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Paolo Afiarta (Paulus Afiarta in latino; ... – Ravenna, 773) è stato un funzionario e politico della Roma dell'VIII secolo. Figura influentissima presso le corti dei pontefici Stefano III e Adriano I, fu il maggior esponente del cosiddetto partito filolongobardo della Curia romana e protagonista di una serie di congiure e macchinazioni mirate ad aumentare l'influenza dei sovrani longobardi sul papato a discapito di franchi e bizantini.

Biografia modifica

Le esatte origini di Paolo Afiarta non sono note. Compare per la prima volta nelle fonti come cubicolario del Palazzo Lateranense durante il pontificato di Stefano III, un periodo di incertezza politica e di convulse lotte intestine che caratterizzò l'ambiente romano e curiale dopo il termine del dominio bizantino sul papato. La sua influenza sembra essere una delle cause del progressivo avvicinamento del pontefice al re dei Longobardi Desiderio e della sua crescente ostilità verso i maggiori oppositori di quest'ultimo, il primicerio Cristoforo e suo figlio Sergio, secundicerius notariorum. I due avevano dominato la scena politica romana negli ultimi anni ed erano in aperto contrasto con il sovrano longobardo sin dal 768, quando sventarono un suo tentativo di installare sul soglio pontificio un papa di sua scelta, facendo invece eleggere il già citato Stefano III.[1]

Paolo Afiarta, all’inizio del 771, invitò a sua volta Desiderio a Roma affinché discutesse con il papa delle iustitiae beati Petri da lui occupate (soprattutto in Emilia, Romagna e Marche) e di cui la Sede romana chiedeva la restituzione. A tale notizia Cristoforo e Sergio, ostili ai Longobardi, provvidero a rafforzare le difese cittadine con contingenti affluiti dalla Campania e dall’Umbria, sostenuti in ciò da Dodone, messo del re franco Carlomanno, il quale avversava possibili intese tra il regno longobardo e il Papato. Mentre Desiderio, accampatosi presso S. Pietro, avviava i colloqui con Stefano III, Cristoforo e Sergio, fatta irruzione nel palazzo del Laterano, tentarono di catturare Paolo Afiarta, accusandolo di voler consegnare la città ai Longobardi, e costrinsero lo stesso pontefice a giurare di non essere suo complice. Stefano riuscì a scagionarsi e a ottenere che Paolo Afiarta fosse risparmiato, ma l’episodio dovette convincerlo che la forza di Cristoforo e di Sergio rappresentava una limitazione della sua autorità, inducendolo a rifugiarsi a S. Pietro sotto la tutela di Desiderio, proprio come desiderava Paolo Afiarta. Il re pretese però l’eliminazione di Cristoforo e di Sergio quale condizione per proseguire il negoziato sulle iustitiae e Stefano inviò quindi dai due i vescovi Andrea di Palestrina e Giordano di Segni con l’ordine di presentarsi subito al cospetto del papa oppure di ritirarsi a vita claustrale. In seguito al loro rifiuto di obbedire molti sostenitori li abbandonarono, compreso il duca Grazioso, che pure era un loro parente; vistisi ormai perduti, Cristoforo e Sergio tentarono allora di consegnarsi al pontefice, ma vennero catturati dai Longobardi. Sembra che Stefano, le cui responsabilità nell’intera questione restano sfocate, insistesse per relegarli in monastero, ma Paolo Afiarta, una volta rientrato il papa in Laterano, convinse Desiderio a consegnarli nelle sue mani e, trascinatili alla porta di San Pietro, li fece accecare. Cristoforo, morì dopo tre giorni per le terribili ferite, mentre Sergio fu incarcerato nel palazzo del Laterano. La vicenda, che si chiuse entro il mese di marzo del 771, suscitò una vasta eco e mise ulteriormente in allarme i Franchi.

In una lettera indirizzata dal papa a Carlo Magno, forse ispirata da Paolo Afiarta, Cristoforo e Sergio vennero dipinti come dei cospiratori contro il pontefice, perciò castigati a buon diritto dal popolo romano fedele al proprio vescovo, mentre Desiderio era presentato come il protettore di Stefano III. Una versione opposta, raccolta dal Liber Pontificalis romano in chiave antilongobarda, asseriva invece che Desiderio, in odio a Cristoforo e Sergio per l’omicidio di Waldiperto, aveva dapprima corrotto Paolo Afiarta perché li facesse cadere in disgrazia agli occhi del papa e si era poi recato a Roma di persona per assicurarsi che fossero eliminati.

Stefano III morì nel 772, lasciando padrone della città Paolo Afiarta, il quale, imposta ormai la propria linea politica di alleanza con il re longobardo, si preoccupò di sbarazzarsi dei suoi nemici, esiliando o incarcerando quanti tra gli iudices de clero e gli iudices de militia reputava ostili e rimpiazzando, tra l’altro, il duca Grazioso con Giovanni, fratello di Stefano III; costui, con il defensor regionarius Gregorio e il cubicularius Calvulo (o Calvenzolo), figurava tra i suoi più fidati collaboratori. Appena pochi giorni prima del decesso del pontefice, Calvulo con due complici (il presbiter Lunissone e il tribunus Leonazio, entrambi di Anagni) aveva prelevato Sergio dalla sua cella in Laterano, lo aveva condotto lungo la via Merulana fino alla chiesa di S. Maria ad Praesepe, sotto agli archi dell’acquedotto Claudio, e qui lo aveva trucidato e sepolto di nascosto. Paolo Afiarta progettò anche di imporre come nuovo papa un individuo di suo gradimento, ma i romani, che lo avversavano per le epurazioni compiute, lo sospettavano di essere responsabile della scomparsa di Sergio e lo consideravano una longa manus dei Longobardi, scelsero invece Adriano I, membro di una famiglia dell’aristocrazia cittadina espressione di un orientamento politico opposto, filoimperiale e filofranco. Adriano evitò di entrare subito in conflitto con il potente Paolo Afiarta, cui concesse, anzi, la carica di nuova istituzione di superista, capo della casa militare del papa; allo stesso tempo, però, egli richiamò gli iudices che erano stati esiliati e fece liberare quelli in carcere. A Desiderio, che offrì la propria amicizia al nuovo pontefice per confermare il suo recente ascendente su Roma, Adriano replicò intimando la pronta restituzione delle iustitiae, promessa che mai era stata mantenuta; e quando il re cercò di aumentare la pressione spostando truppe in Emilia, il papa inviò in legazione a Pavia, nel marzo del 772, Paolo Afiarta, accompagnato dal sacellarius Stefano. Al fidato superista, di ritorno a Roma, il re affidò il delicato incarico di perorare presso il pontefice la causa dei figli del defunto Carlomanno, per evitare che il potere regio dei Franchi si concentrasse nelle mani del solo Carlo Magno. Tuttavia, durante l’assenza dall’Urbe di Paolo Afiarta, il papa aveva avviato un’inchiesta sulla scomparsa di Sergio risalendo a Calvulo, che aveva fatto i nomi, quali mandanti, di Paolo Afiarta, del defensor regionarius Gregorio e del duca Giovanni. I suoi complici Lunissone e Leonazio, interrogati sotto tortura, confessarono a loro volta, indicando il luogo dove era sepolto Sergio. Al termine di un pubblico processo, Lunissone e Leonazio vennero esiliati a Costantinopoli mentre Calvulo morì per le sevizie patite. Paolo Afiarta, giudicato il colpevole principale, fu arrestato a Rimini, su richiesta del papa, dall’arcivescovo di Ravenna Leone, mentre ritornava da Pavia. Leone, con iniziativa autonoma rispetto alle prescrizioni del pontefice, consegnò il prigioniero al consularis, il magistrato civile che esercitava la giurisdizione criminale nell’esarcato, e al termine di un pubblico esame Paolo Afiarta confessò i delitti a lui imputati. Adriano pretendeva che l’ingombrante superista fosse tradotto a Costantinopoli e colà detenuto, ma l’arcivescovo di Ravenna trattenne la lettera papale destinata all’imperatore e si rifiutò di far imbarcare il condannato in un porto delle Venezie, come suggerito dal papa, sostenendo che il duca venetico Maurizio avrebbe potuto usare Paolo Afiarta come pedina di scambio per il proprio figlio, che era nelle mani dei Longobardi. Un messo romano, il sacellarius Gregorio, diretto a Pavia, transitando per Ravenna ammonì Leone affinché non commettesse violenza alcuna contro Paolo Afiarta, che lo stesso Gregorio, a quel punto, avrebbe dovuto condurre con sé a Roma al ritorno. Ma, appena partito il sacellarius, Leone fece subito mettere a morte Paolo Afiarta, chiedendo a posteriori il consenso papale. Adriano, che non voleva figurare quale complice di un’eliminazione tanto sbrigativa, riversò tuttavia l’intera responsabilità del gesto sul presule ravennate, ribadendo che Paolo Afiarta avrebbe piuttosto dovuto essere trasferito a Roma e costretto alla penitenza.

La morte di Paolo Afiarta pose fine una volta per tutte al progetto di alleanza di Roma con il regno longobardo, facendo entrare stabilmente il papato nella sfera di influenza dei sovrani franchi.

Note modifica

  1. ^ Claudio Azzara, Paolo Afiarta, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 81, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2014.

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