Bucoliche - Critica delle egloghe

La prima delle dieci egloghe non presenta i tipici elementi dialogici, il tutto procede su due monologhi paralleli di tono elevato. Ciascuno dei due pastori (Titiro e Melibeo) persegue la sua visione: il primo dell'esilio, il secondo della libertà, una libertà donata a lui da un dio (deux ex machina) che gli permetterà di restare. Melibeo, all'inizio dell'egloga, ancora turbato per le vicende della sua vita, si ritroverà meravigliato nell'apprendere le sorti del suo interlocutore. L'estraneità di Titiro riguardo al mutamento che tutto intorno avviene è percepibile e lo contrappone a Melibeo. Vi è solo una simmetria, prettamente lessicale che connette,ad esempio, i due discorsi tra di loro: ai vv. 1-5 di Melibeo corrispondono i vv. 6-10 di Titiro è possibile notare tale correlazione.

La seconda egloga, primo componimento pastorale dell'autore, è un invito alla campagna. All'interno di esso i due personaggi sono posti in due ambienti opposti, città e campagna. Virgilio mette in luce elementi bucolici che se, nelle altre egloghe appaiono impliciti e propedeutici allo svolgimento artistico, qui ci rendono in grado di ricostruire la scena. Per di più, l'andamento alterato di tutta l'egloga, l'incalzarsi dei sentimenti,l'evolversi dei pensieri, avvicina questo monologo bucolico a uno tragico.

La terza egloga, nella sua seconda metà, è una gara di canto. In contrasto sono due poeti d'amore, eterosessuale l'uno, omosessuale l'altro, offre qualche riferimento celebrativo per Asinio Pollione. Questi molto doveva aver apprezzato la seconda egloga specialmente se si era riconosciuto nel personaggio di Iolla e se in Alessi aveva riconosciuto il suo efebo. L'autore poteva inoltre riconoscere il suo protettore sia come autore di notevoli poemi, sia come lettore di carmi bucolici. Di questa terza egloga Virgilio doveva essere fiero se la riprenderà, non senza vanto, nella quinta.

La quarta egloga suona come un carme genetliaco in onore di un puer che sta per nascere o che è appena nato. Nel carme, con evidenti riferimenti all'epodo 16° di Orazio, la palingenesi incomincia con il puer, il fanciullo avrà vita simile a quella degli dei e degli eroi e 'reggerà il mondo con le patrie virtù (Norden 1924,9) o, secondo Hommel e Jachman(1952,56 n.1) pacificato dalle virtù paterne'.

La quinta egloga ridiscende nel mondo quotidiano bucolico quasi a cancellare i toni elevati raggiunti nei due precedenti episodi: morte e apoteosi di Dafni. L'interpretazione fu sin dall'antichità sviata dal desiderio di prevedere chi si nascondesse sotto le spoglie di Dafni: sono stati fatti diversi nomi ma chi ha prevalso è stato Giulio Cesare.

Nella sesta egloga Virgilio tenta di comporre un'opera che sia in onore di Alfeno Varo e narrare le guerre civili alle quali Varo aveva partecipato ma, dissuaso da Apollo, ritorna alla bucolica. Più che un racconto autobiografico si può considerare una recusatio a causa delle continue insistenze di Varo che esigeva da lui un poema celebrativo. Con l'ammonimento di Apollo, l'autore cerca di rendere l'omaggio dovuto a Varo: l'egloga è per Gallo, ma la pagina porta il nome di Varo.

La settima egloga, ancora una volta una gara di canto, ha come modello Teocrito. I contendenti, Coridone e Tirsi, svolgono ognuno il proprio canto in strofe di quattro esametri,il primo risultando ben più raffinato, il secondo, ricorrendo alle volgarità verrà poi dichiarato perdente e, a giudizio di Dafni, non riesce,seppur abile, pari a Coridone. Giudizi più etici e non alttrettanto oggettivi sono quelli formulati dallo stesso Melibeo, cronista dell'intera gara, il quale 'privilegia colui che meglio riesce ad esprimersi nei canti d'amore' (S.V.F. Waite, The Contest in Virgil's Seventh Eclogue, CPh 67, 1972, 121-23). L'egloga, confrontabile con la terza, nella quale i due personaggi erano posti alla pari, vede la svalutazione di Tirsi, 'poeta di vecchio stile' (P.Wuelfing von Martitz, Zum Wettgesang der Hirten in der siebenten Ekloge Vergils, Hermes 98, 1970, 380-82) qui, Virgilio 'fa vincere Coridone' (L. A. MacKay, on two Eclogues of Virgil , Phoenix 15,1961 157-58; M. Bettini, Corydon, Corydon SCO 21, 1972, 261-76).

L'ottava egloga, pur essendo una gara di canto, si avvicina più alla quinta che alla terza o alle settima egloga anche per la divisione dei monologhi dei due protagonisti.L'azione si sperde nei rituali magici ma non mancano descrizioni pittoresche dal modello teocriteo. Tutta la scena, infatti, ricorda Teocrito, dall'atrio della casa all'ancella o al cane sulla soglia. Pollione, benchè non sia espressamente nominato, è i identificabile dai fatti (l'egloga si pensa recasse probabilmente il nome di Pollione, in testa, come dedica. Virgilio gli attribuisce il merito di averlo indotto a scrivere poesie stil-novistiche. L'esordio,carico di sollenità, ha sollevato dubbi di autenticità (P.Levi,The Dedication to Pollio in Virgil's Eighth Eclogue,Hermes 94,1966,73-79).

La nona egloga lascia scorgere i veri gesti dei personaggi: il racconto pastorale si volge al termine. Su Menalca si è abbattuta la catastrofe; egli ora incarna il personaggio di Melibeo ma al contrario di quest'ultimo,che accettava l'esilio rinunciando ai suoi possedimenti, Menalca, invece, rimane. I pastori spariscono dalla scena bucolica e solo la funzione del canto potrà richiamarli alla vita; l'uomo diventa mito e il mito si attua in poesia : da una parte il desiderio di Licida, dall'altra il canto di Menalca. (G. Stegen, La neuvième Bucolique de Virgile, ivi 21,1953,331-42)

La decima egloga, che Stegen (1953) divide in tre parti, consta di un proemio, un racconto e un congedo. L' egloga, dedicata a Gallo, trova in quest'ultimo il suo protagonista di cui Virgilio ne canta gli affanni d'amore. La vicenda ha un fondo di verità: Gallo in quegli anni era innamorato della liberta Volumnia nota anche come Citeride ma alla quale il poeta applicò il nome di Licoride . La ragazza tuttavia non ricambiò Gallo dello stesso amor, bensì fuggì per seguire un militare sul Reno. Questa fuga sarà il motivo del dolore di Gallo. Tutto il passo ha come modello Teocrito (1,66 ss.) per la scomparsa di Dafni.