e, come se niente fosse, annuncia che la domenica successiva avrebbe fatta ispezione delle truppe di stanza sulla piazza del paese. Durante la rivista, il Cusani rivelò di colpo il vero scopo della missione e, fatto fulmineamente circondare il palazzetto del debosciato, lo assedia e dopo breve resistenza e schioppettate a volontà – mentre già il popolo sta dando mano alle accette per entrare e trucidare la canaglia – ottiene la resa spontanea del Felicini, che bene ammanettato e ben scortato viene portato prima a Pietrasanta e poi a Volterra.

Il giorno 21 Luglio 1672 il suddetto Capitano si ridusse finalmente in Fivazzano, dove avendo prima considerato se per parte alcuna di quella muraglia vi fosse scampo di salvarsi, ordinò per la Domenica seguente di doversi far la mostra o rivista. Il che messo ad effetto e chiamati a sé gli Officiali, disse loro che S. Altezza gli aveva comandato di cappare da quella Banda sessanta soldati per condurli seco. Mostrando poi di voler vedere quali sapessero meglio degli altri fare il maneggio delle armi, ordinò a sessanta di loro di caricare a palla i moschetti per poter tirare a quel segno che avrebbe loro indicato. Onde essendosi i soldati messi in pronto, dichiarò loro in un subito l’ordine fattogli dare da S. Altezza di pigliare o vivo o morto il Conte Felicini. Al che essi mostrandosi tutti pronti, li divise in alcune squadriglie con far circondare la casa e la maggior parte delle finestre, alcune delle quali rispondevano sopra la piazza dove si faceva la rassegna ed altre in un vicolo. Fatto in seguito accostare il banditore del luogo tanto vicino, che i servitori del suddetto Conte, che stavano alle finestre senza sospetto alcuno, potessero sentire, fece pubblicare un editto per il quale si proibiva sotto pena della vita di dar ricetto, proteggere o favorire in qualunque modo la fuga del Conte. Questi avvisato da’ servitori di quello che si passava, mentre se ne stava seduto a mensa, dato subito di mano a due pistole, pregò la sua gente a non lo abbandonare. Perciò fattili armare si preparava per difendersi, quando accortisi che non sarebbe stato possibile a cagione delle continue archibusate, che da ogni banda venivano dirette a tutte le finestre, tentò di salvarsi per un tetto, e vedendo preoccupati tutti i posti, tentò l’istesso per una latrina che ritrovò impraticabile per esser troppo stretta. Onde disperato, all’intimazione del Capitano Cusari di rendersi nelle sue mani, rispose con un viglietto gettato dalla finestra che si sarebbe reso nelle mani del maestro di Campo, pigliando intanto il tempo di abbruciare alcune scritture, secondochè potè dopo congetturarsi. Ma essendogli stato replicato dal Capitano che senz’altra dilazione eseguisse quanto venivagli comandato, con un altro biglietto dimandò un poco di tempo per poter dare un qualche sesto alle sue argenterie ed altre masserizie di qualche valore che erano disperse per la casa. Ed essendogli finalmente stato soggiunto che non si sarebbe smarrita cosa alcuna, entrandone esso Capitano mallevadore; ma che se non si fosse reso subito gli avrebbe gettata giù la porta con un sagro che aveva espressamente fatto apprestare e nel tempo istesso sentendo che il popolo di quel luogo animato al maggior segno contro di lui gridava che si levasse in ogni maniera dal mondo, con dirgli tutti l’improperj immaginabili, e che dalle parole fosse per venire ai fatti, avendo già alcuni con accette ed altri strumenti provato di mettere in pezzi le porte; vedendosi per questo oramai del tutto perso, si mostrò disposto a rendersi con pregare il suddetto Capitano a salvargli la vita dal furore del popolo. Su di che avendo il Capitano risposto che andasse pure sopra la sua parola, perché l’avrebbe difeso in ogni miglior modo e forma, quando si fosse fatto qualche tentativo contro la sua persona, ma che guardasse bene di lasciar le armi, perché in tal caso, se avesse voluto fare minima resistenza lo avrebbe fatto ammazzare.[2]

Incarcerato a Volterra, passa ben nove anni[3] nel tetro fondo di una umida cella posta alla base del torrione, da dove, alla fine, dopo molte sue suppliche, nel 1681 viene spostato ad un piano più alto della torre, in una stanza con finestra. Vi rimane quattordici lunghi anni anni, quindi nuovo spostamento:

Nel 1695, altro miglioramento: vien finalmente portato fuori della torre. Sono adesso passati 23 anni da quando ha messo piede in quella fortezza. Viaggio verso la luce durato decenni: gli si concede un alloggio al piano delle mura, in una stanza attigua all’appartamento del Castellano. Le condizioni di salute son talmente malandate, che per mantenerlo vivo la cosa è indifferibile.[4]

Ha la gotta ad un piede, l'idropisia e connessi scompensi circolatori, ed è quasi del tutto sordo. Ma ancorché settuagenario e debilitato da molti malanni, la vecchia natura di libidinoso trova ancora il modo di dare un ultimo lampo: dalla finestra del suo nuovo alloggio può vedere ogni giorno Antonietta, la figlia del cantiniere, per quale vien preso da tale accecante passione da giungere addirittura a progettare di sposarla.

Vecchi bollori priapeschi ritornano. È ricco. Può ben corrompere, attirare, sedurre. Vecchio libidinoso, se non può rapire, può sempre circuire. Il caso vuole che la sua finestra dia su quella della cantina: vede la giovane sfaccendare, la fissa, le sorride, la saluta, le rivolge la parola. La ragazza, curiosa, si ferma alla finestra, gli dà spago: forse ha sentito racconti leggendari su quell’uomo; lei, povera figlia di nessuno, è stuzzicata dalla grandezza del malvagio. Forse, fosse pure per un vizzoso settuagenario c’è quel brillio malizioso dello sguardo. Inizia una corrispondenza: il vecchio corrotto si infiamma, prende a ricamarci sopra; forse fa recapitare biglietti (...)[5]

Scoperta la cosa, il Castellano, furibondo, lo punisce facendolo ricondurre in una stanza del piano alto della torre. La vicenda sarebbe solo grottesca e ridicola se non vi si trovasse anche un risvolto drammatico, atteso che la ragazza, dopo quei fatti, venne avviata alla monacatura forzata. Siamo giunti al 1699. Se la tirerà sino al 1715: mentre l'Europa è sconvolta dalla prima delle tre grandi guerre di successione, egli intristisce in solitudine dentro quel maschio, inutilmente dotato di un cospicuo patrimonio; assistendo al fatale aggravarsi delle sue malattie; e a nulla valgono le lettere supplicatorie che spesso rivolge al figlio del Granduca, Ferdinando, che sembra nutra pietà per lui; con le quali chiede di ottenere grazia, e di poter così morire in casa propria. Ma Cosimo non ne vuol sapere, verosimilmente intima al figlio di non alimentare illusioni; e la cosa dilegua. Con l'avvicinarsi dell'incontro con l'Onnipotente, il carcerato, intanto, fa due conti e, come può, prova a sciacquarsi la coscienza: dispone lasciti benefici, fa costruire cappelle, devolve per un erigendo monastero. È pentimento vero? Nessuno può dirlo. Quel che è certo, è che provò paura e l'affrontò alla sua maniera, con una tipica disposizione tanto retorica quanto mercantile:

(...) toccati i settanta la carcassa “si sfarina”. Passatagli ogni altra mattana, il teatrante si concentra su se stesso, calcola le convenienze, ha fifa, prende a pensare all’anima; in modo “mercantile”, però: l’unico che gli è possibile. Comincia a sciacquarsi la bocca con ricchi e lunghi gargarismi retorici concernenti “il Trascendente”, “Dio e le creature”. Roba da ridere, considerato chi era. Eccolo dunque a fare il filantropo: aiuta fanciulle a maritarsi, dona denari per costruir cappelle, manda lettere, poeteggia, misticheggia, compone arzigogoli barocchi.[6]

Sabato 16 novembre 1715, la parabola si chiude: il Conte Giuseppe Maria Felicini, bolognese, spavaldo furfante avvezzo a dominare e prevaricare, muore nel mastio di Volterra, solo, malato, dimenticato da tutti. Dei suoi 89 anni, 43 li ha passati in quella fortezza.

Bibliografia

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  • Corrado Ricci, Anime dannate, Milano 1919;
  • Gaspero Amidei, Fortificazioni Volterriane, Volterra, 1864;
  • Francesco Settimanni, Memorie fiorentine dal 1670 al 1687;
  • Gigi Monello, Lo scellerato marcisce in fortezza. Divagazioni sul Conte Felicini, gaglioffo bolognese castigato in Toscana, Scepsi e Mattana, Cagliari, 2016;
  1. ^ Gaspero Amidei, Fortificazioni Volterriane, Volterra, 1864, libro 2°, pp. 306-307
  2. ^ Francesco Settimanni, Memorie fiorentine dal 1670 al 1687, in Amidei, cit., pp. 308-314
  3. ^ Secondo le Cronache, cade in questo primo periodo di detenzione un clamoroso tentativo di evasione. Ancora nel pieno delle forze, un giorno chiese di potersi confessare, e avuto di fronte un frate mandatogli a quello scopo, all'improvviso gli saltò addosso tentando di strangolarlo per poter fuggire travisandosi con la sua tonaca. Ma il frate fu, più del previsto, pronto ad urlare e il tentativo fallì miseramente.
  4. ^ Gigi Monello, Lo scellerato marcisce in fortezza. Divagazioni sul Conte Felicini, gaglioffo bolognese castigato in Toscana, Scepsi e Mattana, Cagliari, 2016, p. 20
  5. ^ Gigi Monello, ibidem, p. 21
  6. ^ Gigi Monello, ibidem, p. 27