Utente:Maurizio Ricci/Sandbox

Maurizio Ricci Autore

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Biografia

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Maurizio Ricci nasce a Cagliari l' 1/3/1964. Scrittore e disegnatore, la sua produzione in ambito letterario spazia dalla poesia -con la silloge Not for sale (2023)[1], alla narrativa. Con il racconto La visita è tra i finalisti del Premio internazionale di letteratura “Antonia Pozzi” (2016), classificandosi col medesimo al secondo posto del premio letterario “Ogus de Monti” (2021).

Ha al suo attivo tre romanzi: La rosa di Monet (2018)[2], A.L.F. - La storia di Donovan Bradley (2019), I giorni del Re [3](2023).[1]

  • La rosa di Monet, Youcanprint 2018, ISBN 9-788827-808894[4]
  • A.L.F. - La storia di Donovan Bradley, Bibliotheka Edizioni 2019.
  • Not for sale - La parola e il sogno, Youcanprint 2023, ISBN 9-791221-477009
  • I giorni del re, Edizioni della goccia 2023, ISBN 9-791281-494022

Citazioni

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[1] I giorni del re

[2] I giorni del re

[3] A.L.F. - La storia di Donovan Bradley

[4] A.L.F. - La storia di Donovan Bradley

[5] La rosa di Monet

[6] La rosa di Monet

[7] La rosa di Monet

Ultimi lavori

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[8] I ragazzi di Brighton

[9] I giorni del re 2

Racconti

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[10] Dal racconto La visita, vincitore secondo posto al Premio letterario Ogus de Monti

[11] Dal racconto John Lennon, il Quaalude e altre controindicazioni.

  1. ^ a b “Tutto sarebbe andato bene. Eppure, nonostante il mio cuore fosse leggero, non riuscii a staccarmi dall’anima quell’ombra immobile che mi devastava. Come il fondo di uno stagno oscuro e fetido, sentivo macerare in silenzio la muffa del male.”.
  2. ^ " [...] Mi era estraneo quel suo atteggiamento, quella filosofia di vita, ma desideravo sforzarmi, per avvicinarmi alla comprensione di quel popolo. Volevo, nel mio ardore giovanile, aprirmi a quell’esperienza, riempirmi di quelle novità e di quella cultura così lontana dalle stantie regole inglesi. [...]".
  3. ^ "Galline. In fondo non si trattava che di otto stupide galline! Mi chiedevo perché Donovan, prendesse la cosa così seriamente. Dal momento esatto in cui l’avevo conosciuto mi era piaciuto…Don voglio dire. Lui è un tipo che si fa amare e devo ammettere di averlo amato subito. Aveva cinquanta difetti, ma ai miei occhi il suo modo di comportarsi sembrava fantastico. Come avrei voluto essere come Don! Come avrei desiderato possedere quel suo sguardo magnetico e arrogante, quel suo modo di camminare agile e indolente allo stesso tempo. Quante volte avevo cercato di imitarlo, sperando di riuscire a bere tanta birra quanta ne beveva lui, e fumare le sigarette così come lui le fumava, con quelle tirate lunghe e corpose. Donovan Bradley era un esempio per me. Delle volte arrivavo a pensare che non si potesse vivere diversamente da come viveva lui! Non esisteva pub londinese che non ci avesse visto allegri e scanzonati a bere la nostra gioventù, seduti a luridi tavolini accanto alle vetrate appannate lungo il Tamigi, per osservare meglio il culo delle ragazze in minigonna che passavano infreddolite. Don era un meccanico e la sua professione la potevi intuire dal colore delle sue unghie, sempre un po’ sporche di grasso. Le sue mani callose volavano con destrezza e pazienza sui tasti del flipper, mentre l’eterna sigaretta penzolava a un lato della bocca…ma di lui avrò molto da dire mano a mano che andremo avanti…".
  4. ^ "E fu così che quel giorno feci conoscenza con Don, quello che sarebbe stato l’amico di tutta una vita. Una delle migliori persone che abbia mai conosciuto, nella mia piatta e scialba esistenza borghese. Così ancora oggi cerco di grattare via dalla mia coscienza, piccole scaglie di ricordi, piccole sfumature della nostra amicizia, per provare a spiegarvi Don Bradley e di quanto quella notte giù a Dorking fu determinante per noi. Mi convinco sempre più che quella fu l’ultima notte della nostra gioventù. E la fine della nostra innocenza.".
  5. ^ "Accadde che nel 1912 a Monet venne riscontrata una cataratta bilaterale avanzata. Fu una tragedia per il padre dell’impressionismo, perché cadde in una crisi artistica, ritenendo di non riuscire a riprodurre i colori con le tonalità giuste. Il verde delle sue piante, divenne un giallo cadaverico, i rossi virarono all’arancio e i contorni degli oggetti, divennero confusi ed indefiniti. Questo scoraggiò il maestro che ritenne di non riuscire più a dipingere. Diceva: “i rosa diventavano sempre più pallidi e non riuscivo più a captare i toni intermedi o quelli più profondi…”. Confidò nell’esperienza ma fallì e dai suoi ultimi quadri scaturì tutta la terribile verità sul problema. Quello che era la sua forza, cioè lo studio della luce, del sole e dei suoi effetti sulle cose, fu di colpo vanificata. Georges Clemenceau, il suo biografo, lo spronò a sottoporsi al delicato intervento per la rimozione del cristallino, e nel 1923 Monet si mise nelle mani dell’oculista. La situazione divenne drammatica subito dopo l’operazione: “Vedo il blu e non vedo più il rosso; ciò mi fa arrabbiare terribilmente perché so che questi colori esistono, perché so che sulla mia tavolozza c’è il rosso, il giallo, un verde speciale, un violetto particolare; non li vedo più come li vedevo un tempo”, diceva disperato. Dopo un certo periodo però riuscì a riprendere a dipingere e il problema diminuì. Accadde però un fatto insolito: Monet riproduceva anche colori che non esistevano nello spettro visivo umano. Gli esperti dopo affermarono che il maestro cominciò insolitamente a percepire l’ultravioletto, frequenza visiva che normalmente è negata all’occhio dell’uomo in salute. Vedeva in qualche modo, nella stessa maniera degli insetti. Così i suoi fiori, che emanavano determinate frequenze ultraviolette per attirare le api, diedero a Monet l’opportunità di creare nuove tonalità di colore.".
  6. ^ "Un incantesimo aveva sospeso nel tempo la Casa di Monet per i secoli a venire. Era naturale pensare che la fila di visitatori vocianti non avesse nulla da spartire con la calma e la serenità di quei luoghi, che il pittore abitò per ben quarant’anni. Ma una volta entrato quasi non facevi caso ai turisti e ti immergevi in quegli ambienti, affascinato e rapito in un improbabile viaggio spazio-temporale. Da un momento all’altro, girato un angolo, varcato l’ingresso che dalla sala di lettura blu portava all’épicerie, mi sarei aspettato di vedere la grossa figura del grande maestro, con la lunga barba bianca che ricadeva sul grembiale macchiato di vernice. Magari lo avrei visto passare con una pianta sotto il braccio (perché Monet era un giardiniere, forse anche prima di essere un pittore), oppure sdraiato comodamente col suo gatto nero tra le braccia, sulla chaise longue del suo vecchio atelier, in cerca di ispirazione e fumando una vecchia pipa di bruyère.".
  7. ^ "Riflettei sul fatto che le radici se ne stavano là sotto al buio e non avrebbero mai visto la luce, non avrebbero mai visto la rosa. Anche il mio compagno doveva aver avuto le sue radici; così mentre andavo via lungo Chemin Des Marais, mi venne in mente una domanda: possono le radici in qualche modo, avere la consapevolezza di essere le artefici della bellezza del fiore stesso?".
  8. ^ "S’incontrarono lungo la Saddlescombe Road, in un’area di servizio. Un posto di ristoro, dove potevi prendere un caffè caldo e andare al bagno. Pochi viaggiatori si fermavano. I più, compresi i camionisti, preferivano il Traveller’s Dream Café verso Saddlescombe, più a nord. Daniel Brufford fece un atto di cortesia nei riguardi del collega che arrivava da Brighton, il quale al telefono gli aveva comunicato di non conoscere bene la strada. Bernard Trevor era un londinese e come tale non avvezzo a territori così vasti, dove tra una cittadina e l’altra, potevi perderti. Non era un uomo di campagna, se così si può definire. Brufford quindi gli disse di aspettarlo alla prima area di servizio che avesse trovato. Era sua intenzione portare il collega alla loro destinazione con la sua automobile. Trevor stretto nel suo cappotto, aveva appena acceso una sigaretta, quando vide Brufford arrivare con l’auto di servizio. I due si squadrarono attraverso il parabrezza ma solo quando Bernie Trevor accennò a un saluto, Dan Brufford decise che era il caso di scendere dall’abitacolo. Nubi di vapore uscivano dalle labbra di entrambi. Il tempo era peggiorato e minacciava pioggia. Un fronte di nubi nero come il carbone cominciava a divorare il già modesto chiarore di quel mattino invernale. Quando furono uno di fronte all’altro, saltava all’occhio quanto fossero diversi. Trevor era magro, alto e col viso scavato, mentre Brufford aveva un fisico atletico, basso e con le guance rubizze. Entrambi avevano i capelli che viravano al bianco, ma Trevor tendeva a una spietata calvizie. La barba non curata di Brufford invece gli conferiva un’aria di placida simpatia, anche se una grossa cicatrice bianca gli cancellava il sopracciglio sinistro. «Ispettore capo Trevor.» disse l’uomo che veniva da Brighton. «Ispettore Brufford. Posso offrirle qualcosa?» fece Daniel indicando l’ingresso del modesto café. Trevor guardò la sigaretta che terminava e la gettò per terra, schiacciandola meticolosamente con la suola. «La ringrazio molto ma preferirei recarmi sul posto. Spero di poter essere di rientro in serata.» Brufford spalancò le braccia e col suo più formale sorriso, invitò il collega ad accomodarsi sull’automobile. «Non ci resta che andare allora...» Stavano per inforcare la Saddlescombe verso nord, quando Trevor disse: «L’auto è sicura in questo posto?» «La ritroverà sana e salva al suo rientro.» Bernie non pareva convinto: in tutta la sua vita aveva imparato a convivere col suo carattere sospettoso e pieno di dubbi. Era un tipo a posto e sapeva essere cordiale, ma non era un essere sociale, rideva raramente e per un principio che non si capiva da dove scaturisse, non si fidava di nessuno. «Ha trovato l’area di servizio facilmente?» Trevor annuì. Brufford guardando nella parte alta del parabrezza fece: «Eh, certo che il tempo non promette niente di buono.» «Uguale a Brighton.» rispose Trevor glaciale. Restarono per pericolosi minuti senza dire nulla, entrambi nella speranza che l’altro riuscisse a far decollare una conversazione appena appena amichevole. Il tutto sembrò aggravarsi con l’arrivo di una pioggia torrenziale. I tergicristalli dell’auto di pattuglia cigolavano come anime in preda al rimpianto, lasciando grosse strisciate sul parabrezza.".
  9. ^ "Il viaggio comincia a diventare noioso. Quella che era un’iniziale meraviglia riguardo ai bellissimi paesaggi francesi, diventa stanchezza. M’addormento e mi sveglio di soprassalto a Parigi, per trovarmi nel bel mezzo della prima Esposizione Universale del Novecento. L’attesa dell’evento è già l’evento stesso. Qualcosa si sta preparando e tutta l’Europa sta per convergere qui alla Ville Lumière. La stazione è un formicaio, una massa informe di persone che cercano di divincolarsi l’una dall’altra, per trovare la loro direzione. Cataste di valige attendono lungo i binari. Le sale d’attesa, i buffets, i café, le biglietterie, sono prese d’assalto. Per me appena un’ora di pausa, uno spuntino freddo, ed eccomi sul treno diretto a sud. Mentre aspetto che si parta, dal finestrino dello scompartimento, osservo la gente passare. Due donne vestite di nero con un bambino, discutono osservando una mappa di Parigi. Un facchino scherza con due operai lungo il binario, sorride mettendo in mostra i denti marci: disgustoso a vedersi, muove però in me un moto d’allegria, per il suo modo scherzoso di gesticolare. Tre uomini su di una panchina, attendono. Due di questi, sono seminascosti dal Le Figaro: sulla prima pagina i titoli non parlano d’altro che dell’Exposition Universelle. Lo sguardo si perde lungo quell’immenso spaccato di umanità, sino a quando qualcosa non attira la mia attenzione. Un uomo, un nobile forse. Lo vedo di profilo, ben vestito; sulla testa un rifinito cappello, una corta barba e tra le labbra uno storto sigaro, il cui odore terribile giunge sino a me, passando per il finestrino aperto. Balzo in piedi, trafitto da quella improvvisa visione. Mi sporgo mentre l’uomo si gira e sto per urlare un nome che muore sulla mia bocca, prendendo la forma di un sospiro. Deluso, mi rendo conto che non si tratta del mio amico Rodrigo Asquer. Per quanto possa essere somigliante, quella persona, non avrebbe mai eguagliato, lo sguardo sagace, l’espressione densa di fascino del volto del conte. Il mio amico, il conte Rodrigo Asquer… Sono passati molti mesi. Ho perso ogni traccia di lui e ormai mi chiedo se lo abbia conosciuto per davvero, o se egli non sia solo un’invenzione della mia immaginazione. Per il momento scrivo. Ancora una volta cedo a questa abitudine, alla cieca fedeltà di essere un perfetto cronista dei miei giorni.".
  10. ^ "Eravamo forti e invincibili, divoravamo la vita a grandi morsi. Poi fu la realtà ad ingoiarci, ma dentro di noi perdurarono a lungo sogni di follia, talmente a lungo che in te Matteo, misero radici così profonde e tenaci da corroderti l’anima, da scombinarti il cervello. Venti giorni fa, ti sei passato un cappio intorno al collo e ti sei impiccato. L’hai fatto in camera tua. Ad una di quelle splendide travi bianche che passano sotto il soffitto e che tua madre ha sempre vantato, con tutti i suoi ospiti, come una delle sue idee migliori, per dare un tono più country alla vostra residenza. È lei che mi ha dato le chiavi di casa. Era in lacrime oggi, mi ha abbracciato a lungo, e continuava ad accarezzarmi il viso, come se ad ogni costo volesse percepire nei miei tratti qualcosa che le ricordasse di te. I tuoi non abitano più quell’appartamento in fondo al viale degli ontani. Ora stanno ad Ostia, in quella stessa villa lungo il mare, dove più di una volta io e te siamo stati amanti clandestini. Il solo pensarci mi turba profondamente: se solo tua madre sapesse! Ho aperto la porta di casa tua, mi ha accolto un buio profondo che per un attimo mi ha ghiacciato il sangue nelle vene. Ho sentito un brivido lungo la schiena e la bocca si è asciugata, quasi come se tutto ad un tratto, lungo il corridoio d’ingresso, dovessi comparire tu. Forse avresti acceso la luce al posto mio e con la tua faccia squadrata e sorridente, mi avresti salutato con quel fischiettio strano, che facevi sempre quando eri in imbarazzo. Trovo l’interruttore e chiudo la porta. Attraverso l’appartamento, quasi senza fare rumore. È come entrare in una chiesa. Mi sembra che ogni minimo suono, possa turbare la magia di questa nicchia che ti ha visto vivere e crescere. Ho paura che con ogni mia azione, da un momento all’altro possa vederti svanire, che possa cessare ogni possibilità di comprendere a fondo quello che sei stato, la profonda lucidità del tuo gesto." [...].
  11. ^ "Quella notte aveva sognato John Lennon. A dire il vero l'aveva visto proprio. Una di quelle visioni che persistono nella realtà, malgrado il sogno sia finito. Era sveglio ma i suoi occhi ancora appannati, avevano inquadrato una parte della camera. John era là, seduto sulla sedia ad angolo, leggermente reclinato in avanti e con le braccia conserte. Lo guardava con espressione triste, senza dire una sola parola. Harry aveva battuto le palpebre una decina di volte, con la convinzione che lo spettro sarebbe alla fine sparito, ma la visione persisteva. John Lennon indossava un lungo cappotto nero sotto il quale aveva infilato la mano destra, per poi tirarla fuori e mostrarla. Dovevano appena averlo sparato, perché sulle dita magre e nel palmo aveva una grossa macchia di sangue che aveva cominciato a gocciolare sul pavimento. Scuoteva la testa incredulo e guardava Harry sperando quasi che egli potesse fare qualcosa per aiutarlo. D’improvviso il sogno si sbiadì, assumendo i contorni diafani del vetro. La figura del cantante adesso era per metà tagliata di netto da una porzione ambrata. Fu allora che Harry si rese conto che osservava la stanza attraverso la bottiglia di whisky piena per meno della metà, che aveva lasciato la notte prima sul comodino insieme col flacone del Quaalude. Decise di ignorare John Lennon (che nel frattempo si era fatto evanescente), spense la luce dell’abat-jour (che aveva dimenticato accesa) e dando le spalle alla moglie (che dormiva sull’altro lato del letto), in capo a cinque minuti si riaddormentò pesantemente.".