Con bad company (traducibile in "impresa cattiva") si indica di norma una società che non ha più liquidità per poter sopravvivere sul mercato e che viene utilizzata per poterle far assorbire le attività "sofferenti" e, contemporaneamente, far confluire le attività proficue nella società parallela detta good company ("impresa buona").[1]

Questa strategia viene solitamente utilizzata da società che nel passato hanno accumulato debiti (i cosiddetti “rami secchi”) e quindi possono fondersi (unione o incorporazione) con altre società e trasferirne i diritti e gli obblighi, come ad esempio quello relativo alle perdite fiscali avute prima della fusione. Tale strategia è lecita se ispirata da motivazioni giuste, mentre è negata in altri stati se motivata dall'elusione dell'onere tributario.[1]

Normativa in Italia

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In Italia l’articolo 172, comma 7 del testo unico delle imposte sui redditi (TUIR), prescrive alcune norme da rispettare per consentire tale operazione. Nel caso queste non siano superate, la società in questione verrà definita come una "bara fiscale".[1]

  1. ^ a b c bad company, su treccani.it, Dizionario di Economia e Finanza (2012). URL consultato il 13 ottobre 2018 (archiviato il 13 ottobre 2018).
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