Bianca Giovanna Sforza: differenze tra le versioni

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Come si evince dal diploma in data 8 novembre [[1489]] a firma autografa di suo cugino, il duca [[Gian Galeazzo Maria Sforza|Gian Galeazzo Maria]], il quale concedeva la facoltà di legittimare “''Dominam Johannam Blancam”'' al duca palatino Nicolò Gentili, il vero nome della primogenita di Ludovico il Moro era Giovanna, ma veniva da tutti chiamata col secondo nome di Bianca. Stante la consuetudine, è giustificato appellarla col secondo nome Bianca.
 
''' '''Il 14 dicembre 1489, il Moro – prima delle nozze con [[Beatrice d’Este]] - legittimava la figlia Bianca nel [[Castello Sforzesco (Vigevano)|castello di Vigevano]], col ministero del notaio Antonio Zunico. '' ''Contestualmente all’atto di legittimazione, lo Sforza prometteva in sposa la figlia a Galeazzo Sanseverino, le prestigiose contee di Bobbio e Voghera ede ladella signoria di Castel San Giovanni e della Val Tidone. Nel rogito del notaio Antonio Zunico è detto espressamente che il Moro, duca di Bari, prometteva “all’illustre potente marchese e militare signor Galeazzo Sforza Visconti di San Severino etc. la predetta sua amatissima figlia per via di sponsali, con l’intento di dargliela in sposa non appena raggiungeva l’età legittima”''.'' Circa un mese dopo, il dieci di gennaio 1490, nel castello di porta Giovia in Milano, “''magnifico ac solemni apparatu”'' Galeazzo celebra gli sponsali con la piccola Bianca.
 
Infine il 20 giugno 1496 il Moro aveva acconsentito che avvenisse per Bianca la “trasductio ad maritum”, atto definitivo delle pratiche matrimoniali.
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L’ambivalente passo del Muratori, già sottolineato da Alessandro Giulini, è stato vagliato nella ricostruzione storica operata da Carla Glori in relazione alla sua tesi che identifica la Gioconda in Bianca Sforza, ritratta nel castello che fu roccaforte vermesca con alle spalle lo sfondo di Bobbio; più precisamente l’identificazione del volto di Bianca riguarda il ritratto di fanciulla sottostante quello del Louvre, ricostruito con buona approssimazione da Pascal Cotte e pubblicato su scala planetaria nel dicembre 2015.
 
In base alle ricerche d‘archivio effettuate dallo storico vogherese Fabrizio Bernini (profondo conoscitore della storia della famiglia Dal Verme e autore di importanti libri in materia), Francesca Dal Verme risultava essere la figlia naturale di Pietro Dal Verme, avuta – come il fratello Francesco – da una donna di bassa estrazione sociale. Entrambi i figli, Francesco e Francesca, (di cui non compaiono citazioni nel Litta e in altri archivi nobiliari in quanto illegittimi ed espropriati), furono affidati alla vedova Clara Sforza con appannaggio ducale dopo l’avvelenamento di Pietro, ed è plausibile che covassero profondi rancori verso lo Sforza. In particolare la studiosa – sottolineando che la confessione fu fatta dalla stessa Francesca in prossimità della morte e non fu segreta, (poiché il Muratori usa il termine “propalò”), evidentemente con l’intento di fare in modo che la notizia si diffondesse e venisse raccolta - sottolinea la connessione biografica e simbolica di Francesca Dal Verme con la roccaforte bobbiese che fu di suo padre Pietro, proiettando il “giallo storico” anche sulla mitica Gioconda. Circa lo sfondo bobbiese, la donazione ai due sposi dei territori di Bobbio e Voghera e della vicina Val Tidone si legava a un preciso disegno strategico di possesso e difesa militare di un territorio logisticamente importante in cui il [[Castello Malaspiniano (Bobbio)|Castello Malaspina-Dal Verme]] costituiva il nodo cruciale, in quanto roccaforte e crocevia verso Genova e il mare. Per altro verso l’investitura su quelle terre fatta a Bianca e al marito adombrava forse da parte del Moro una più segreta logica affettiva: Galeazzo, marchese di Castelnuovo Scrivia e signore della val Tidone e Bianca Signora di Bobbio e Voghera risultavano così insediati in prossimità di Tortona, ove la madre Bernardina era accasata con un Gentili, originario appunto di Tortona.
 
Alfine – pur nella confusa trama che delinea - la chiamata in causa fatta dal Muratori di Francesca Dal Verme quale rea confessa, attesta di un intrigo cortigiano oscuro e pressoché impenetrabile dietro la morte della figlia del Moro, e rende plausibile l’ambientazione del ritratto della “Gioconda-Bianca” nel castello bobbiese, che fu dell’espropriato Pietro Dal Verme.