Utente:Yuma/Documenti resistenza

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  • 1944: la "rivoluzione democratica" per Venturi

«Che cosa è la rivoluzione democratica? E' questo: le finalità del movimento non hanno da esser imposte dai partiti politici, ma scelte dalle masse stesse e tale scelta ha luogo non per voti di mozioni ideologiche (di cui le masse se ne fregano) ma per le forme di organizzazione che le masse in rivoluzione, in moto, si danno [...] L'operaio responsabile non mira realmente alla espropriazione dell'azienda a favore del proletariato, perché sa che non è possibile suddividere e spartire i beni dell'azienda fra i proletari [...] Quello che l'operaio responsabile vuole è che il profitto (frutto del suo lavoro, del suo sopralavoro direbbe Marx) non rimanga nelle mani del capitalista, ma sia a dispiszione e sia ripartito o investito nell'interesse dei lavoratori. Che cioè si realizzi attraverso nazionalizzazione, fiscalismo accentuato, interventi comunali, sindacati che impongono alti salri, consigli di fabbrica è teoricamente indifferente per l'operaio. (Prova ne è che in America, ove con gli alti salari glin operai ritengono ricevere parte sufficiente del profitto globale, esistono potentissimi sindacati operai ma non esiste aspirazione al socialismo). Se c'è una ragione per cui l'operaio europeo preferirà - come credo - i consigli di fabbrica, è che le altre strade sono già state battute senza grandi successi [...] Dunque il socialismo nostro è: controllo operaio sulla produzione e sulla distribuzione delle ricchezze, attuato dai consigli di fabbrica. Questa è una formula chiara, semplice, comprensibile. Ha il vantaggio di essere di immediata possibile applicazione, di poter realizzare il fronte unico dei lavoratori di qualsiasi tendenza ideologica e di qualsiasi categoria (operai, impiegati, ingegneri). Non presuppone neppure la conquista del potere politico, ma viceversa diventa esso leva per la conquista del potere politico, cioè per l'attuazione della rivoluzione democratica in campo politico. Infatti, il Congresso dei consigli di fabbrica (cittadino, regionale, nazionale) crea immediatamente l'esistenza di un potere popolare rivoluzionario, che si erge contro l'altro, il vecchio burocratico»

  • 1946: la "desistenza" secondo Calamadrei.

«La resistenza è stata, nei migliori, riacquisto della fede nell’uomo e in quei valori razionali e morali coi quali l’uomo si è reso capace nei millenni di dominare la stolta crudeltà della belva che sta in agguato dentro di lui. Si è scoperto così che il fascismo non era un flagello piombato dal cielo sulla moltitudine innocente, ma una tabe [marciume, piaga. NdY] spirituale lungamente maturata nell’interno di tutta una società, diventata incapace, come un organismo esausto che non riesce più a reagire contro la virulenza dell’infezione, di indignarsi e di insorgere contro la bestiale follia dei pochi. Questo generale abbassamento dei valori spirituali da cui son nate in quest’ultimo ventennio tutte le sciagure d’Europa, merita di avere anch’esso il suo nome clinico, che lo isoli e lo collochi nella storia, come il necessario opposto dialettico della resistenza: “desistenza”. Di questa malattia profonda di cui tutti siamo stati infetti, il fascismo non è stato che un sintomo acuto [...]. Ma oggi ci sembra di avvertire d’intorno a noi e dentro di noi i sintomi di un nuovo disfacimento. Ciò che ci turba non è il veder circolare di nuovo per le piazze queste facce note: il pericolo non è lì; non saranno i vecchi fascisti che rifaranno il fascismo. Che tornino in libertà i torturatori e i collaborazionisti e i razziatori, può essere una incresciosa necessità di pacificazione che non cancella il disgusto: talvolta il perdono è una forma superiore di disprezzo. No, il pericolo non è in loro: è negli altri, è in noi: in questa facilità di oblio, in questo rifiuto di trarre le conseguenze logiche della esperienza sofferta, in questo “riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato. [...] I partigiani? una forma di banditismo. I comitati di liberazione? un trucco dell’esarchia, i processi dei generali collaborazionisti si risolvono in trionfi degli imputati. [...] Finita e dimenticata la resistenza, tornano di moda gli “scrittori della desistenza”: e tra poco reclameranno a buon diritto cattedre ed accademie. [...] Dopo la breve epopea della resistenza eroica, sono ora cominciati, per chi non vuole che il mondo si sprofondi nella palude, i lunghi decenni penosi ed ingloriosi della resistenza in prosa. Ognuno di noi può, colla sua oscura resistenza individuale, portare un contributo alla salvezza del mondo: oppure, colla sua sconfortata desistenza, esser complice di una ricaduta che, questa volta, non potrebbe non esser mortale.»