Libertà religiosa: differenze tra le versioni

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La '''libertà religiosa''' è la libertà di cambiare religione o di non professarne alcuna, di manifestarla nell'insegnamento, nella pratica, nell'adorazione e nell'osservanza, conservando gli stessi diritti dei cittadini che hanno fede differente. Comprende quindi anche il diritto, per i gruppi religiosi, di testimoniare e diffondere il proprio messaggio nella società, senza per questo essere oggetto di disprezzo o di persecuzione.
 
La prima attestazione di una legge che sancisse la libertà religiosa è forse il dodicesimo [[Editti di Aśoka|editto di Asoka]], che risale al 250 a.C. circa e dice:
''Sua Maestà il re santo e grazioso rispetta tutte le confessioni religiose, ma desidera che gli adepti di ciascuna di esse si astengano dal denigrarsi a vicenda. Tutte le confessioni religiose vanno rispettate per una ragione o per l'altra. Chi disprezza l'altrui, abbassa il proprio credendo d'esaltarlo.''
 
Nell'Europa occidentale il primo documento legislativo emesso sulla libertà religiosa è l'editto di Milano, emanato dagli imperatori Costantino I e Licinio nel febbraio 313, con cui si concedeva libertà di culto ai cristiani e a tutte le altre religioni.
 
Dopo le guerre di religione, il riconoscimento del principio [[Cuius regio, eius religio]] offrì, nella pace di Augusta, una prima tutela di diritto internazionale alla libertà di religione, consacrato poi nella pace di Westfalia.
 
Nel costituzionalismo moderno, il riconoscimento della separazione tra Stato e Chiesa è contenuto per primo nell'emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d'America.
 
== Tutela internazionale ==
 
Le Nazioni Unite hanno tutelato espressamente la libertà religiosa nell'art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani<ref>Per approfondimenti, cfr. Brian J. Grim, Roger Finke, ''The Price of Freedom Denied: Religious Persecution and Conflict in the 21st Century'', Cambridge University Press, 2011.</ref>.
 
A livello convenzionale europeo, va rilevato come il principio della libertà religiosa sia scrutinato nella sentenza ''Refah Partisi (Parti de la prospérité) e altri v. Turchia''<ref>ECHR, 13 febbraio 2003 della Gran Camera, conf. Sezione Refah Partisi et Autres c. Turquie, del 31.7.2001, §§ 36 e ss.</ref>, con cui la [[Corte europea dei diritti dell'uomo]] respinse il ricorso contro lo scioglimento del Refah Partisi, perché esso non poteva essere considerato una violazione degli artt. 9, 10, 11, 14, 17, 18 della Convenzione e degli artt. 1 e 3 del Protocollo n. 1 della stessa: un partito che viola nei fatti principi democratici essenziali (nello specifico la laicità dello stato, in quanto ingrediente essenziale del pluralismo politico) non possa avvalersi della protezione della Convenzione. In particolare, lo scioglimento era avvenuto dopo che il Procuratore generale aveva accusato il Refah di essere il centro nevralgico di attività contrarie al principio del secolarismo. Attività, peraltro, costituite esclusivamente da dichiarazioni pubbliche, rilasciate dal Presidente del partito o da altri esponenti, a favore dell'instaurazione di una pluralità di sistemi giuridici basati sulle diverse credenze religiose, in particolare del regime della legge islamica (sharia) alla comunità musulmana. Per la Corte europea «non si ha una democrazia laddove la popolazione di uno stato, anche a maggioranza, rinuncia ai suoi poteri legislativo e giudiziario a vantaggio di una entità che non è responsabile davanti al popolo che essa governa, sia che questa entità sia laica o religiosa»<ref>Stefano Ceccanti e Diletta Tega, "Protezione della democrazia dai partiti antisistema: quando un'esigenza può diventare un'ossessione", in A. Di Giovine (a cura di), ''Democrazie protette e protezione delle democrazie'', Torino, Giappichelli 2005, pp. 37-74. sostengono che la Corte stima che il modello di società propugnato dal Refah Partisi da un lato costringa gli individui a obbedire, non alle regole poste dallo Stato nel suo ruolo di garante dei diritti individuali e del libero esercizio delle credenze religiose in una società democratica, ma a disposizioni statiche imposte dalla religione di riferimento, sgretolando così il principio del primato del diritto, e che dall'altro crei un sistema diffuso di discriminazioni in base al quale ciascun individuo viene trattato in modo differente a seconda della religione in cui si riconosce. Tali ricadute sono contrarie al dettato della Cedu e, più in generale, alla garanzia del principio democratico (§ 70).
Le Nazioni Unite hanno tutelato espressamente la libertà religiosa nell'art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
In secondo luogo l'applicazione della sharia è radicalmente incompatibile con i valori proclamati nella Cedu, in particolare per quanto riguarda la legge penale, lo status giuridico delle donne e la sua pervasività nella vita privata dei singoli. Di conseguenza, benché le affermazioni pubbliche dei leaders del partito non paiano costituire una minaccia reale alla laicità della Repubblica turca, la Corte ritiene che dimostrino il fine, inconfessato, di affermare un regime basato sulla sharia (§ 72 e 73).
In terzo luogo il fatto che non ci sia mai stata una netta condanna da parte dei leaders dei numerosi riferimenti ai benefici effetti della cosiddetta ''guerra santa'' (jihad), avanzati da alcuni membri del partito, per quanto mai formalizzati in documenti ufficiali, dimostra un'ambiguità pericolosa. La tolleranza che la società deve dimostrare nei confronti di condotte aggressive termina laddove tali condotte arrivano a negare la libertà religiosa degli altri consociati. Il peso politico del partito, che contava al momento dello scioglimento quasi un terzo dei seggi all'Assemblea nazionale, e l'essere già stata la Turchia, prima della rivoluzione, un regime teocratico, sono dati che spingono la Corte a ritenere che quelle che sono per il momento solo affermazioni possano realmente trasformarsi in comportamenti concludenti. (§ 77).</ref>.
 
== Situazione in Italia ==