Discussione:Richard Mervyn Hare

Ultimo commento: 9 anni fa, lasciato da Lsjbot in merito all'argomento Suggerimento di immagini

Nella seconda parte del paragrafo "Pensiero filosofico", non si capisce di chi siano i pareri contro Hare. Non vi sono nemmeno delle note bibliografiche riguardo ai suscritti pareri. Stando così le cose, credo che si tratti di POV bello e buono. Purtroppo non so mettere i template.Questo commento senza la firma utente è stato inserito da Cogitante (discussioni · contributi).

Il problema delle fonti ce l'ha tutta la voce in effetti e ho messo l'avviso. Ma riguardo alle critiche, mi pare che vengano fatti i nomi dei detrattori (Williams, Rawl, Sen, Nagel) --Bultro (m) 12:47, 23 feb 2010 (CET)Rispondi

Mi sono espresso male per la stanchezza. Avrei dovuto scrivere: non si capisce sempre di chi siano i pareri contro Hare. Tanto per tagliare la testa al toro e sbrigarci, sono di Sen i seguenti pareri?

In realtà, la risposta di Hare cerca forse di contrastare sul piano empirico e pratico delle obiezioni che hanno un carattere teorico, ossia che investono i presupposti della sua teorie etica: viene infatti messa in discussione la stessa idea della derivabilità dell’utilitarismo dal prescrittivismo. Si può notare a questo proposito come il welfarismo ed il consequenzialismo, da Hare ritenuti logicamente derivabili dal prescrittivismo universale, siano in realtà dei presupposti da lui introdotti in modo surrettizio per rendere cogente il suo utilitarismo della preferenza: non appare dunque possibile l’idea di un utilitarismo fondato su presupposti a priori, di carattere logico-linguistico. È come se il prescrittivismo universale da un lato e l’utilitarismo dall’altro, rimanessero come due elementi estranei e non interrelati. Per quanto riguarda il welfarismo, il problema è che, contrariamente alla premessa empirica assunta da Hare, non sempre agiamo per incrementare il nostro benessere o quello sociale, ma non è detto che se non facciamo questo, siamo immorali. La morale di Hare e in genere quelle teorie basate sulla soddisfazione di preferenze razionali, sembrano essere morali del “tutto o niente”, in quanto o il comportamento è pienamente morale oppure non lo è, senza considerazione per le situazioni intermedie ed imputando alla sola debolezza del volere l’azione non in linea con il prescrittivismo. Pertanto, un conto è sostenere che, a livello metaetico, abbiamo il dovere di enunciare principi prescrittivi logicamente coerenti, ossia universalizzabili; un altro è invece asserite che, a livello pratico, le sole preferenze accettabili, quelle che passano il test di universalizzabilità, sono quelle che incrementano il benessere: quello che ci impone l’ambito metaetico sussiste indipendentemente da quello che facciamo a livello pratico. In secondo luogo, non sempre agiamo scegliendo l’atto che produce le conseguenze migliori, anzi, a volte scegliamo di compiere certe azioni indipendentemente dai loro effetti, ma solo perché le riteniamo doverose. Hare pensa in realtà che gli effetti di un atto non sono il solo parametro di giudizio, giacché questo deve scaturire da un principio morale logicamente fondato, ossia valido di per sé. Se dunque atto “doveroso” significasse “capace di produrre gli effetti migliori”, Hare sarebbe un descrittivista, in quanto definirebbe un termine morale ricorrendo ad una proprietà non morale. In realtà, a livello formale, è fondamentale che la prescrizione in virtù della quale agiamo sia universalizzabile, ossia coerente con le regole d’uso del linguaggio morale. A livello pratico, invece, contano le conseguenze degli atti. Tuttavia, qui si apre una questione delicata: che valore possiede per Hare, alla fine, la razionalità di una prescrizione? Se infatti il suo valore è logico-linguistico, certamente quest’ultimo è intrinseco, ovvero indipendente dagli effetti che la prescrizione può produrre se messa in pratica, ma ciò vuol dire che per Hare “moralmente razionale” significa “coerente con le regole logiche” e che il livello pratico-normativo, per lui inevitabilmente consequenzialista, resta in secondo piano. In altre parole, il modello di ragione che Hare adotta, non sembra avere alcun valore strumentale o pratico, in quanto esclusivamente di carattere logico.

E sono di Nagel questi altri?

'La fondazione linguistica dell’utilitarismo sembra dunque gravata da una serie di problemi; d’altra parte, è molto dubbio pensare “che esiste un solo linguaggio della morale e un unico significato delle principali nozioni etiche”. La sensazione che si ha, cercando di guardare all’opera complessiva di Hare, è che la sua riflessione sia significativa per quel che riguarda il tentativo di definire il senso di un linguaggio della morale e lo statuto epistemologico dei suoi concetti. È importante altresì il contributo di Hare al superamento della prima fase della metaetica analitica, meno incline ad impegnarsi in enunciazioni normative, e la ricerca di un qualche fondamento universale alla morale. Tuttavia, i punti critici sono proprio legati a questo orizzonte essenzialmente logico-linguistico di ricerca che non appare in grado di fondare un sistema normativo. D’altra parte, se l’universalità è in primis una regola logica ed il criterio fondamentale per accettare un ragionamento morale è la sua coerenza logica, come è possibile indicare delle ragioni pratiche, strumentali, per motivare l’azione? Hare in realtà sembra distinguersi dall’utilitarismo contemporaneo, il quale tende a fornire all’agente delle ragioni di carattere strumentale per l’azione, in quanto le sue ragioni sembrano invece possedere esclusivamente un valore teoretico e perciò la sola motivazione che egli sembra poter fornire all’azione è di carattere logico. La teoria etica di Hare cerca allora di restituire autonomia all’etica, attraverso il suo affrancamento da modelli di spiegazione naturalistici e in particolare dalla convinzioni per cui gli enunciati dell’etica siano suscettibili di vero-falsità. La valorizzazione del modello di ragionamento morale e la separazione tra i due livelli del pensiero morale, sembrano però condurre Hare a rendere ancora più netta questa sua presa di distanza dall’orizzonte normativo, forse non nelle sue intenzioni, ma nei suoi risultati. L’opportunità di rifiutare qualsiasi riferimento, non solo ad elementi metafisici o naturalistici, ma pure a modelli di decisione morale anche solo parzialmente lontani dalla piena razionalità, conduce l’autore ad affidarsi ad un modello univoco di ragionamento, nel quale il ruolo degli elementi empirici sembra notevolmente ridimensionato. In altri termini, questi elementi non morali hanno certamente un’importanza, ma solo se vagliati dal pensiero razionale, ossia solo se il loro utilizzo ottiene il placet del pensiero critico, il quale in sostanza pare porsi come unico giudice della razionalità delle nostre intenzioni morali, ma sembra altrettanto impossibilitato a stabilire direttamente la piena razionalità delle nostre azioni morali.


Secondo me no. Altrimenti, chi ha scritto non è stato capace di farmelo capire.--Cogitante (msg) 23:56, 24 feb 2010 (CET)CogitanteRispondi

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Cordiali saluti, Lsjbot (msg) 23:07, 21 mar 2015 (CET)Rispondi

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