Ningyō jōruri o bunraku : Teatro delle marionette

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Interpretazione di attori e marionette

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Il Ningyō jōruri o bunraku è spesso descritto come il teatro di marionette più avanzato nel mondo; la sua raffinatezza, le fonti letterarie e la sua poesia sono destinate non ai bambini, ma ad un pubblico di adulti[1].

Il bunraku unisce tre diverse forme artistiche: la manipolazione delle marionette o dei pupazzi, la narrazione e la musica. La misura delle marionette varia dal metro al metro e cinquanta e viene svolta da marionettisti perfettamente visibili nella scena. Il narratore, chiamato tayū, si occupa dei dialoghi, dei suoni e dei canti. Per gli spettacoli più lunghi, essendo questa un'attività molto faticosa, viene previsto l'utilizzo di vari tayū che si danno il cambio[2]. La musica d'accompagnamento è suonata con uno shamisen, mentre un coro canta in determinati passaggi lirici[3]. Il tayū ed il musicista sono entrambi visibili sulla scena, vestiti con costumi d'epoca Edo[4].

La manipolazione delle marionette si è evoluta durante la storia del bunraku. Inizialmente le marionette erano rudimentali, le braccia e la testa tenute insieme da bastoni, e chi le maneggiava rimaneva nascosto. Poi i marionettisti entrarono in scena ed iniziarono a maneggiare i pupazzi a livello facciale; questa tecnica permise loro un migliore controllo della testa e dei movimenti delle marionette. Il sistema di maneggio a tre marionettisti (un maestro aiutato da due assistenti vestiti e mascherati di nero[5]) comparso nel 1730, è la tecnica più evoluta e raffinata; essa richiede un perfetto coordinamento, regolato sulla respirazione del maestro, e il maneggio di pupazzi o marionette di grandi dimensioni che incantavano il pubblico dell'epoca[6]. La presenza di marionettisti sulla scena dona grande profondità alla gestualità, poichè sia i movimenti delle marionette che quelli degli uomini che le muovono partecipano all'espressione teatrale[7].

La recitazione tipica del bunraku è chiamata Gidayū-bushi, dal nome del suo inventore, Takemoto Gidayū (竹本 義太夫, 1651 – 1714). Questo stile mescola la canzone e la narrazione con molta enfasi al fine di trasmettere i sentimenti dei personaggi della storia, maschili e femminili[8][9].

Il narratore deve avere padronanza di tre tecniche di dizione: le parti parlate comuni nel teatro, le parti cantate o melodiche e le parti d'intermezzo che permettono le transizioni in un registro poetico[10]. Il volto del narratore sottolinea i sentimenti espressi nella scena[11]. L'armonia che nasce dalla sincronizzazione tra parole, gesti e musica, contribuisce alla raffinatezza estetica del bunraku[12].

Drammaturgia e temi

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Il repertorio del bunraku è il più "letterario" tra tutte le tipologie di teatro giapponese. Esso si divide in due categorie principali: i drammi storici che rievocano il passato (jidaimono), di stile tradizionale, e le tragedie borghesi (sewa-mono).

I drammi storici, i cui eventi si svolgono prima del periodo Edo, si basano su storie classiche, epopee e leggende narrate dai cantastorie medioevali, e spesso provengono dalla letteratura e dagli spettacoli nō. Ad esempio, molti eroi sono ripresi da testi come Heike Monogatari, Soga monogatari o dalla storia dei Quarantasette rōnin[13].

La seconda categoria, il teatro sociale, fu un'innovazione di Chikamatsu. Famoso per il suo "Suicidio d'amore a Sonezaki", messo in scena nel 1703, Chikamatsu si allontanò dal repertorio classico per rappresentare la vita privata e contemporanea dei borghesi, commercianti e mercanti[14][15]. Ancora oggi questa tipologia di spettacoli è considerata il capolavoro del drammaturgo. Tra i temi prediletti dal teatro sociale vi è il tragico doppio suicidio di due amanti il cui amore è reso impossibile dai vincoli sociali, l'adulterio, la criminalità e l'amore tra giovani appartenenti a diverse classi sociali[16].

I successori di Chikamatsu scrissero delle pièces che possono essere classificate in una terza categoria che mette insieme spettacoli storici e tragedie borghese, chiamata jidai-sewa mono[17].

Gidayū e Chikamatsu hanno dato al bunraku la sua struttura tradizionale, evolvendo sia il repertorio che il metodo in cui l'opera veniva narrata e cantata. Si ispirarono al nō per conferire la forma standard in tre o cinque atti, secondo il principio del jo-ha-kyū.[18] In genere, gli spettacoli storici (jidai-mono) sono rappresentati in cinque atti, mentre le tragedie borghesi (sewa-mono) in tre atti[19]. La struttura in cinque atti è così divisa: i primi due atti introducono i personaggi ed il contesto, il terzo atto, punto culminante dell'opera, è spesso segnato da un evento tragico che permette lo sviluppo dell'azione; il quarto atto viene rappresentato come una scena poetica di danza, creando così un'atmosfera dolce rispetto alla tensione del terzo atto; nel quinto atto è rappresentato il lieto fine. Nella divisione in tre atti, il ritmo è più movimentato: il primo atto introduce l'opera, nel secondo atto vi è lo sviluppo della storia, e il terzo atto culmina in un finale tragico[20][21]. Nonostante queste due strutture siano le più rappresentate, molti drammaturghi prima di Chikamatsu strutturavano le proprie opere in modo più complesso ed in tempi più lunghi, raggiungendo persino la divisione in dieci atti, spesso caratterizzati dalla presenza di scene coinvolgenti ma poco legate allo sviluppo della narrazione. Ogni atto si divide in tre parti chiamate kuchi (inizio), naka (sviluppo) e kiri (conclusione), seguendo il principio sopracitato del jo-ha-kyū[21].

La rappresentazione con le marionette accompagna la narrazione, fatta eccezione per le scene di danza, tradizionalmente durante le scene di viaggio (michiyuki) ispirate al nō. Questa tipologia di scene viene chiamata keigoto[22].

La scena

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La scena classica comprende due spazi scenici grandi ma poco profondi, situati uno davanti e l'altro dietro, leggermente sollevato: il primo spazio (funazoko), senza alcuna decorazione, serve per rappresentare l'esterno, mentre il secondo spazio (yatai, la scena principale) serve per ricreare l'interno; lo scenario include delle case aperte sulla parte anteriore, costruite su misura delle marionette. Davanti a questi due spazi vi è un palcoscenico che permette l'apertura del sipario. Sullo sfondo, ogni spazio è occupato da un grande fondale di legno, denominato tesuri, che nasconde le gambe inferiori dei burattinai e dà l'illusione che i burattini si muovano da terra. Infine, il cantore ed i suonatori di shamisen occupano un palco situato a destra dello scenario principale, dal punto di vista degli spettatori[23][24].

Kabuki: Drammi borghesi

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Drammaturgia ed interpretazione

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Il kabuki è una tipologia teatrale largamente influenzata dalla cultura borghese dei chōnin di epoca Edo, ma solamente dopo decenni dalla sua comparsa, legata ai quartieri del piacere, prende la sua forma sia di dramma che di grande spettacolo[25]. Come il nō ed il bunraku, il programma tradizionale di uno spettacolo kabuki comprende molti spettacoli rappresentati in una giornata. Inizialmente i drammaturghi impostavano una scena su cui gli attori improvvisavano liberamente[26]. Successivamente, quando il kabuki si sviluppò, le troupes teatrali cominciarono a coinvolgere gruppi di drammaturghi guidati da un maestro, che collaboravano tra loro per la scrittura di uno spettacolo completo, tenendo conto della censura, delle finanze e degli attori disponibili[27].

Ogni anno vengono scritte delle opere nuove: si parte da un canovaccio, spesso ripreso dal repertorio classico (Heike monogatari, Soga monogatari, Taiheiki[28]...), su cui i drammaturghi sviluppano una narrazione che tiene conto della loro sensibilità così come delle convenzioni e di altri fattori esterni[29]. Questi autori, probabilmente di classe chōnin, sono rimasti sconosciuti fino ai giorni nostri, fatta eccezione per maestri come Chikamatsu, Ichikawa Danjūrō I, Tsuruya Nanboku e Kawatake Mokuami[27]. Anche se il programma di una giornata kabuki segue il principio del jo-ha-kyū di Zeami, le pièces sono molto eterogenee, incorporano molte scene spesso non correlate alla trama ed i registri sono constantemente in evoluzione, dal comico al tragico e dal realismo al fantastico[30]. In realtà, uno spettacolo kabuki prende forma da episodi indipendenti, e ciò differisce dal teatro strutturato di Chikamatsu[31].

La recitazione degli attori kabuki, specializzati in una determinata tipologia di ruolo[32], è caratterizzata dai loro movimenti e dalle loro pose. Vi sono due tipologie di movimenti, ovvero due stili recitativi: aragoto (stile rozzo) e wagoto (stile dolce)[33]. La recitazione aragoto è caratterizzata da parole e gesti esagerati ed impetuosi, adatti al ruolo dei guerrieri; Ichikawa Danjūrō I è l'ideatore di questo stile, accentuato da un trucco suggestivo[34]. Il wagoto, reso famoso da Sakata Tōjūrō, predilige il realismo nell'interpretazione dell'attore, specialmente nelle tragedie borghesi[35].

Oltre a questi due stili, vi era anche l'arte dell'onnagata, personaggi femminili interpretati con grande realismo da attori travestiti. Un altro aspetto tipico del kabuki è rappresentato dalle pose esagerate (mie) o eleganti (kimari) assunte dall'attore per esprimere delle emozioni intense, con lo scopo di stupire il pubblico e marcare il picco della recitazione[36]. Il dialogo è poco presente nel kabuki, limitato alla descrizione dei sentimenti, poichè prende il sopravvento l'interpretazione degli attori, capace di tradurre «l'estrema tensione psicologica» tra i personaggi[37]. Una particolarità che distingue il kabuki dagli altri generi classici è la partecipazione attiva del pubblico, che con grida, approvazione ed applausi marca i momenti salienti e le pose esagerate (mie). Questo genere teatrale è una tipologia nata per intrattenere i borghesi[38].

Secondo quanto ideato da Chikamatsu, gli spettacoli kabuki possono essere divisi nelle stesse categorie del bunraku: gli spettacoli storici (jidai-mono) che trattano degli eventi e degli eroi del passato (precedenti al periodo Edo), e le tragedie borghesi (sewa-mono) contemporanee che mettono in scena personaggi anonimi della classe chōnin[39]. Nel kabuki si aggiunge una terza categoria: shosa-goto, spettacoli di danza di breve durata che legano due rappresentazioni drammatiche[40]. In particolare, il repertorio può essere diviso secondo l'origine delle opere: adattate al bunraku, adattate al nô o specifiche del kabuki[39]. Infine, le opere scritte in epoca moderna sono classificate separatamente, e fatte rientrare nel «nuovo kabuki» (shin kabuki)[40]. Prima di Chikamatsu, gli autori non esitavano ad integrare elementi contemporanei delle tragedie borghesi in un quadro storico antico, mettendo insieme jidai-mono e sewa-mono[41].

Scena e macchinari

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Nel XVII secolo i primi palcoscenici allestiti per le rappresentazioni kabuki erano simili per dimensioni (tre metri e sessanticinque) e la forma (quadrata con il tetto a frontone sostenuto da colonne) a quelli del teatro no; ne differiva il fondale, costituito da pannelli o stoffa colorata, in sostituzione del matsubane. Nel corso degli anni il palcoscenico si ampliò fino a coincidere con la grandezza dell'intero edificio teatrale. [42]

È ritenuto parte integrante della struttura scenica kabuchi l'hanamichi (letteralmente “cammino dei fiori”), una piattaforma in legno sopraelevata, larga circa un metro e mezzo, che attraversa interamente la platea, dal fondo al palcoscenico. L'hanamichi veniva utilizzato per le entrate e le uscite degli attori, ed era anche il luogo in cui il pubblico interagiva con gli attori, e gli ammiratori deponevano i doni (detti hana) offerti agli artisti preferiti.[43][44].

La rivelazione di un'identità segreta, la trasformazione di un personaggio, o la comparsa di altri protagonisti insoliti, come spettri o stregoni, costituiva il momento centrale della maggior parte dei repertori[45]; i modi per far apparire o sparire velocemente un attore si sono moltiplicati a partire dal XVIII secolo, con il ricorso a dispositivi di scena come botole (seri) o piattaforme che permettevano di far roteare tutto o una parte dello scenario[46].

Il mawari butai, il palco circolare e roteante, è stato sviluppato in epoca Kyōhō (1716–1735). Prende forma da una piattaforma circolare montata su ruote e posizionata sul palco. Successivamente questa tecnica venne migliorata con l'integrazione della piattaforma roteante all'interno dello stesso palcoscenico[47]. Se le luci sono a volte spente durante la rotazione, per consentire un cambiamento della scena (kuraten, rotazione nell'oscurità), nella maggior parte dei casi sono invece lasciate in funzione, e gli attori interpretano una scena di transizione durante la rotazione della piattaforma (akaten, rotazione alla luce). Come nel nō, gli assistenti di scena chiamati kōken intervengono durante lo spettacolo per portare via le decorazioni di scena non necessarie[48].

  1. ^ Andō 1970, p. 3
  2. ^ Sieffert 1983, p. 114
  3. ^ Sieffert 1983, p. 113
  4. ^ Andō 1970, p. 67-68
  5. ^ Bizet 2011, p. 87-117
  6. ^ Tschudin 2011, p.293-294
  7. ^ Barthes 1971, p. 76-80
  8. ^ Andō 1970, p. 97-98
  9. ^ Barthes 1971, p. 76-80
  10. ^ Tokita 2008, p. 205
  11. ^ Tschudin 2011, p. 252
  12. ^ Barthes 1971, p. 76-80
  13. ^ Sieffert 1983, p. 97-100
  14. ^ Leiter 2006, pp.346-347
  15. ^ Katō 1987, p.111
  16. ^ Tschudin 2011, p.281
  17. ^ Tokita 2008, p.202-203
  18. ^ Andō 1970, p.126-128
  19. ^ Leiter 2006, p.136-137,346-347
  20. ^ Andō 1970, p.126-128
  21. ^ a b Leiter 2006, p.74-77
  22. ^ Leiter 2006, p.176,226
  23. ^ Tschudin 2011, pp.252-255
  24. ^ Leiter 2006, pp.373,399-400
  25. ^ Katō 1970, p.236
  26. ^ Tschudin 2011, p.325
  27. ^ a b Tschudin 2011, p.326-330
  28. ^ Katō 1970, p.240
  29. ^ Tschudin 2011, p.330-348
  30. ^ Tschudin 2011, p.333
  31. ^ Katō 1970, p.237
  32. ^ Toita 1970, p.79-80
  33. ^ Toita 1970, p.75-76,108-109
  34. ^ Tschudin 2011, p.353-356
  35. ^ Tschudin 2011, p.356-358
  36. ^ Tschudin 2011, p.360-361
  37. ^ Katō 1970, p.238-240
  38. ^ Toita 1970, p.65-70
  39. ^ a b Tschudin 2011, p. 337-338
  40. ^ a b Leiter 2006, p. 304-305
  41. ^ Tschudin 2011, p. 330,348
  42. ^ Benito Ortolani, Il teatro giapponese. Dal rituale sciamanico alla scena contemporanea, a cura di Maria Pia D'Orazi, Roma, Bulzoni, 1998, p. 223.
  43. ^ Sieffert 1983, p. 147-151
  44. ^ Toita 1970, p. 86
  45. ^ Scott 1999
  46. ^ Tschudin 2011, p. 395-398
  47. ^ Sieffert 1983, p. 153
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Bibliografia

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