Lex Cornelia Sullae de sicariis et veneficis

La lex Cornelia Sullae de sicariis et veneficis fu una legge proposta nell'81 a.C. dal dittatore Silla per ridisciplinare la materia del crìmen homicidii, crimine variamente disciplinato in diritto romano (fino al II sec. a.C. veniva ancora chiamato parricìdium).[1] La legge istituiva un tribunale allo scopo per questi crimini, la quaestio de sicariis et veneficis. Tra le altre disposizioni, la lex Cornelia prevedeva il divieto di aborto volontario per le donne (in quanto sottoposte giuridicamente al pater familias) e il divieto di circoncisione erga omnes, eccetto per gli Ebrei, che va inteso come restrizione verso forme di religione privata.

Lex Cornelia Sullae de sicariis et veneficis
Senato di Roma
TipoLegge
Nome latinoLex Cornelia Sullae de sicariis et veneficis
AutoreLucio Cornelio Silla
Anno81 a.C.
Leggi romane

Descrizione modifica

La legge colpiva:

  • chi, in città o entro un miglio da essa, andava attorno armato a scopo di ledere le persone o la proprietà;
  • l'omicidio e il tentativo di omicidio, senza distinzione tra libero o servo (il testo originario della Lex Cornelia non comprendeva una norma specifica riguardante l'uccisione dello schiavo, ma questa era stata ricavata tramite interpretazione giurisprudenziale[2]);
  • chi preparava, vendeva, comprava, deteneva o somministrava un venenum malum necandi hominis causa e forse anche chi praticava arti magiche; in seguito la si applicò all'aborto volontario, alla castrazione e alla circoncisione, tranne che gli Ebrei;
  • chi appiccava dolosamente incendio;
  • il magistrato o judex quaestionis che accogliendo coscientemente una falsa testimonianza o lasciandosi corrompere o violando la legge, procurava la morte di un innocente. La responsabilità era – conforme all'ordinamento sillano – limitata ai giudici di rango senatorio;
  • chi, con la falsa deposizione, determinava una condanna a morte.

Un premio spettava all'eventuale accusatore.

Per le varie fattispecie di omicidio o di tentato omicidio, la lex Cornelia de sicàriis et venèficis stabilì la pena dell’interdìctio aqua et igni, una delle pene previste dal diritto penale romano e, nella Roma delle origini, dalla legge delle XII tavole, come conseguenza di delitti particolarmente gravi. Tale pena consisteva nell'allontanamento coatto e definitivo dal territorio romano: coloro che la subivano, pertanto, non potevano più rientrare in patria. Nel caso in cui varcavano i confini di Roma, non solo non riacquistavano la soggettività giuridica, ma potevano essere impunemente aggrediti da qualsiasi cittadino, mentre in periodo classico subivano la pena pubblica della deportatio in insulam (deportazione in una località isolata che comportava la perdita dello status civitatis e la confisca dei beni, totale o parziale).

La connessione dell’interdìctio aqua et igni con la pena di morte è evidenziata dal fatto che, per taluni delitti, al condannato era attribuito un particolare beneficio, detto iùs exìlii, consistente nella facoltà di sottrarsi all'esecuzione della pena di morte, sottoponendosi volontariamente all’interdìctio aqua et igni. In correlazione con tale facoltà, sta la distinzione terminologica (talora riscontrabile nelle fonti) tra: interdìctio aqua et igni in senso stretto (esilio coatto) ed exilium (esilio volontario, accettato nell'esercizio del iùs exìlii).

Dall'ambito applicativo dell’interdìctio aqua et igni esulò la particolare ipotesi dell'uccisione del proprio pater o di propri congiunti (parricìdium), punita con la pœna cùllei (temutissima pena inflitta al soggetto che si era reso responsabile di parricìdium), crimine consistente, in origine, nell'uccisione di un pater familias (in seguito di un qualsiasi patrizio): il colpevole veniva chiuso in un sacco di cuoio insieme ad una vipera, ad un cane, ad un gallo e ad una scimmia, e gettato nel Tevere.

La pœna cùllei, tipica dell'età arcaica e successivamente caduta in disuso, venne ripristinata da Augusto nei confronti dei soggetti resisi colpevoli di delitto nei confronti del proprio pater familias (parricidium in senso stretto).

Nel 55 a.C., con l'emanazione della lex Pompeia de parricidio si stabilì che al parricida dovesse applicarsi la stessa pena irrogata, per l'omicida, dalla lex Cornelia de sicàriis et venèficis, e cioè l’interdìctio aqua et igni, in sostituzione della pœna cùllei[3].

Note modifica

  1. ^ Un passo del giurista Marciano (libro XIV delle Institutiones), tramandato nei Digesti di Giustiniano, illustra la lex Cornelia de sicariis:
    (LA)

    «Lege Cornelia de sicariis et veneficis tenetur, qui hominem occiderit: cuiusve dolo malo incendium factum erit: quive hominis occidendi furtive faciendi causa cum telo ambulaverit: quive, cum magistratus esset publicove iudicio praeesset, operam dedisset, quo quis falsum iudicium profiteretur, ut quis innocens conveniretur condemnaretur. 1. Praeterea tenetur, qui hominis necandi causa venenum confecerit dederit: quive falsum testimonium dolo malo dixerit, quo quis publico iudicio rei capitalis damnaretur: quive magistratus iudexve quaestionis ob capitalem causam pecuniam acceperit ut publica lege reus fieret. 2. Et qui hominem occiderit, punitur non habita differentia, cuius condicionis hominem interemit.»

    (IT)

    «È tenuto dalla legge Cornelia sugli assassini e gli avvelenatori colui che avrà ucciso un uomo; colui che avrà provocato un incendio con dolo malvagio; chi sarà andato in giro con un’arma per uccidere un uomo o compiere un furto; chi, essendo magistrato o presiedendo un processo pubblico, si sia adoperato perché fosse pronunciato un falso giudizio al fine di far accusare e condannare un innocente. 1. È inoltre tenuto chi ha preparato e dato un veleno allo scopo di uccidere un uomo; colui che ha reso una falsa testimonianza con dolo malvagio allo scopo di far condannare qualcuno in un giudizio capitale; colui che, essendo magistrato o giudice in un tribunale criminale, abbia ricevuto denaro perché qualcuno fosse condannato in base alla legge pubblica. 2. E colui che avrà ucciso un uomo, viene punito senza che vi sia differenza circa la condizione dell’uomo ucciso.»

  2. ^ Tale interpretazione ricomprende nel termine homo anche il servus, come riportato dall'esame di frammenti di Marciano, sopra in parte riportati, e attentamente analizzati dal professore M. Miglietta
  3. ^ Molti studiosi, nel corso degli anni, hanno valutato la portata della lex Cornelia sulla disciplina del parricidio: si sono interrogati se Silla avesse mantenuto invariata la legislazione precedente, inflessibile nell'esecuzione della pena capitale del condannato, o se avesse invece esteso ai parricidi la possibilità, riconosciuta agli altri omicidi, di sottrarsi alla condanna con l'esilio, come pare doversi evincere da questo passo di Cicerone:
    (LA)

    «[Chrysogonus] “sese hoc incolumi non arbitratur huius innocentis patrimonium tam amplum et copiosum posse obtinere, damnato et eiecto sperat se posse quod adeptus est scelus, id per luxuriam effundere atque consumere.»

    (IT)

    «Finché costui è illeso, [Crisogono] sa di non poter ottenere il patrimonio, così ricco e copioso, di quest’innocente: ma una volta che egli sia stato condannato e eiecto, spera di poter spendere e spandere a profusione quanto s’è guadagnato col delitto»

    Crisogono e i suoi complici vogliono quindi ottenere la condanna di Roscio per potersi godere impunemente il ricco patrimonio dell'accusato: l'esito di questa condanna è espressa dal participio eiecto, al quale la communis opinio attribuisce il significato di ‘esiliato, costretto all'esilio. In tal caso Cicerone sorvolerebbe sul culleus destinato per legge ai rei di parricidio per citare direttamente la concreta conseguenza della condanna per parricidio, cioè l'esilio volontario da Roma per evitare l'esecuzione capitale.
    Il problema è stato recentemente affrontato, in una densa nota, da Mariangela Ravizza, che attraverso un riesame analitico delle fonti ha proposto una nuova interpretazione del succitato passo ciceroniano, esprimendo di conseguenza seri dubbi sul fatto che, nel regime sillano, il reo di parricidio nei cui confronti fosse stata pronunciata una sentenza di condanna avesse la possibilità, al pari dei condannati per ogni altro tipo di omicidio, di evitare la morte andando in esilio.
    Secondo Monica Negri, autrice del saggio "Il ‘giovane’ Cicerone e la lex Cornelia de sicariis et veneficiis e la datazione del De inventione", tale interpretazione non manca di suscitare alcune perplessità. La studiosa nel suo saggio cerca di indagare il senso in cui l'espressione damnato et eiecto poté essere concepita e recepita nel contesto dell'orazione pro Roscio. Il punto fermo da cui partire è, a suo avviso, la constatazione che il termine eiecto indichi l'esito della damnatio di Roscio. La Negri cerca di analizzare la polisemia e l'intensità del verbo eicere. Apportando ricche argomentazioni giunge a tale conclusione: l'icastica espressione damnato et eiecto, concepita per imprimersi a chiare lettere nella mente degli ascoltatori, non rappresenta una formula tecnica e giuridica per designare l'esilio, bensì costituisce un nesso stilistico di grande qualità ed effetto per alludere alla sorte estrema del condannato al culleus e alla sua progressiva, forzosa esclusione da tutto ciò che è connaturato all'essere umano e più riconoscibilmente lo qualifica: la casa, la famiglia, la proprietà, la patria, la vita, la tomba.

Bibliografia modifica

  • ATHENAUM, Il ‘giovane’ Cicerone, la Lex Cornelia de sicariis et veneficiis e la datazione del De Inventione, a cura di NEGRI M., Como, Editrice New Press, 2007, pp.183-201.
  • DEL GIUDICE F., BELTRANI S., Nuovo dizionario giuridico romano, Napoli, Esselibri-Simone, 1995.
  • PANI M., TODISCO E., Storia romana dalle origini alla tarda antichità, Roma, Carocci, 2008, pp. 172-172.
  • ROTONDI G., Leges publicae populi Romani: elenco cronologico con un'introduzione sull'attività legislativa dei comizi romani, Hildesheim, Olms, 1962, pp. 352-359.

Voci correlate modifica

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