Utente:Giangiosan/Sandbox

Isabella Orsini detta Bellezza

modifica

Isabella Orsini, detta Bellezza, è stata un personaggio storico italiano. Nata a Collevecchio (RI) fra il 1470 ed il 1475 e morta a Fiano Romano nel 1528 all'età di circa 55 anni, Bellezza Orsini venne condannata a morte per stregoneria. Il suo è uno dei pochi casi giunti fino a noi completo di tutti gli atti del processo.

Cenni storici

modifica

Vissuta tra il 1470 ed il 1528, anno della sua morte, era una villana di un piccolo borgo alle porte di Roma.

La sua figura e la sua vicenda assunsero valore storico quando uno storico delle religioni e biblista, Marcello Craveri[1], rinvenne, sul finire degli anni ’70, il faldone del suo processo per stregoneria[2]. Craveri ne scrive nel 1980[3] riportando alla luce una storia sepolta negli archivi[4]. Se il primo a scriverne fu Craveri, fu però grazie a Pietro Trifone[5], che nel 1988 pubblica la trascrizione integrale del processo in un libro dedicato a lei[6], che si comprende la reale portata di una fonte di così raro valore[7]. Raro perché il faldone del processo reca la data del 1540 ed è trascritto interamente in italiano volgare anziché in latino, raro e straordinario perché contiene al suo interno un quaderno manoscritto autografo della donna accusata di stregoneria e raro perché solitamente i processi celebrati dall’Inquisizione venivano custoditi dal potere della Chiesa. Ma la Congregazione della Sacra Romana e Universale Inquisizione o Sant'Uffizio venne istituita soltanto nel 1542 da Papa Paolo III con la bolla “Licet ab initio”. Per questo motivo il processo venne celebrato da un Tribunale “ordinario” (non religioso) e tenuto da un giudice laico. Si noti che le scritture degli inquisiti per stregoneria non venivano mai conservate. Venivano distrutte e bruciate insieme ai condannati e alle condannate. Dopo l’istituzione del Sant’Uffizio l’eliminazione dei testi che contenevano formule magiche, esortazioni o parole pronunciate o scritte dai condannati per stregoneria fu voluta perché quelle parole non giungessero mai alle orecchie del popolo. In questo caso invece Isabella-Bellezza Orsini non fu arsa e il quaderno rimase tra le carte del processo per un particolare tragitto del fascicolo che lo portò dapprima a Spoleto, che era la città del notaio, e poi a finire dentro un volume del 1540 (presumibilmente proprio in quell’anno) del Tribunale del Governatore di Roma. Un gran lavoro fece anche Michele Di Sivo nel 2016, riportando testo e traduzione di vaste parti del processo.[8].

Biografia

modifica

La sua storia parte da Filacciano, un piccolo borgo alle porte di Roma. Qui viveva una donna a nome Isabella Orsini, figlia naturale illegittima di Pietro Angelo Orsini, feudatario di Montenero, del ramo di Mugnano Foglia. Isabella era una donna sabina piuttosto acculturata. Era nata a Collevecchio, un borgo poco distante da Filacciano e confinante con Ponzano, feudo degli Orsini, tra il 1470 ed il 1475. Essendo una figlia illegittima non si conosce la sua precisa data di nascita. Si legge negli atti del processo che all’epoca dei fatti aveva “tra i 40 ed i 50 anni” ed era ancora una donna avvenente. Da ragazza era talmente bella che tutti presero a chiamarla con il nome diminuitivo vezzeggiativo di Bellezza.

Isabella, ora Bellezza, venne data in sposa, alla tenera età di 15 anni, ad un cerusico, un medico dell’epoca, tale Angelo Orsini abitante a Filacciano. Purtroppo però rimase presto vedova e a soli 20 anni si ritrovò sola con due figli. Sappiamo che ad uno di questi diedero il nome di Giovanni.

Impossibilitata a mantenersi chiese aiuto alla famiglia di cui portava il nome. Era pur sempre figlia di un Orsini e vedova di un Orsini. Più o meno sul finire del 1490 venne quindi presa a servizio del Conte Orsini a Monterotondo come cuoca ed affidata a tale madonna Iacoma[9]. Ma la ragazza, oltre che brava, abbiamo detto che fosse molto bella. Bella, giovane, povera e sola. Quattro fattori che la esposero ai desideri degli uomini della casa, peraltro poco rispettosi degli aspetti morali delle vicende scatenate dai loro appetiti. E fu proprio a Monterotondo che ebbe la fortuna/sventura di imbattersi in una donna di Ponzano, tale Lucia de Lorenzo, costì imprigionata perché accusata di essere una fattucchiera e con la quale purtroppo divenne amica. Lucia le insegnò a riconoscere le erbe, a raccoglierle e combinarle fra loro per darle proprietà curative. Da lei però imparò anche formule magiche ed evocative. Tutte cose contenute in un grosso libro che constava di 180 pagine. “…incominciai (a fare la strega n.d.r.) nanti che li franciosi venissero in questo paese. Io rimasci vidua, era una jovene, quasi pucta, e cusì fui presa da questi signori e stava a Monte Rotondo.[10]. Per circostanziare le sue parole giova ricordare che l’esercito di Carlo VIII (i franciosi) giunse a Monterotondo nel dicembre del 1494, dopo aver preso Civitacecchia[11]. Quindi se ne desume che il suo incontro con Lucia ed il suo interesse per le arti magiche è antecedente a quella data. Bellezza aveva imparato a guarire le persone e, non si sa perché, era tornata a Filacciano con il figlio Giovanni (dell’altro si è persa traccia ndr). Nel piccolo borgo Isabella - Bellezza curava i malati con le erbe con un discreto successo e la sua fama di guaritrice rapidamente fece il giro dei paesi della valle del Tevere. Secondo alcuni storici[12] è probabile che avesse imparato da suo marito i rudimenti della medicina (all’epoca ancora scienza piuttosto empirica) e che fosse entrata in possesso (tramite Lucia? ndr) di un esemplare dell'Herbolario volgare stampato a Venezia in più edizioni nel 1520, composto appunto da 180 pagine, integrato da notizia e informazioni manoscritte trasmesse da Lucia, da conoscenze orali, dal lavoro del marito e da lei stessa vergate sull’esemplare a stampa. Si noti che il legame con le varie famiglie Orsini che ebbe ad incontrare è confermato dalle sue relazioni con il Cardinale Giovanni Battista Orsini, zio del futuro cardinale Franciotto Orsini, all’epoca signore di Monterotondo e marito di Violante Orsini, il padre della quale era a sua volta figlio, questa volta legittimo, del Pietro Angelo genitore di Isabella-Bellezza. Questo suo legame fece si che la donna potesse vivere in ambienti colti, seppur da serva a nome Orsini. Per questo aveva grande dimestichezza con la lettura e la scrittura e annotava tutto su quel libro fatto da 180 pagine di cui spesso si fa menzione nel processo. Ciò non significa che la donna non possedesse altri testi o manoscritti. Purtroppo la donna era insieme amata e detestata in paese. La sua sete di sapere[13] e conoscere unita alle sue indiscusse capacità, avevano formato un carattere forte che l’avevano resa al tempo stesso ricercata e molto temuta. L’invidia, la vendetta e le maldicenze fecero il loro lavoro e presto fu cacciata insieme ad altri da Filacciano per le sue sospette attività. Ma non si allontanò molto (probabilmente trovò asilo nel vicino Ponzano) e più volte rientrò chiamata dai suoi paesani per essere curati. Fu proprio per essere perdonata e porre fine a questo tormentato rapporto con i filaccianesi che Isabella-Bellezza decise di partecipare ad una processione chiamata della "Perdonanza" da Filacciano a Roma a piedi. In quegli anni, siamo nel 1528, la Città Eterna era stata appena liberata dalle truppe di Carlo VIII che si erano dirette ad attaccare Melfi per quell’assedio che divenne note come la “Pasqua di Sangue” ma nelle campagne ancora vi scorrazzavano le truppe dei Lanzichenecchi che avevano saccheggiato e violentato Roma per un anno. In quegli anni era Papa Clemente VII, nato Giulio Zanobi di Giuliano de' Medici, che si trovava ancora in esilio a Viterbo dopo essere stato fatto prigioniero da Carlo VIII. Il pellegrinaggio[14] di cui parliamo aveva la durata di 54 giorni: iniziava il giorno delle Ceneri, il 5 febbraio 1528 e terminava la domenica dopo la Pasqua ovvero il 29 marzo. Ogni giorno richiedeva una sosta di preghiera presso una chiesa, un reliquiario o altro luogo sacro. Ovviamente le indulgenze dovevano essere anche “pagate” mediante elemosine. Si tenga conto che all’epoca si viaggiava sempre a piedi lungo strade sconnesse e frequentate da animali selvatici, sbandati, malviventi, briganti, lanzichenecchi e soldataglie varie. La via più battuta era quella che viaggiava lungo le rive del Tevere che, di sicuro, portava a Roma e poi a San Pietro, il traguardo da tutti i pellegrini ambito. Durante il viaggio di ritorno accadde che un ragazzino che faceva parte della comitiva dei pellegrini, di nome Camillo si ammalò gravemente e presto morì. La madre del ragazzo, una ponzanese di nome Sabetta che ben conosceva Isabella-Bellezza, disperata per la perdita di suo figlio, subito la accusò di omicidio e di averlo ucciso con una pozione magica, ben sapendo che Bellezza aveva la nomina di fattucchiera, esperta confezionatrice di filtri magici.

L'arresto

modifica

Così appena tornati a casa, Sabetta la denunciò alle autorità facendola arrestare per omicidio dal messo, tale Andrea Castaldo[15]. Appena lo vide Bellezza tentò la fuga, azione questa che venne interpretata come un’ammissione di colpa. Il giudice competente quindi, un giovane a nome Marco Callisto di Todi, della Contea di Pitigliano, ordinò che venisse rinchiusa nei sotterranei della rocca del castello di Fiano. Isabella-Bellezza, che ormai doveva avere fra i 55 e i 57 anni, da subito si dichiara innocente ma, probabilmente per paura di subire torture per farla confessare, tentò l’evasione dalla rocca carcere calandosi con una fune dalla finestrella della sua prigione. Purtroppo il suo tentativo fallì ma fu sufficiente a far si che il giudice si convinse della sua colpevolezza.

Il processo

modifica

Nel corso degli interrogatori la mamma del giovane riferì che durante il viaggio di ritorno, il gruppo dei pellegrini aveva incontrato un corso d’acqua, e per attraversarlo Bellezza aveva chiesto aiuto al ragazzotto. Mentre Camillo cercava di aiutare Bellezza ad attraversare il fiume, lei aveva toccato con le sue mani il ragazzo sul petto e sulle spalle. A seguito di tale contatto Camillo si sentì subito male con forti dolori al petto e dopo quattro giorni di sofferenza era morto. A seguito di questa puntuale testimonianza Isabella-Bellezza Orsini confessò che, durante il loro soggiorno a Roma, ella subì il furto di alcune monete d’oro da parte di Camillo. Bellezza pensò di vendicarsi utilizzando un unguento con cui aveva imbrattato il giovane. Secondo Bellezza in questo modo poteva con il semplice tocco delle mani infondere un maleficio che aveva anche il potere di uccidere. Questo a suo dire però era a sue discrezione che, volendo, poteva anche annullare tale maleficio. La madre tuttavia non volle assolutamente che Bellezza si avvicinasse al figlio. Pertanto Camillo era morto. In quel periodo unguenti, pozioni e altri intrugli avevano proprietà medicinali.

Dopo questa breve confessione il giudice Marco Calisto, assistito dal notaio Lucantonio da Spoleto, mutò subito il reato di omicidio in quello di essere una fattucchiera e pertanto in stregoneria e infine addirittura nell’accusa di essere una "maestra di streghe". Calisto opera secondo le disposizioni emanate nel 1484 dal papa Innocenzo VIII in materia penale per sopprimere la stregoneria mediante la bolla “Summis desiderantes affectibus” - “Desiderando con supremo ardore[16] , dando così inizio ad una colossale caccia alle streghe. Ma già nel 1483 era stato pubblicato un famigerato manuale redatto dal cacciatore di streghe alsaziano Heinrich Kramer (un frate domenicano tedesco) denominato “Malleus Maleficarum” (Il martello delle streghe) che era costituito da un trattato da utilizzare da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche per reprimere l’eresia, il paganesimo e la stregoneria[17]. Il manuale ebbe una larga diffusione anche in Italia. E appunto nel “Malleus” vengono descritte le azioni che l'inquisitore doveva porre in essere nei confronti degli indagati per stegoneria. La chiesa ebbe sempre a demonizzare quale discendente di Eva e fonte di ogni peccato di lussuria e priva del diritto di esprimere un pensiero o un’opinione che fosse contraria ai dettami della religione cattolica. Infatti nel Malleus ogni azione che riguardava il campo sentimentale nei rapporti fra uomo e donna era interpretato come una forma di stregoneria, e pertanto era severamente punita.

Il giudice Calisto ordina di sottoporre Bellezza alla tortura della corda. Tale pratica era di uso diffuso ed utilizzato spesso dalla giustizia secolare, data la semplicità della procedura, e permetteva di infliggere grandi pene evitando lo spargimento di sangue[18]. Isabella-Bellezza non resiste e dopo i primi sei tratti di corda che le avevano procurato la lussazione delle articolazioni procurandole un dolore atroce, cede e decide di confessare.

Comprendendo dove il giudice intendeva andare a parare Isabella-Bellezza, non solo parla ma inventa anche fatti e pratiche della sua attività. Dice di aver attuato riti malefici per far ammalare le persone per poi guarirle dietro un lauto compenso. Confessa di aver imparato l’arte della magia e la stregoneria quando lavorava in cucina presso il Palazzo di Monterotondo, al servizio degli Orsini. Racconta di aver conosciuto una strega di nome Lucia lì prigioniera cui ogni giorno portava il. Questa Lucia le aveva insegnato tutte le arti della magia e tra le quali anche quella di poter volare per recarsi al Sabba, insieme ad altre streghe, per incontrarsi con il Diavolo. Narra inoltre della sua grande esperienza di maga che ebbe anche a condividere con altre apprendiste streghe che volevano imparare da lei l’arte della magia. La scopo di Isabella-Bellezza con la sua confessione era quello di poter essere in un certo qual modo perdonata e magari, pur di evitare la morte sul rogo, scontare le sue colpe relegata in un convento. Perché questo il giudice Calisto le aveva ingannevolmente promesso: in cambio di un’ampia confessione, da lui definita una “verità all’unghia[19] , a Bellezza promise la libertà di scontare le sue colpe chiusa in un convento.

Ed è cosi che Isabella-Bellezza, stremata dal dolore, nonostante il buio della cella dove era rinchiusa nei sotterranei del Castello di Fiano si fa consegnare il necessario per scrivere, chiama a se il figlio che era anche suo difensore nel processo e da lui si fa assistere nella stesura delle sue memorie in un quaderno che il giudice fece poi inserire integralmente negli atti del processo.

Il notaio di Spoleto le annota a parte negli atti del processo usando forme più auliche di scrittura. Ne abbiamo quindi due versioni, quella autografa di Bellezza e quella più “aggiustata” del notaio trascritta poi all'interno del fascicolo come fosse una seconda confessione pronunciata davanti al giudice. Cosa, quest’ultima, di eccezionale interesse. Le scritture giudiziarie sono fonti “dal basso” perché trasferiscono le e parole di chiunque fosse giunto davanti alla giustizia: l'affermarsi del procedimento inquisitorio comportò trascrizioni fedeli di ciò che i convenuti affermavano, esattamente nella lingua in cui essi parlavano. Nelle carte non si riportava più la sintesi in latino delle risposte ma le parole stesse pronunciate dall'indagato. Quelle parole quindi erano una prova legale da conservare. Ma sempre attraverso la trascrizione di giudici e cancellieri che comunque trasferivano spesso a modo loro. Quello che oggi leggiamo quindi, ci arriva non solo da chi parlava ma anche da chi scriveva. Per questo il manoscritto di Bellezza Orsini diviene così prezioso specialmente se confrontato con la versione trascritta dal notaio di Spoleto.

Il quaderno è così giunto fino a noi restituendoci le sue parole e la consapevolezza di stare di fronte ad una vera donna che sarebbe considerata un po’ strana anche oggi.

C’è una frase in quelle drammatiche righe che dice: “La concrusione, lu fonno: quante più cose cierchi de inparare tante più sonno quelle che trovi da ‘nparare, che prima nemanco ne tenevi sentimento, e più vai inanti più vo’ ire e non te ne cuntenti. Cusì è la strearia”. Per lei la “strearia” è la trasmissione della conoscenza, la libertà di apprendere.

Finito di scrivere e di dettare, congedò il figlio, rimase sola e, consapevole di essere stata condannata al rogo, si tolse la vita conficcandosi per due volte nel collo un chiodo che aveva divelto da una delle pareti.

Le guardie del carcere la trovarono in un lago di sangue. Bellezza aveva illuso il giudice che per lei voleva il rogo. Se avesse vinto lui sarebbe morta tra le fiamme e il suo quaderno sarebbe andato distrutto, così come prevedeva la legge per una condannata per stregoneria. Il suicidio invece evitò tutto questo e le sue memorie furono inserite nel fascicolo del processo.

È oggi conservato negli scaffali della Sala Alessandrina dell’Archivio di Stato e porta la data del 1540.

Questo singolare fatto accadde perché le scritture dei condannati per stregoneria, in quei rari casi in cui potevano essere prodotte vista la scarsa alfabetizzazione dell’epoca, non venivano mai conservate. Venivano sempre distrutte e bruciate insieme alle condannate. Dopo l’istituzione dell’Inquisizione Romana, il Santo Uffizio, avvenuta con la bolla di Papa Paolo III Licet ab initio del 1542, la distruzione di tutti i testi che contenevano parole o formule magiche pronunciate o scritte da condannati o inquisiti per stregoneria fu prassi normale voluta perché quelle parole non giungessero alle orecchie del popolo. In questo caso invece il rogo non ci fu e, probabilmente, il giovane giudice perse l'interesse per il processo e per il quaderno. Che fu cosi conservato fra gli atti che hanno permesso che giungesse fino a noi.

_______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

  1. ^ 1 https://it.wikipedia.org/wiki/Marcello_Craveri
  2. ^ 2 Roma, Archivio di Stato, Tribunale criminale del Governatore di Roma, Processi del secolo XVI, vol. 6, fasc. 1
  3. ^ 3 Marcello Craveri, Sante e streghe. Biografie e documenti dal XIV al XVII secolo, Milano, Feltrinelli, 1980
  4. ^ 4 Roma, Archivio di Stato, Tribunale criminale del Governatore di Roma, Processi del secolo XVI, vol. 6, fasc. 1
  5. ^ 5 Pietro Trifone insegna Storia della lingua italiana nel Dipartimento di Studi letterari, filosofici e di storia dell'arte dell’Università degli studi di Roma “Tor Vergata”
  6. ^ 6 Pietro Trifone, La confessione di Bellezze Ursini, strega nella campagna romana del Cinquecento, Roma, 1988
  7. ^ 7 Dinora Corsi e Matteo Duni Non lasciar vivere la malefica: Le streghe nei trattati e nei processi – Secoli XIV-XVII, Firenze, 2008 – ISBN 978-88-8453-809-3 p.39
  8. ^ 8 Michele Di Sivo, Bellezza Orsini – La costruzione di una strega – (1528), - Roma nel Rinascimento - 2016. pp.125-129
  9. ^ 9 Dinora Corsi e Matteo Duni Non lasciar vivere la malefica: Le streghe nei trattati e nei processi – Secoli XIV-XVII, Firenze, 2008 – ISBN 978-88-8453-809-3 p.42
  10. ^ 10 Pietro Trifone, La confessione di Bellezze Ursini, pp.148-149
  11. ^ 11 https://it.wikipedia.org/wiki/Discesa_di_Carlo_VIII_in_Italia#Passaggio_in_Lazio
  12. ^ 12 Michele Di Sivo, Bellezza Orsini – La costruzione di una strega – (1528), - Roma nel Rinascimento - 2016.
  13. ^ 13 Dinora Corsi e Matteo Duni, Non lasciar vivere la malefica: Le streghe nei trattati e nei processi – Secoli XIV-XVII, Firenze, 2008 – ISBN 978-88-8453-809-3 p.42
  14. ^ 14 Michela Ponzani e Massimiliano Griner, Donne di Roma, - Rizzoli – 2017 – ISBN 978-88-5869-155-7
  15. ^ 15 P. Trifone, La confessione di Bellezze Ursini “strega” nella campagna romana del Cinquecento, in Contributi di filologia dell’Italia mediana, 2, 1988.
  16. ^ 17 https://it.wikipedia.org/wiki/Summis_desiderantes_affectibus
  17. ^ 18 Dinora Corsi e Matteo Duni, Non lasciar vivere la malefica: Le streghe nei trattati e nei processi – Secoli XIV-XVII, Firenze, 2008 – ISBN 978-88-8453-809-3 p.169
  18. ^ 19 Eliseo Masini, Sacro Arsenale ovvero Pratica dell'Officio della Santa Inquisitione, Bologna, 1665
  19. ^ 20 “et pro exprimat veritatem ad unguem propterea alias promisit dicere et non dixit”