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Caratteristiche dei generi principali

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Nō: dramma lirico

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Recitazione e repertorio

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Ai giorni nostri, il (chiamato fino all'epoca Meiji col suo nome antico sarugaku nō[1]) incarna forse lo stile di teatro giapponese più tradizionale e più sorprendente per uno spettatore straniero. Se quest'arte è attualmente caratterizzata per la sua lentezza e la sua solennità, all'epoca dei suoi fondatori e teorici (di cui il più importante fu Zeami) non era così.

Il nō si definisce come un «dramma lirico» che mescola recitazione, canto, danza e musica, o, più estesamente, «come un lungo poema cantato e mimato con un accompagnamento orchestrale, generalmente interrotto da una o più danze che possono non avere alcun rapporto con il soggetto»[2] Il nō, fortemente stilizzato e i cui principi estetici sono stati formalizzati da Zeami, dà un'importanza preponderante al fascino e allo shock provocato dalle rappresentazioni, piuttosto che all'azione drammatica.[3]

Il repertorio attuale del nō si compone di duecentocinquanta opere, per la stragrande maggioranza scritte da Zeami, l'autore più prolifico. Le opere potevano essere classificate in base al tema e alla stagione in cui venivano tradizionalmente recitate[4][5]. Nel nō spesso le opere sono adattamenti di autori e opere di cui non sono pervenute le fonti originali: Zeami, per esempio, arrangiò le opere essenziali del repertorio di suo padre Kan'ami, insieme ad altre opere del sarugaku o del dengaku da cui deriva direttamente il nō.[6]

Drammaturgia e temi della «giornata del nō»

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Esistono due grandi gruppi di teatro nō: quello delle apparizioni /sovrannaturale/ (mugen nō) e quello del mondo reale (genzai nō). Le opere di questi due gruppi seguono una struttura fissa ispirata dai rituali religiosi e composta da due atti e un interludio.[7]

Il nō delle apparizioni mette in scena fantasmi, divinità, demoni e altri personaggi immaginari[8]. Il primo atto vede la comparsa di un personaggio immaginario nella sua forma umana (un vecchio o talvolta una giovane donna), che racconta il suo passato e i suoi tormenti[9]. L'interludio è un riassunto comico o realistico della storia del personaggio o delle leggende associate al luogo, generalmente realizzato da un attore di kyōgen; questo momento permette all'attore principale di cambiare il costume. Il secondo atto è il punto in cui i personaggi immaginari si rivelano con un costume impressionante nella loro vera forma e ritornano alla loro recitazione del primo atto, dal tono disordinato e senza mantenere il filo del discorso[10]. In questo atto, danze e canti si mescolano per dare vita a uno spettacolo che affascina lo spettatore per il suo surrealismo e la sua poesia[10]. Quando il personaggio è uno spirito o un fantasma, questa parte assume un'atmosfera onirica. Queste storie sono generalmente tratte dalla letteratura e dalle leggende tradizionali.

Il nō del mondo reale, attraverso dialoghi, canto e danza, si concentra maggiormente sull'espressione più o meno implicita dei sentimenti dei personaggi umani in situazioni tragiche.[11] L'interludio fra i due atti ha la funzione di marcare la divisione tra i due momenti; la storia si rifà meno alla tradizione letteraria e poetica[11][12].

Tradizionalmente, uno spettacolo del nō si compone di cinque opere differenti (gobandate), separate una dall'altra da un'opera di kyōgen: Sieffert chiama tale programma «giornata del nō»[13]. Ai giorni nostri il numero di opere rappresentate può ridursi da cinque a una. In caso di rappresentazioni importanti, come quelle del nuovo anno, lo spettacolo inizia con l'Okina, la danza di un vecchio carica di significato religioso che ricorda il carettere primitivo degli antichi kagura.[14]

I temi del nō sono tradizionalmente classificati in cinque categorie: il nō degli dei (kami mono), il nō dei guerrieri (shura mono), il nō delle donne (kazura mono), il nō vario (zutsa mono) e il nō dei demoni (oni mono)[15].

Le opere di tutte queste categorie, ad eccezione della quarta, appartengono maggiormente al nō delle apparizioni.

Il nō delle divinità fa riferimento a una divinità shinto (i kami) o più raramente al buddhismo (per esempio al dio drago originario della Cina): solitamente, il dio appare nella sua forma umana nel primo atto, poi danza nel secondo atto per benedire il paese e gli spettatori[16].

Il nō dei guerrieri mette in scena lo spirito di un guerriero ancora in vita oppure morto, condannato a girovagare sulla terra, mentre racconta della sua vita passata e delle sue battaglie; il testo spesso si riferisce ad antiche cronache epiche, poiché lo scopo è di mettere in luce qualche tormento dell'uomo condannato ora a infestare il mondo dei vivi[17].

Il nō delle donne introduce lo spirito di una donna celebre dal passato doloroso. Poteva essere una donna degli antichi romanzi classici (Genji monogatari, Ise monogatari...) oppure una dea[18]; in questo caso danzava graziosamente nel secondo atto, senza compiere una vera azione[19].

Il nō dei demoni si riferisce a personaggi sovrannaturali, demoni o creature che popolavano gli inferi buddhisti o più raramente essere sovrannaturali di buon augurio come i dragoni. La danza, come la musica e il ritmo di queste opere, sono le più dinamiche e la recitazione la più violenta[20][21].

La quarta categoria (i nō vari) fa parte dell'insieme del nō sul mondo reale. Alcuni dei temi principali che possono essere identificati sono: i kyōran mono, cioè il nō del delirio o della disperazione (generalmente in seguito alla dipartita di una persona cara, come un bambino o un amore tradito); il nō epico che si può trovare nelle cronache storiche (ad esempio l'Heike monogatari); il ninjō, ovvero il nō dei sentimenti umani, solitamente tragici (bambini maltrattati, guerrieri decaduti, nobili esiliati...); il nō d'intrattenimento, che abbandona la storia a vantaggio della bellezza estetica delle danze e dei cani; il nō sovrannaturale[22]. Questi sono classificati nel nō del mondo reale poiché le apparizioni di creature immaginarie avvengono all'interno di un contesto storico di una cronaca d'eventi reali, che rievocano il folklore e le credenze popolari di quell'epoca[22].

La composizione di un programma di una giornata nō consiste in cinque parti scelte tra ciascuna delle cinque categorie sopra descritte, in ordine e in funzione della stagione corrente[23]. Questa disposizione, chiamata in giapponese jo-ha-kyū (letteralmente: introduzione, sviluppo, conclusione) è ripresa da Zeami per la musica classica e tiene conto anche della disposizione degli spettatori lungo tutta la giornata, che può durare anche più di otto ore[24][25].

L'apertura di un nō da parte di una divinità permette di marcare la rottura con il quotidiano con un'opera di apparizione, nella quale vengono dispensate parole di buon augurio per la giornata. Lo spettatore diventa ben disposto per le parti seguenti e dunque il secondo nō può essere più complesso, poetico e ancorato alla tradizione: i nō dei guerrieri sono i più adatti a tale scopo. Per il terzo nō, che corrisponde al picco d'attenzione dello spettatore, è quello relativo alle donne e ha un forte valore estetico e tradizionale. Dopo questo, l'attenzione dello spettatore comincia a calare e per questo vengono recitate le opere connesse al mondo reale, poiché richiedono minore riflessione ed erudizione. Infine, il nō dei demoni permette, grazie al ritmo rapido e incalzante, di rigenerare lo spettatore stanco e di rimetterlo in una buona disposizione per il ritorno alla vita quotidiana. Questo è anche il motivo per cui il nō dei demoni preleva meno elementi dalle leggende e dai testi antichi rispetto alle altre opere nō d'apparizione. In questo modo termina una giornata tradizionale di nō[26].

I ruoli

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All'interno del nō esistono quattro tipi di ruoli diversi: gli attori principali (shite-kata), gli attori secondari (waki-kata), i ruoli per kyōgen (kyōgen-kata) e i musicisti (hayashi-kata)[27].

Un'opera nō ha sempre un ruolo principale, lo shite («colui che fa»), recitato da un uomo, che deve essere capace di interpretare ogni tipo di personaggio (vecchio, donna, guerriero, monaco...) e che al tempo stesso deve sapere danzare e cantare[28]. Nei nō d'apparizione, si trova spesso un solo attore. Quest'ultimo porta una maschera, salvo casi eccezionali di ruoli da giovane uomo o di opere sul mondo reale, e indossa i costumi più sontuosi, Lo shite subisce generalmente una trasformazione o una metamorfosi tra il primo e il secondo atto, come un dio o uno spirito che si rivela nella sua vera forma[29]. Nei nō del mondo reale è la situazione a subire un cambiamento radicale[30]. Lo shite può essere accompagnato da altri attori: gli tsure che accompagnano i canti, ma che non intervengono, salvo eccezioni, nel corso della rappresentazione, e i tomo, che recitano personaggi secondari, spesso i servitori dello shite. Tra gli attori c'è anche il ji, il coro che rappresenta sempre un personaggio, una voce, un sentimento e che prende momentaneamente il posto di un personaggio dell'opera; per esempio, nel secondo atto del nō d'apparizione, è spesso il coro che narra o commenta l'azione[31]. Infine, i kōken, che non recitano ruoli, ma essendo parte integrante dell'opera ne assicurano lo svolgimento, facendo sparire e apparire gli accessori necessari alla recitazione (ventagli, spade...)[32].

Il corrispettivo dello shite è il waki («colui che sta di lato»), che fa parlare e recitare lo shite e descrive i luoghi e le situazioni[33]. Stando sul lato della scena, serve da mediatore tra il pubblico e lo shite[34], soprattutto nel nō d'apparizione, alla stessa maniera dei deuteragonisti del teatro greco[35]. Nel nō onirico di spiriti o di fantasmi, il terzo atto è spesso un sogno del waki, mentre nel nō del mondo reale, il suo ruolo è quello di un personaggio d'azione[36]. Come lo shite, il waki è sempre un uomo in costume, ma senza maschera (eccetto per i ruoli femminili), che può interpretare tutti i tipi di personaggi a seconda della storia: monaco, aristocratico, guerriero, gente del popolo. Può essere accompagnato dai propri tsure, cioè dai suoi compagni. Il ruolo di waki è essenziale nel primo atto: egli è destinato a rivelare la forma dello shite, provocando la sua «trasformazione» nel secondo atto attraverso un dialogo. Una volta giunto a tale fine, egli esce dallo spettacolo e, nel nō d'apparizione, fa spesso finta di dormire fino all'ultimo atto, che si svolge come un sogno del waki[25][34]

In un'opera nō, gli attori del kyōgen intervengono nell'interludio per permettere allo shite di cambiare costume e maschera. Personaggi popolari entrano in scena per narrare le leggende legate ad un luogo, un personaggio o una divinità, spesso ma non necessariamente in maniera comica. Questi attori interpretano, sempre nel nō, anche personaggi secondari di bassa estrazione sociale, paesani, valletti ecc.[37]

La scena

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La scena, convenzionale dal 1700[38], è costruita sulla disposizione cinese: un quadrilatero quasi vuoto (ad eccezione del kagami-ita, il dipinto di un pino sul fondo della scena) aperto su tre lati tra pilastri di cedro che ne marcano gli angoli. Il muro a destra della scena è chiamato kagami-ita. Lì è collocata una piccola porta che permette l'entrata degli aiutanti di scena e del coro. Il palco, sopraelevato, è sempre sormontato da un tetto, anche per le scene di interno, e circondato da ghiaia bianca in cui sono piantati dei piccoli pini ai piedi dei pilastri. Sul palco si trova un sistema di vasi e ceramiche che amplificano i suoni durante le danze. I dettagli di questo sistema sono ad appannaggio delle famiglie di costruttori delle scene del nō[27].

L'accesso alla scena per gli attori avviene dallo hashigakari, una passerella stretta a sinistra del palco, dispositivo adattato poi nel kabuki nel cammino dei fiori (hanamichi). Considerato come parte integrante della scena, questo spazio è chiuso su un lato da una tenda di cinque colori. Il ritmo e la velocità dell'apertura di questa tenda conferiscono al pubblico indicazioni sull'ambientazione dello spettacolo. In questo momento l'attore non è ancora visibile ed effettua un hiraki verso il pubblico, poi si rivolge alla passerella e incomincia la sua entrata. In questo modo è già sulla scena prima di apparire al pubblico e il personaggio che interpreta inizia la passerella, lo hashigakari, che consente entrate spettacolari. Lungo questa passerella sono disposti tre pini di altezza decrescente: questi sono i punti di riparo utilizzati dall'attore, prima del suo arrivo sul palco principale[39].

Il pubblico è disposto di fronte al palcoscenico (butai) così come il ponte e il lato sinistro del butai. Osservato a 180 gradi, l'attore deve di conseguenza prestare particolare attenzione alla propria posizione. Le maschere restringono molto il suo campo visivo, quindi l'attore usa i quattro pilastri per ripararsi e il pilastro tra la passerella e il palco principale (chiamato il pilastro dello shite) per posizionarsi[39].

Kyōgen: teatro comico

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Drammaturgia e repertorio

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Il kyōgen («parole folli») è il teatro di registro comico fortemente legato al nō, poiché le opere del kyōgen vengono recitate tra un'opera di nō e l'altra nei programmi tradizionali. Dal periodo Edo, nel XVII secolo, il genere si stabilizza e viene codificato (principalmente grazie a Ōkura Tora-akira)[40] e, dopo essersi intrinsecamente legato al nō, divenne uno dei generi del teatro classico[41][42]. Questo genere trae ispirazione dalla vita quotidiana del popolo e dal realismo, senza rinunciare all'inserimento dello scherzo o della satira, ma evitando gli aspetti grossolani o scioccanti del sarugaku, che potrebbero infastidire gli spettatori raffinati delle giornate del nō[43]. Il kyōgen utilizza una vasta gamma di registri comici, come pure il linguaggio e la gestualità[44].

Il repertorio attuale del kyōgen è quantitativamente simile a quello del nō: circa duecento opere differenti. La maggior parte sono anonime, o il loro autore non è di grande rilevanza. In effetti, il kyōgen lascia molto spazio all'improvvisazione e ad una libertà di adattamento in funzione alle rappresentazioni[45]. Ciascuna troupe può dunque mettere in scena una versione diversa di una stessa opera, improvvisando su una versione di base, rivista secondo la sensibilità dell'autore. Solo a partire dal XVII secolo le opere kyōgen, o almeno le loro trame, sono trasposti su carta. Allo stesso modo, gli interludi (ai) delle opere nō interpretate da un attore di kyōgen non sono mai redatti. In questo senso, il genere è spesso paragonato alla commedia dell'arte in Europa. Gli archivi menzionano alcuni celebri autori di kyōgen dell'epoca medievale, per esempio Gen'e, direttore della scuola Ōkura[46].

Funzione e temi

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Tradizionalmente, vengono recitati quattro kyōgen tra i cinque nō contenuti nel programma di una «giornata di nō», che dura circa dieci ore. Essi sono finalizzati a rilassare lo spettatore prima della tensione emotiva che le opere del nō cercano di provocare, perché sarebbe certamente estenuante assistere a cinque spettacoli nō senza nessuna pausa. Questa è la ragione per cui il kyōgen è strettamente legato al nō e permette allo spettatore di apprezzare un'intera giornata di teatro[47].

Le categorie delle opere del kyōgen sono meno formalizzate di quelle delle opere nō e possono essere raggruppate in diverse maniere[48]: secondo i personaggi, l'origine provinciale, l'importanza del dialogo, la complessità dell'opera, l'uso delle maschere, ecc. Le scuole attuali di kyōgen dividono le loro opere essenzialmente in funzione al tipo di personaggi messi in scena (il signore, il paesano, il valletto, il monaco, la donna, i demoni...)[48]. In generale, i kyōgen più semplici sono buffonerie e prese in giro, senza trama, volte a far ridere il pubblico. Quindi sono opere comiche o di satira popolare, che si rifanno generalmente a stereotipi ben stabiliti e a personaggi del popolo: le liti tra coppie, i rapporti tra padroni e valletti, la derisione dei monaci benestanti. Nella loro forma di maggior successo, queste farse potevano diventare commedie semplici, recitate in più atti, ma sempre con una forte connotazione satirica e stereotipata. Più marginali i kyōgen che parodiavano le opere nō , riprendendone grottescamente i costumi e i personaggi. Sono da considerare anche spettacoli di canzoni e una dozzina di kyōgen inclassificabili[49]. Tuttavia, i kyōgen non sono caustici e impegnati, le troupe d'attori kyōgen dipendono da quelle di attori nō e recitano per divertire il suo pubblico, incluse le classi d'élite[50].

In generale, un kyōgen include due o tre personaggi. Lo shite (o omo) recita il personaggio principale, mentre gli ado i ruoli secondari, che rispondono più spesso allo shite[45]. Gli altri personaggi sono tutti koado, cioè ruoli sussidiari. L'attore di kyōgen declama distintamente il suo discorso, a differenza del nō, e i suoi gesti sono dinamici[37]. La mimica è espressiva e le maschere sono indossate raramente, ad eccezione delle parodie del nō[51].

Ningyō jōruri o bunraku : Teatro delle marionette

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Interpretazione di attori e marionette

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Il Ningyō jōruri o bunraku è spesso descritto come il teatro di marionette più avanzato nel mondo; la sua raffinatezza, le fonti letterarie e la sua poesia sono destinate non ai bambini, ma ad un pubblico di adulti[52].

Il bunraku unisce tre diverse forme artistiche: la manipolazione delle marionette o dei pupazzi, la narrazione e la musica. La misura delle marionette varia dal metro al metro e cinquanta e viene svolta da marionettisti perfettamente visibili nella scena. Il narratore, chiamato tayū, si occupa dei dialoghi, dei suoni e dei canti. Per gli spettacoli più lunghi, essendo questa un'attività molto faticosa, viene previsto l'utilizzo di vari tayū che si danno il cambio[53]. La musica d'accompagnamento è suonata con uno shamisen, mentre un coro canta in determinati passaggi lirici[54]. Il tayū ed il musicista sono entrambi visibili sulla scena, vestiti con costumi d'epoca Edo[55].

La manipolazione delle marionette si è evoluta durante la storia del bunraku. Inizialmente le marionette erano rudimentali, le braccia e la testa tenute insieme da bastoni, e chi le maneggiava rimaneva nascosto. Poi i marionettisti entrarono in scena ed iniziarono a maneggiare i pupazzi a livello facciale; questa tecnica permise loro un migliore controllo della testa e dei movimenti delle marionette. Il sistema di maneggio a tre marionettisti (un maestro aiutato da due assistenti vestiti e mascherati di nero[56]) comparso nel 1730, è la tecnica più evoluta e raffinata; essa richiede un perfetto coordinamento, regolato sulla respirazione del maestro, e il maneggio di pupazzi o marionette di grandi dimensioni che incantavano il pubblico dell'epoca[57]. La presenza di marionettisti sulla scena dona grande profondità alla gestualità, poichè sia i movimenti delle marionette che quelli degli uomini che le muovono partecipano all'espressione teatrale[58].

La recitazione tipica del bunraku è chiamata Gidayū-bushi, dal nome del suo inventore, Takemoto Gidayū (竹本 義太夫, 1651 – 1714). Questo stile mescola la canzone e la narrazione con molta enfasi al fine di trasmettere i sentimenti dei personaggi della storia, maschili e femminili[59][60].

Il narratore deve avere padronanza di tre tecniche di dizione: le parti parlate comuni nel teatro, le parti cantate o melodiche e le parti d'intermezzo che permettono le transizioni in un registro poetico[61]. Il volto del narratore sottolinea i sentimenti espressi nella scena[62]. L'armonia che nasce dalla sincronizzazione tra parole, gesti e musica, contribuisce alla raffinatezza estetica del bunraku[63].

Drammaturgia e temi

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Il repertorio del bunraku è il più "letterario" tra tutte le tipologie di teatro giapponese. Esso si divide in due categorie principali: i drammi storici che rievocano il passato (jidaimono), di stile tradizionale, e le tragedie borghesi (sewa-mono).

I drammi storici, i cui eventi si svolgono prima del periodo Edo, si basano su storie classiche, epopee e leggende narrate dai cantastorie medioevali, e spesso provengono dalla letteratura e dagli spettacoli nō. Ad esempio, molti eroi sono ripresi da testi come Heike Monogatari, Soga monogatari o dalla storia dei Quarantasette rōnin[64].

La seconda categoria, il teatro sociale, fu un'innovazione di Chikamatsu. Famoso per il suo "Suicidio d'amore a Sonezaki", messo in scena nel 1703, Chikamatsu si allontanò dal repertorio classico per rappresentare la vita privata e contemporanea dei borghesi, commercianti e mercanti[65][66]. Ancora oggi questa tipologia di spettacoli è considerata il capolavoro del drammaturgo. Tra i temi prediletti dal teatro sociale vi è il tragico doppio suicidio di due amanti il cui amore è reso impossibile dai vincoli sociali, l'adulterio, la criminalità e l'amore tra giovani appartenenti a diverse classi sociali[67].

I successori di Chikamatsu scrissero delle pièces che possono essere classificate in una terza categoria che mette insieme spettacoli storici e tragedie borghese, chiamata jidai-sewa mono[68].

Gidayū e Chikamatsu hanno dato al bunraku la sua struttura tradizionale, evolvendo sia il repertorio che il metodo in cui l'opera veniva narrata e cantata. Si ispirarono al nō per conferire la forma standard in tre o cinque atti, secondo il principio del jo-ha-kyū.[69] In genere, gli spettacoli storici (jidai-mono) sono rappresentati in cinque atti, mentre le tragedie borghesi (sewa-mono) in tre atti[70]. La struttura in cinque atti è così divisa: i primi due atti introducono i personaggi ed il contesto, il terzo atto, punto culminante dell'opera, è spesso segnato da un evento tragico che permette lo sviluppo dell'azione; il quarto atto viene rappresentato come una scena poetica di danza, creando così un'atmosfera dolce rispetto alla tensione del terzo atto; nel quinto atto è rappresentato il lieto fine. Nella divisione in tre atti, il ritmo è più movimentato: il primo atto introduce l'opera, nel secondo atto vi è lo sviluppo della storia, e il terzo atto culmina in un finale tragico[71][11]. Nonostante queste due strutture siano le più rappresentate, molti drammaturghi prima di Chikamatsu strutturavano le proprie opere in modo più complesso ed in tempi più lunghi, raggiungendo persino la divisione in dieci atti, spesso caratterizzati dalla presenza di scene coinvolgenti ma poco legate allo sviluppo della narrazione. Ogni atto si divide in tre parti chiamate kuchi (inizio), naka (sviluppo) e kiri (conclusione), seguendo il principio sopracitato del jo-ha-kyū[11].

La rappresentazione con le marionette accompagna la narrazione, fatta eccezione per le scene di danza, tradizionalmente durante le scene di viaggio (michiyuki) ispirate al nō. Questa tipologia di scene viene chiamata keigoto[72].

La scena

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La scena classica comprende due spazi scenici grandi ma poco profondi, situati uno davanti e l'altro dietro, leggermente sollevato: il primo spazio (funazoko), senza alcuna decorazione, serve per rappresentare l'esterno, mentre il secondo spazio (yatai, la scena principale) serve per ricreare l'interno; lo scenario include delle case aperte sulla parte anteriore, costruite su misura delle marionette. Davanti a questi due spazi vi è un palcoscenico che permette l'apertura del sipario. Sullo sfondo, ogni spazio è occupato da un grande fondale di legno, denominato tesuri, che nasconde le gambe inferiori dei burattinai e dà l'illusione che i burattini si muovano da terra. Infine, il cantore ed i suonatori di shamisen occupano un palco situato a destra dello scenario principale, dal punto di vista degli spettatori[73][74].

Kabuki: Drammi borghesi

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Drammaturgia ed interpretazione

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Il kabuki è una tipologia teatrale largamente influenzata dalla cultura borghese dei chōnin di epoca Edo, ma solamente dopo decenni dalla sua comparsa, legata ai quartieri del piacere, prende la sua forma sia di dramma che di grande spettacolo[75]. Come il nō ed il bunraku, il programma tradizionale di uno spettacolo kabuki comprende molti spettacoli rappresentati in una giornata. Inizialmente i drammaturghi impostavano una scena su cui gli attori improvvisavano liberamente[76]. Successivamente, quando il kabuki si sviluppò, le troupes teatrali cominciarono a coinvolgere gruppi di drammaturghi guidati da un maestro, che collaboravano tra loro per la scrittura di uno spettacolo completo, tenendo conto della censura, delle finanze e degli attori disponibili[10].

Ogni anno vengono scritte delle opere nuove: si parte da un canovaccio, spesso ripreso dal repertorio classico (Heike monogatari, Soga monogatari, Taiheiki[77]...), su cui i drammaturghi sviluppano una narrazione che tiene conto della loro sensibilità così come delle convenzioni e di altri fattori esterni[78]. Questi autori, probabilmente di classe chōnin, sono rimasti sconosciuti fino ai giorni nostri, fatta eccezione per maestri come Chikamatsu, Ichikawa Danjūrō I, Tsuruya Nanboku e Kawatake Mokuami[10]. Anche se il programma di una giornata kabuki segue il principio del jo-ha-kyū di Zeami, le pièces sono molto eterogenee, incorporano molte scene spesso non correlate alla trama ed i registri sono costantemente in evoluzione, dal comico al tragico e dal realismo al fantastico[79]. In realtà, uno spettacolo kabuki prende forma da episodi indipendenti, e ciò differisce dal teatro strutturato di Chikamatsu[80].

La recitazione degli attori kabuki, specializzati in una determinata tipologia di ruolo[81], è caratterizzata dai loro movimenti e dalle loro pose. Vi sono due tipologie di movimenti, ovvero due stili recitativi: aragoto (stile rozzo) e wagoto (stile dolce)[82]. La recitazione aragoto è caratterizzata da parole e gesti esagerati ed impetuosi, adatti al ruolo dei guerrieri; Ichikawa Danjūrō I è l'ideatore di questo stile, accentuato da un trucco suggestivo[83]. Il wagoto, reso famoso da Sakata Tōjūrō, predilige il realismo nell'interpretazione dell'attore, specialmente nelle tragedie borghesi[84].

Oltre a questi due stili, vi era anche l'arte dell'onnagata, personaggi femminili interpretati con grande realismo da attori travestiti. Un altro aspetto tipico del kabuki è rappresentato dalle pose esagerate (mie) o eleganti (kimari) assunte dall'attore per esprimere delle emozioni intense, con lo scopo di stupire il pubblico e marcare il picco della recitazione[85]. Il dialogo è poco presente nel kabuki, limitato alla descrizione dei sentimenti, poiché prende il sopravvento l'interpretazione degli attori, capace di tradurre «l'estrema tensione psicologica» tra i personaggi[86]. Una particolarità che distingue il kabuki dagli altri generi classici è la partecipazione attiva del pubblico, che con grida, approvazione ed applausi marca i momenti salienti e le pose esagerate (mie). Questo genere teatrale è una tipologia nata per intrattenere i borghesi[87].

Secondo quanto ideato da Chikamatsu, gli spettacoli kabuki possono essere divisi nelle stesse categorie del bunraku: gli spettacoli storici (jidai-mono) che trattano degli eventi e degli eroi del passato (precedenti al periodo Edo), e le tragedie borghesi (sewa-mono) contemporanee che mettono in scena personaggi anonimi della classe chōnin[25]. Nel kabuki si aggiunge una terza categoria: shosa-goto, spettacoli di danza di breve durata che legano due rappresentazioni drammatiche[34]. In particolare, il repertorio può essere diviso secondo l'origine delle opere: adattate al bunraku, adattate al nô o specifiche del kabuki[25]. Infine, le opere scritte in epoca moderna sono classificate separatamente, e fatte rientrare nel «nuovo kabuki» (shin kabuki)[34]. Prima di Chikamatsu, gli autori non esitavano ad integrare elementi contemporanei delle tragedie borghesi in un quadro storico antico, mettendo insieme jidai-mono e sewa-mono[88].

Scena e macchinari

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Nel XVII secolo i primi palcoscenici allestiti per le rappresentazioni kabuki erano simili per dimensioni (tre metri e sessanticinque) e la forma (quadrata con il tetto a frontone sostenuto da colonne) a quelli del teatro no; ne differiva il fondale, costituito da pannelli o stoffa colorata, in sostituzione del matsubane. Nel corso degli anni il palcoscenico si ampliò fino a coincidere con la grandezza dell'intero edificio teatrale. [89]

È ritenuto parte integrante della struttura scenica kabuchi l'hanamichi (letteralmente “cammino dei fiori”), una piattaforma in legno sopraelevata, larga circa un metro e mezzo, che attraversa interamente la platea, dal fondo al palcoscenico. L'hanamichi veniva utilizzato per le entrate e le uscite degli attori, ed era anche il luogo in cui il pubblico interagiva con gli attori, e gli ammiratori deponevano i doni (detti hana) offerti agli artisti preferiti.[90][91].

La rivelazione di un'identità segreta, la trasformazione di un personaggio, o la comparsa di altri protagonisti insoliti, come spettri o stregoni, costituiva il momento centrale della maggior parte dei repertori[92]; i modi per far apparire o sparire velocemente un attore si sono moltiplicati a partire dal XVIII secolo, con il ricorso a dispositivi di scena come botole (seri) o piattaforme che permettevano di far roteare tutto o una parte dello scenario[93].

Il mawari butai, il palco circolare e roteante, è stato sviluppato in epoca Kyōhō (1716–1735). Prende forma da una piattaforma circolare montata su ruote e posizionata sul palco. Successivamente questa tecnica venne migliorata con l'integrazione della piattaforma roteante all'interno dello stesso palcoscenico[94]. Se le luci sono a volte spente durante la rotazione, per consentire un cambiamento della scena (kuraten, rotazione nell'oscurità), nella maggior parte dei casi sono invece lasciate in funzione, e gli attori interpretano una scena di transizione durante la rotazione della piattaforma (akaten, rotazione alla luce). Come nel nō, gli assistenti di scena chiamati kōken intervengono durante lo spettacolo per portare via le decorazioni di scena non necessarie[95].

  1. ^ Tschudin 2011, p. 161
  2. ^ Zeami e Sieffert 1960, p. 15
  3. ^ Quillet 2010, p. 254-257, 265
  4. ^ Sieffert 1979, p. 21-23
  5. ^ Sieffert e Wasserman 1983, p.50
  6. ^ Sieffert e Wasserman 1983, p.45
  7. ^ Martzel 1982, p.133-134
  8. ^ Sieffert e Wasserman 1983, p.51
  9. ^ Sieffert e Wasserman 1983, p.53
  10. ^ a b c d Sieffert e Wasserman 1983, p.55 Errore nelle note: Tag <ref> non valido; il nome ":0" è stato definito più volte con contenuti diversi
  11. ^ a b c d Sieffert e Wasserman 1983, p.59-60 Errore nelle note: Tag <ref> non valido; il nome ":1" è stato definito più volte con contenuti diversi
  12. ^ Tschudin 2011, p. 201
  13. ^ Zeami e Sieffert 1960, p. 24-27
  14. ^ Rath 2006, p. 69-70
  15. ^ Leiter 2006, p. 310-311
  16. ^ Tschudin 2011, p. 193
  17. ^ Eric C. Rath, Warrior noh: Konparu Zenpō and the ritual performance of shura plays, in Japan Forum, vol. 18, n. 2, 2006.
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