Utente:Pietro C. Cano9812/Sandbox2

Giurisprudenza

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La nascita del principio dell’abuso del diritto: le sentenze Van Binsbergen e Emsland-Stärke

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La Corte di Giustizia dell'UE formula la nozione di abuso del diritto partendo dal caso Van Binsbergen[1]. In questa occasione, il giudice europeo afferma che sia giusto riconoscere a uno Stato membro il diritto di impedire l’utilizzo distorto di norme comunitarie per sottrarsi all’applicazione di norme nazionali.

In seguito, è stato determinante il contributo fornito dalla Corte nel caso che ha coinvolto l’impresa Emsland-Stärke[2]: l’azienda tedesca esportava prodotti agricoli in Svizzera, stato extra UE, per poi farli immediatamente rientrare sul mercato tedesco con il solo scopo di beneficiare dei rimborsi previsti per l’esportazione dalla normativa comunitaria. A fronte di questa pratica, in totale contrasto con la ratio alla base del regolamento europeo che prevedeva questo sistema di restituzioni, la Corte rileva un’ipotesi di abuso del diritto. Quindi, per configurare una condotta abusiva, delinea due requisiti fondamentali[3]:

  1. l'elemento oggettivo, cioè il formale rispetto della normativa comunitaria dietro al quale si cela un sostanziale mancato perseguimento dell’obiettivo previsto dalla medesima;
  2. l’elemento soggettivo, cioè la volontà di ottenere un vantaggio finanziario in contrasto con le disposizioni comunitarie attraverso la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per ottenerlo.

Secondo alcuni autori, la verifica di questi elementi può definirsi abuse test[4].

L’affermazione del principio dell’abuso diritto: la sentenza Halifax

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Il contributo fornito dal giudice europeo è stato determinante nel quadro del caso Halifax[5], in tema di operazioni parzialmente o totalmente esenti da IVA compiute per ottenere un indebito vantaggio fiscale.

La controversia riguarda l’interpretazione della Sesta Direttiva[6], secondo la quale un soggetto non è tenuto a optare, tra due operazioni alternative che gli vengono concesse, per quella più onerosa.

In particolare, Halifax era un istituto bancario che, ai fini della sua attività, aveva istituito quattro call centers e che, in virtù della sua natura, era esente da IVA, non potendo recuperare l’imposta sugli acquisti che effettuava. Pertanto, l’istituto costituì una serie di società controllate con il ruolo di effettuare le operazioni di acquisto dei diritti sugli immobili e di affidare a terzi i lavori di costruzione. Attraverso questo meccanismo sarebbe stato possibile per Halifax recuperare l’IVA pagata per questi ultimi.

Le argomentazioni[7] avanzate dai Commissioners of Customs & Excise, controparte di Halifax, erano che:

  • l’operazione effettuata al fine di evadere l’IVA non costituisce né una “cessione”, né una “prestazione”, né un atto compiuto nell’ambito di un’“attività economica” ai sensi della Sesta Direttiva;
  • le operazioni condotte al fine di evadere l’IVA non devono essere valutate, conformemente al principio generale dell’ordinamento comunitario che richiede la prevenzione degli abusi del diritto.

La Corte afferma che la condotta abusiva nel campo dell’IVA implica che:

  • da un lato “le operazioni abusive devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle disposizioni della Sesta Direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni”[8];
  • dall’altro “deve risultare da una serie di elementi oggettivi che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale”[9].

Inoltre, si ricorda che il giudice nazionale è competente nell’individuazione del contenuto e significato delle attività controverse e preordinate ad ottenere un beneficio fiscale.

In questo passaggio, la Corte riprende il ragionamento che aveva già introdotto nel caso Emsland-Stärke, ma ne amplia la portata: se nel caso relativo all’impresa agricola tedesca, aveva dichiarato che, ai fini dell’integrazione della condotta abusiva, il vantaggio fiscale dovesse configurare lo scopo esclusivo della condotta, in Halifax è sufficiente che lo scopo in questione sia essenziale.

Nel caso di specie, il giudice europeo riconosce l’integrazione dei presupposti per configurare la condotta di Halifax come abusiva e preordinata al conseguimento esclusivo di un vantaggio fiscale, in contrasto alla normativa dell’UE.

Ancora, nella sentenza Halifax si specifica che siano inapplicabili sanzioni amministrative o penali a fronte di un comportamento abusivo perché, a tal fine, è necessaria un’indicazione normativa espressa.

Infine, si constata che, a partire da questa pronuncia, la dottrina maggioritaria riconosce il divieto di abuso del diritto quale principio generale dell’ordinamento unionale.

La consolidazione del principio dell’abuso del diritto: le sentenze Part Service e Cadbury Schweppes

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Dopo Halifax, la Corte consolida il suo orientamento sul principio dell’abuso del diritto in alcuni casi successivi, tra cui il caso Part Service[10] e il caso Cadbury Schweppes[11].

Analogamente a quanto accade nel leading case, nella sentenza Part Service, l’oggetto è l’imposta sul valore aggiunto. Il giudice europeo conferma l’integrazione di una condotta abusiva in presenza di un vantaggio fiscale raggiunto in contrasto con gli obiettivi perseguiti dalla normativa unionale, e in particolare dalla Sesta Direttiva[6], laddove tale vantaggio rappresenti lo scopo essenziale delle operazioni.

Il filone giurisprudenziale in tema di abuso del diritto continua con la sentenza Cadbury Schweppes : nel caso di specie si trattava di stabilire se la normativa antiabuso del Regno Unito fosse compatibile con le libertà fondamentali dell’UE e, più specificamente, con la libertà di stabilimento[12]. La Corte, investita della questione, conferma che l’instaurazione di una società in un diverso paese per beneficiare di un sistema fiscale più favorevole, non costituisce di per sé abuso della libertà di stabilimento. Tuttavia, aggiunge che la costituzione di un’attività economica all’estero non debba essere artificiosa, ma preordinata all’esercizio effettivo di un’attività commerciale. Ancora una volta, come in Emsland-Stärke, in Halifax e in Part Service, si ribadisce quali siano gli elementi essenziali che caratterizzano una condotta abusiva, quindi l’elemento soggettivo, cioè l’ottenimento di un vantaggio fiscale, e l’elemento oggettivo, cioè l’incompatibilità con le finalità sancite dai Trattati.

L’analisi delle pronunce della Corte di Giustizia dell’UE rende evidente il ruolo rivestito del giudice europeo nella definizione dei caratteri essenziali e nella consolidazione del principio di divieto di abuso del diritto in ambito fiscale.

Legislazione

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La prima direttiva a occuparsi dell'abuso del diritto in materia tributaria è la sesta direttiva del 17 maggio 1977, n. 388, sull’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri, relative alle imposte sulla cifra d’affari. Nello specifico la sesta direttiva ha trattato del sistema comune di Iva e della base imponibile uniforme, e in particolare all’articolo 27 stabilisce che “Il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione, può autorizzare ogni Stato membro a mantenere o introdurre misure particolari di deroga alla presente direttiva, allo scopo di semplificare la riscossione dell'imposta o di evitare taluni frodi o evasioni fiscali”. 


Nelle direttive successive vengono trattati temi più specifici, come la direttiva n. 434 del 1990 nella quale si traccia una disciplina comune per fusioni, scissioni parziali, conferimenti d'attivo e scambi di azioni che riguardano società di Paesi dell'Unione diversi[13]. Scopo della direttiva è sostenere la nascita del mercato interno, considerato come obiettivo primario dalla Comunità. Nel testo viene individuato come comportamento abusivo quello che persegue la frode o l'evasione fiscale, quindi privo di valide ragioni economiche. In questo contesto viene lasciato comunque agli Stati membri lo spazio per intraprendere iniziative interne, seguendo sempre le linee guida dettate dalla Comunità europea. 



Il quadro si è poi ingrandito con la direttiva n.49 del 2003, sul regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di stati membri diversi: all’articolo 5 viene concesso agli Stati membri spazio nell’introduzione di disposizioni nazionali necessarie ad evitare frodi e abusi e stabilisce che “gli Stati membri, nel caso di transazioni aventi come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali l'evasione o l'elusione fiscale, o gli abusi, possono revocare i benefici della presente direttiva rifiuta nell’applicazione". In seguito nella direttiva n.112 del 2006, all’articolo 80, viene data la possibilità agli Stati membri di decidere affinché, in determinati casi, la base imponibile sia pari al valore normale[14].

Abuso come principio generale

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Successivamente, con l’articolo 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000, è stato enunciato il divieto di abuso del diritto. Gli articoli 113 e 115 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea riprendono la materia, e in particolare il 113 stabilisce che “Il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consulta­zione del Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale, adotta le disposizioni che riguardano l'armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte sulla cifra d'affari, alle imposte di consumo ed altre imposte indirette, nella misura in cui detta armonizzazione sia necessaria per assicurare l'instaurazione ed il funzionamento del mercato interno ed evitare le distorsioni di con­correnza”. Il fine ultimo, a cui aspira l’Unione europea, è la posizione comune delle legislazioni degli Stati membri ed la protezione del mercato unico.



La direttiva n. 96 del 2011, che persegue come obiettivo la massima neutralità fiscale, ha eliminato la possibiità, in determinate condizioni, di doppia imposizione di regimi fiscali appartenenti a Stati membri diversi nel caso in cui i soggetti, società madre controllante e società figlia controllata, abbiano sedi in Stati membri diversi. L’evoluzione normativa della direttiva n. 96 ha conosciuto una modifica con la direttiva n.121 del 2015 che ha cambiato l’articolo 1 della precedente, nello specifico al paragrafo 2 disponendo che “gli Stati membri non applicano i benefici della presente direttiva a una costruzione o una serie di costruzioni che, essendo stata posta in essere allo scopo principale o uno degli scopi principali di ottenere un vantaggio fiscale che è in contrasto con l'oggetto o la finalità della presente direttiva, non è genuina avendo riguardo a tutti i fatti e circostanze pertinenti”.

Armonizzazione

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La crisi finanziaria, esplosa nel 2008, ha accelerato le esigenze di armonizzazione fiscale all’interno del mercato unico: è aumentata l’esigenza di contrastare le frodi e gli abusi che si consumavano nell’Unione Europea, causati dalla diversità dei regimi fiscali applicati nei vari Stati membri. In quest’ottica nasce “Europa 2020” [15], un piano che getta le basi per una serie di ulteriori progetti che hanno condizionato il secondo decennio del ventunesimo secolo. Uno dei progetti principali è il “libro verde sul futuro dell’iva” del 2010. Il libro verde ha l’obiettivo di avvicinare le varie posizioni degli Stati membri, stabilendo un livello minimo di garanzia, bilanciando le esigenze di armonizzazione con la sovranità dei singoli Paesi, oltre a puntare al contrasto di abusi e frodi, cercando di snellire e semplificare la disciplina vigente. Nella comunicazione “sul futuro dell’iva” del 2011, la Commissione europea ha tirato le somme del dibattito scaturito con il libro verde, presentando le prospettive future. In particolare, la Commissione ha deciso di proporre, in relazione alla disciplina dell'iva nelle cessioni transfrontaliere, la regola di imposizione nel Paese di destinazione dei beni.

Direttiva ATAD

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La necessità di contrastare le pratiche fiscali abusive ha spinto la Commissione europea a far istituire delle norme generali antiabuso, al fine di superare le discipline di settore ed estendere l’ambito di sindacabilità delle istituzioni (europee e nazionali) a tutte le fattispecie che fino ad allora non erano regolate legislativamente. Così, nel 2012, la Commissione europea ha proposto una clausola generale antiabuso attraverso la Raccomandazione sulla pianificazione fiscale aggressiva[16] . Questa viene definita dal considerando 2, secondo il quale “consiste nello sfruttare a proprio vantaggio gli aspetti tecnici di un sistema fiscale o le disparità esistenti fra due o più sistemi fiscali al fine di ridurre l’ammontare dell’imposta dovuta. La pianificazione fiscale aggressiva può assumere svariate forme. Fra le conseguenze di questa pratica si possono citare le doppie detrazioni (ad esempio la stessa perdita è detratta sia nello Stato della fonte che nello Stato di residenza) e la doppia non imposizione (ad esempio i redditi che non sono tassati nello Stato della fonte sono esenti nello Stato di residenza). Le autorità nazionali devono trattare tali costruzioni a fini fiscali facendo riferimento alla loro «sostanza economica».” Al punto 4.2 viene anche definito l’abuso come “una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale”. Un significativo ed ulteriore passo in avanti è avvenuto nel 2015, con il progetto BEPS[17] : un’iniziativa dell’OCSE che, in 15 azioni specifiche, ha la finalità di “di ricondurre l'imposizione dei profitti aziendali nei paesi in cui le attività hanno luogo e dove il valore aggiunto è effettivamente creato, così da rendere inefficaci le strategie di erosione della base imponibile e di traslazione dei profitti poste in essere da alcune imprese che, sfruttando regole obsolete e/o lo scarso coordinamento tra i diversi ordinamenti fiscali nazionali, riducono il gettito fiscale dei singoli paesi.” Proprio sulla scia del progetto BEPS, viene emanata la direttiva fondamentale in materia di abuso del diritto: è la 1164 del 2016 “recante norme contro le pratiche di elusione fiscale che incidono direttamente sul funzionamento del mercato interno”, meglio nota come direttiva ATAD. Il fine ultimo è quello di garantire il versamento delle imposte nel luogo in cui gli utili e il valore sono generati, contrastando le pratiche fiscali aggressive che falsano la concorrenza del mercato unico. Non si è ancora pensato a una disciplina uniforme estesa all’intero territorio dell’Unione, anzi, si cerca di tutelare la sovranità fiscale dei vari Governi però considerando anche le esigenze del mercato e di genuinità della concorrenza. Si cerca di attuare un’azione coordinata che limiti i disallineamenti del mercato, garantendo un livello minimo di protezione. La direttiva prevede una serie di disposizioni generali in relazione all’imposta sui redditi delle società, lasciando ai vari Paesi dell’Unione il compito di attuarle, emanando disposizioni specifiche, nel modo più omogeneo possibile all’interno dell’Unione. Da evidenziare è l’ambito di applicazione, previsto dall’art.1, che ricomprende anche le entità residenti per ragioni fiscali in un paese terzo ma che abbiano una stabile organizzazione situata all’interno dell’Unione. Direttiva 1164 che è stata poi modificata dalla direttiva n. 952 del 2017 che ha modificato l’art. 9, in materia di “disallineamenti da ibridi con i paesi terzi” per prevenire casi di doppia deduzione[18] o di deduzione senza inclusione[19] .

L'art. 6 ATAD 1: General anti avoidance rule (GAAR)

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In materia antiabusiva fondamentale è l’art. 6 ATAD 1 che disciplina l’attuale General anti avoidance rule (GAAR), riprendendo e superando le precedenti formulazioni.

La norma si riferisce a tutte quelle ipotesi di abuso che non sono contrastate da specifiche leggi e ha quindi valenza generale[20]. Tale caratteristica, unita ad una formulazione testuale poco chiara, è stata ritenuta dannosa per la certezza del diritto e quindi, da alcuni, criticata. Dal punto di vista strutturale, la norma può essere suddivisa in due requisiti cumulativi, uno di tipo oggettivo e uno di tipo soggettivo[21]. Nel valutare la presenza o meno di abusività si richiede un primo test riguardante la “non genuinità” della condotta del contribuente. Il comma 1 dell’art. 6 ATAD 1 afferma che un’operazione deve ritenersi “non genuina” quando non viene attuata “per valide ragioni commerciali che rispecchiano la realtà economica”. Si prendono poi in considerazione le finalità perseguite dal contribuente, contrastando quelle costruzioni il cui scopo principale o “uno degli scopi principali” è l’ottenimento di “un vantaggio fiscale che è in contrasto con l’oggetto o la finalità del diritto fiscale applicabile”. In conclusione, il terzo comma dell’art. 6 ATAD 1 si preoccupa delle conseguenze giuridiche in caso di abuso, specificando che l’indebito vantaggio fiscale va neutralizzato con l’applicazione della normativa nazionale[22].

Attualmente, più del 50% degli Stati membri UE presenta, all’interno del relativo ordinamento nazionale, una clausola generale antiabuso che può ritenersi conforme ai livelli minimi di tutela richiesti dalla GAAR europea di cui all’art. 6 ATAD 1[23]. Tali dati emergono anche dalla relazione della Commissione Europea n. 383 del 19 agosto 2020 concernente lo stato di avanzamento dei controlli sul recepimento della direttiva ATAD 1. Tra gli Stati che hanno superato positivamente il vaglio di conformità troviamo, per esempio, Grecia, Francia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovenia, Slovacchia, Finlandia e Svezia[20].

Alcuni Stati membri non sono intervenuti con una diretta trasposizione dell’art. 6 ATAD 1 sostenendo di avere già clausole generali antiabusive di valore corrispondente.

GAAR belga

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Tra gli Stati Membri che non hanno recepito la GAAR europea, emblematico è il caso del Belgio. La clausola antiabuso doveva essere recepita entro il 31 dicembre 2019 e se, in un primo momento, il legislatore belga ha annunciato un nuovo testo contenente una puntuale trasposizione della GAAR europea, questo non ha mai emanato tale disposizione ritenendo che la normativa nazionale esistente fosse già un recepimento adeguato[24]. La materia, infatti, risulta essere già disciplinata dalla normativa nazionale dal 2012, all’art. 344, comma 1, del Code des impots sur les revenus (CIR). Sovrapponendo i due testi normativi, il legislatore belga ha mostrato come la disciplina nazionale rispetti i requisiti dettati posteriormente dalla direttiva ATAD 1 nel 2016. Ciò perché l’art. 344 del CIR è stato posto in essere seguendo i principi dettati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'UE che, già prima degli interventi legislativi unionali, vietava pratiche abusive[25]. La dottrina nazionale belga, sezionando il testo dell’art. 344 del CIR, ha fatto luce sulle analogie che intercorrono tra l’articolo in esame e la GAAR di cui all’art. 6 ATAD 1 e si è preoccupata di chiarire i punti discordi[24]. Nel testo dell’art. 344 del CIR è assente il carattere di “non genuinità” delle operazioni, mancanza che può essere colmata, secondo la dottrina, grazie alla previsione implicita del test di artificiosità che ricalca quanto previsto dalla disposizione unionale. Secondo questa corrente di pensiero, la GAAR belga del 2012 risulta recepire correttamente quella europea contenuta all’art. 6 ATAD 1 e quindi il legislatore nazionale, scegliendo di non intervenire con l'emanazione di un nuovo testo normativo, non risulta inadempiente[24].

GAAR tedesca

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Anche la Germania non è prontamente intervenuta per recepire la direttiva ATAD 1 e ciò ha portato la Commissione Europea a costituirla in mora nel gennaio del 2020 in modo da indurre una riforma. Il 30 giugno del 2021 lo Stato tedesco ha pubblicato sulla propria Gazzetta federale una legge attuativa della direttiva europea. Questa legge però, così come i precedenti progetti, non contiene un’apposita trasposizione dell’art. 6 ATAD[26]. La scelta di non introdurre una specifica GAAR nazionale si giustifica con il fatto che in Germania già da diverso tempo viene riconosciuta la qualifica di clausola generale antiabuso al paragrafo 42 dell’Abgabenordnung (AO), riformata, inoltre, su influenza della giurisprudenza unionale e in particolare della sentenza Halifax. La norma in questione si pone come residuale, estendendo il suo ambito applicativo a tutti quei casi che non sono già interessati da disposizioni aventi carattere speciale, e contiene, oltre a un generico divieto di abuso, anche una definizione dello stesso. Presupposti caratterizzanti la fattispecie abusiva di cui al § 42 AO sono essenzialmente l’inadeguatezza della forma giuridica attuata dal contribuente, ritenuta tale se non sostenuta da valide ragioni extrafiscali, e la presenza di un vantaggio fiscale non legislativamente previsto come conseguenza del primo presupposto. Dal punto di vista della reazione giuridica all’abuso, il codice tributario tedesco afferma che “la pretesa tributaria si realizza (comunque) nel modo in cui si sarebbe realizzata per effetto di una forma giuridica adeguata alla situazione economica”[27][28]. C’è poi una parte minoritaria della dottrina tedesca che sostiene l’Innentheorie. In base a questo pensiero il § 42 AO, o l’introduzione di una nuova GAAR, sarebbe addirittura inutile poiché ogni norma tributaria sarebbe in grado di contrastare da sé i fenomeni abusivi ricorrendo ad una adeguata interpretazione[29].

GAAR olandese

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In linea rispetto alle soluzioni belga e tedesca è il caso dei Paesi Bassi, il cui ministro delle finanze, nel Tax Plan del 2019 diretto alla camera bassa del parlamento, ha palesato l’intenzione di non procedere all’introduzione di una nuova GAAR nazionale data la presenza dell’istituto del fraus legis di elaborazione giurisprudenziale. Sull’adeguatezza di tale scelta non si sono ancora pronunciate le istituzioni europee, ma similmente all’art. 6 ATAD 1, anche il principio olandese sanziona quelle costruzioni artificiali finalizzate principalmente all’elusione della tassazione e in contrasto con l’oggetto e lo scopo legittimo della normativa applicabile[30].

GAAR italiana

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Con riguardo all’Italia nel 2015, il legislatore interno ha recepito il testo della Direttiva 2015/121/UE novellando lo Statuto dei diritti del contribuente con l’introduzione dell’art. 10-bis e per questo ha ritenuto di non doversi adeguare nuovamente alle previsioni del 2016 di cui all’art. 6 ATAD 1, come chiarito nella relazione illustrativa al decreto legislativo 142 del 2018[31]. Diversi orientamenti dottrinali si sono interrogati sulla ragionevolezza di questa scelta, domandandosi se sia corretto ritenere sovrapponibili l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente e l’art. 6 ATAD 1.

Per lo statuto dei diritti del contribuente, configurano abuso del diritto, e quindi non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, quelle operazioni “prive di sostanza economica” che “pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”[32].

Su un piano formale, la prima differenza degna di nota è relativa al concetto di “genuinità”, presente a livello europeo e assente nella disciplina interna, dove si parla invece di “sostanza economica”. Questo contrasto terminologico potrebbe portare l’interprete a pensare che ci sia differenza anche sul piano sostanziale. La “sostanza economica”, rispondendo all’esigenza di verificare la coerenza tra le forme impiegate dal contribuente e gli obiettivi da raggiungere, trova esplicazione sul piano oggettivo, mentre l’art. 6 ATAD 1, riconoscendo come “non genuine” tutte quelle costrizioni poste in essere “per valide ragioni commerciali”, sottolinea la necessità di indentificare i motivi per i quali l’operazione è stata portata a termine introducendo così un elemento di soggettività all’aspetto meramente oggettivo[33]. La dottrina maggioritaria risolve la divergenza sussumendo entro la GAAR tutti quei casi in cui il risultato economico è conseguito attraverso mezzi legali sproporzionati e percorsi che non rispecchiano le ragioni commerciali perseguite: così facendo si va oltre alla mera volontà del contribuente e si rende la posizione unionale più oggettiva, quindi sovrapponibile rispetto a quanto disciplinato dall’art. 10-bis dello Statuto[34].

È bene sottolineare ancora che una parte autorevole della dottrina ha specificato che la GAAR di ATAD 1, definendo “non genuina” un’operazione che “non rispecchia la realtà economica”, comprende sia le situazioni abusive, contrastate dallo stesso art. 10-bis dello Statuto del contribuente, sia quelle simulate, che richiedono, invece, la condotta fraudolenta del contribuente e sfociano nell’ambito della frode fiscale, escluso dal 10-bis. Nonostante l’art. 6 ATAD 1, da questo punto di vista, abbia un raggio di applicazione maggiore, l’Unione Europea ha comunque lasciato al legislatore nazionale la possibilità di regolare distintamente quei comportamenti abusivi che volutamente non rispettano la realtà economica rispetto a quelli apparenti e simulati[35]. Così ha fatto l’ordinamento italiano che ha assoggettato al regime dell’art. 10-bis soltanto quelle operazioni illecite prive di sostanza economica poste in essere, volutamente, ai fini di ottenere un indebito vantaggio fiscale, mentre se si è in presenza di un’operazione priva di sostanza economica apparente, frutto di una macchinazione fraudolenta, la normativa da applicare è quella dettata dagli artt. 1, lett. g-bis e 3 del D.lgs. n. 4/2000 integrati dal D.lgs. n. 158/2015 concernete le operazioni simulate di evasione [36].

Più complicato risulta il confronto relativo al requisito del “vantaggio fiscale indebito”. La GAAR europea lo intende quale scopo principale della condotta, mentre l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente lo reputa scopo essenziale. In entrambi i casi l’illegittimità del vantaggio si manifesta quando lo stesso contrasta con il fine della normativa elusa, ma se per l’art. 6 un’operazione non è genuina, dunque sanzionabile, tutte le volte in cui risulta indebito anche solo uno dei diversi scopi perseguiti, per l’art. 10-bis è necessario che il risparmio fiscale sia unico obiettivo dell’operazione realizzata dal contribuente, il quale potrà così addurre a sua discolpa l’esistenza di diverse e “valide ragioni extrafiscali non marginali”[37]. Ne consegue allora che l’art. 10-bis, rispetto al corrispettivo europeo, richiede una soglia più elevata per l’accertamento dell’abuso e quindi maggior aggravio in capo all’Amministrazione finanziaria in termini di attività istruttoria, obblighi motivazionali dell’atto impoesattivo e onere della prova[38][39][40]. Una soglia più elevata implica minor sanzionabilità, ma non per questo la normativa italiana non rispetta il livello minimo di tutela imposto dall’ordinamento UE. Come sottolinea buona parte della dottrina, infatti, dall’art. 6 ATAD 1 emerge un’incongruenza: dopo aver introdotto il concetto di “non genuinità”, l’articolo specifica nel suo secondo comma che “ai fini del paragrafo 1, una costruzione o una serie di costruzioni è considerata non genuina nella misura in cui non sia stata posta in essere per valide ragioni commerciali che rispecchiano la realtà economica”. Dunque, a contrario, qualora un’operazione sia sostenuta da legittime ragioni commerciali, non può che considerarsi genuina. Una tale conclusione però contrasta con quanto stabilito al primo comma[34]. In breve, il secondo comma modifica il test sugli scopi dell’operazione, come se al posto dell'aggettivo "principale" ci fosse invece scritto "essenziale", esattamente come per l’art. 10-bis dello Statuto. Alcuni orientamenti dottrinali superano la contraddittorietà interna allo stesso art. 6 privilegiando proprio il secondo comma sul primo, sussumendo quindi entro la non genuinità solo quelle condotte in cui il risparmio fiscale indebito sia scopo essenziale. Da un altro punto di vista, si considera non assoluto il requisito di “essenzialità” dell’art. 10-bis, poiché l’articolo stesso, introducendo il concetto di “non marginalità” in relazione alle ragioni extrafiscali che il contribuente può addurre come prova contraria, sembra prescrivere, almeno indirettamente, che l’abuso del diritto possa configurarsi anche qualora il vantaggio indebito perseguito sia scopo solo prevalente[41]. Fatte queste precisazioni, alcuni critici hanno ritenuto superabile la problematica contrapposizione tra un vantaggio fiscale indebito inteso quale “scopo principale” ovvero quale “scopo esclusivo”[36]. C’è invece chi ritiene superato il test soggettivo della GAAR europea anche in tutte quelle ipotesi in cui valide ragioni commerciali coesistono con indebiti scopi fiscali. In questo caso viene privilegiato il primo comma sul secondo. Sostenendo allora in questo caso che l’art. 10-bis italiano, richiedendo una soglia più elevata per l’accertamento di uno schema elusivo, non soddisfi lo standard minimo di tutela previsto dalla Direttiva ATAD 1[34]. In ogni caso, a prescindere dalle differenti formulazioni delle due clausole, rimane una difformità c.d. ratione personae: l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente si applica a tutte le tipologie di imposizione reddituale, mentre l’art. 6 ATAD 1 si riferisce ai soli contribuenti soggetti alle imposte sulla società[40][39].

  1. ^ Corte di Giustizia, sentenza 3 dicembre 1974, C-33/74, Van Binsbergen, su curia.europa.eu.
  2. ^ Corte di Giustizia, sentenza 14 dicembre 2000, C-110/99, Emsland-Stärke., su curia.europa.eu.
  3. ^ BANCALARI M., Corte di giustizia UE, Cause 22 Dicembre 2010, C-103/09 e C-277/09 - L'abuso del diritto comunitario in materia di IVA, in Fisco, n. 3/2011.
  4. ^ G. MARINI e G. MERONE, L'abuso del diritto nel dialogo tra corti nazionali ed internazionali, Edizioni scientifiche italiane, 2014, ISBN 978-88-495-2753-7, OCLC 883622423. URL consultato il 18 novembre 2021.
  5. ^ Corte di Giustizia, sentenza 21 febbraio 2006, C-255/02, Halifax, su curia.europa.eu.
  6. ^ a b Direttiva n.77/388/CEE del 17 maggio 1977, su eur-lex.europa.eu.
  7. ^ Roberto Betti e Gianpaolo Sbaraglia, L'abuso del diritto in materia tributaria: la giurisprudenza comunitaria, Il Fisco n.39 - parte 1, 2011, pp. 63-81 (PDF), su static1.squarespace.com.
  8. ^ Punto 74, sentenza 21 febbraio 2006, C-255/02, Halifax
  9. ^ Punto 75, sentenza 21 febbraio 2006, C-255/02, Halifax
  10. ^ Corte di Giustizia, sentenza 21 febbraio 2008, C-425/06, Part Service., su curia.europa.eu.
  11. ^ Corte di Giustizia, sentenza 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes., su curia.europa.eu.
  12. ^ BEGHIN M., La sentenza Cadbury Schweppes e il "malleabile" principio della libertà di stabilimento (nota a sentenza), in Rassegna Tributaria, n. 3/2017.
  13. ^ Art. 11 - Direttiva n. 1990/434, su eur-lex.europa.eu.
  14. ^ Art. 72 della Direttiva n. 2006/112, su eur-lex.europa.eu.
  15. ^ COM(2010) 2020 del 3.3.2010, Europa 2020 - Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.
  16. ^ Raccomandazione della Commissione Europea del 6 dicembre 2012 sulla pianificazione fiscale aggressiva (2012/772/UE).
  17. ^ Acronimo in lingua inglese che significa: "Base Erosion and Profit Shifting". Le relazioni finali sulle quindici azioni dell'OCSE contro il fenomeno denominato appunto "BEPS" sono state pubblicate in data 5 ottobre 2015 e sono state favorevolmente accolte dal Consiglio europeo nelle sue conclusioni dell'8 dicembre 2015.
  18. ^ Considerando 28 della direttiva del Consiglio n. 2017/952.
  19. ^ Considerando 26 della direttiva del Consiglio n. 2017/952.
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