Scipione Ammirato: differenze tra le versioni

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Sin dal 1591 Ammirato cominciò la composizione dei ''Discorsi''. « Quando io posi mano a questa impresa, scrisse egli stesso a monsignor Ferrante Taverna, non mi feci da capo, ma secondo mi abbatteva a cosa che mi piacesse o che mi paresse opportuna ad insegnare a chi sapea meno di me n'andai facendo tanti (discorsi), che parendomi che fossero un giusto libro, li vo ora rimettendo nel lor libro secondo l'ordine dei libri del medesimo autore; il che quando sarà finito, sarà facil cosa ch'io lo dia fuora, se così ne sarò da' severi giudici confortato ».<ref>Cfr. ''Opuscoli'' dell'Ammirato, II, p. 495. — La lettera al Taverna non ha data, ma dev'essere stata scritta verso il 1591: l'Ammirato gli manda il discorso su quel luogo del IV libro di Tacito: « Destrui fortunam suam Caesar. »</ref>
 
È lo stesso Ammirato a spiegare per quale ragione abbia scelto Tacito come maestro del futuro principe; perché è il pittore più ampio ed accurato del principato romano e perché la sua opera è tra le mani di tutti. « L'autor nostro, egli scrive, ci dimostra qual sono le vere arti del dominare, utilissime non meno a' signoreggianti, che a' signoreggiati et di tanta sicurezza, che niuna altra cosa può esser maggiore, come confesserà ciascuno che punto vi applica l'animo ».<ref>Discorso XX, 9.</ref> Oltre a Tacito Ammirato fece ampio ricorso alle opere di [[Tito Livio|Livio]], [[Gaio Giulio Cesare|Cesare]], [[Cassio Dione]], [[Plutarco]], [[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]], [[Platone]] e [[Senofonte]].<ref>{{Cita libro|autore=[[Rodolfo De Mattei]]|titolo= Il pensiero politico di Scipione Ammirato: con discorsi inediti|anno=1963|editore=[[Giuffrè Editore]]|pp=10-11|citazione=Non vi è storico che non riscuota rispetto, credito e onor di citazione da parte dell'Ammirato. Gli son familiari i testi di Tucidide, di Senofonte, di Polibio, di Plutarco, di Sallustio, di Cesare, di Svetonio, di Appiano, di Dione, di Erodiano, nonché dei Villani, senz'accennare al citatissimo e ammiratissimo Guicciardini, e allo stesso Machiavelli. Ma, come si è detto, il testo storico di cui farà tesoro ai fini del suo commento è Tacito.}}</ref>
 
Nei ''Discorsi '' Ammirato sostiene che la ragione di stato "''altro non essere che contraventione di ragione ordinaria per rispetto di publico beneficio, overo per rispetto di maggiore e più universal ragione''".<ref>{{cita web|url=http://www.filosofia.unina.it/ars/aammira.html|titolo= Scipione Ammirato|accesso=1 giugno 2019}}, p. 179</ref> Egli riteneva che il monarca, o il reggitore delle sorti dello stato, fosse provvisto di una ''plenitudo potestatis'', sebbene dovesse essere saggio ed esemplare, consapevole dei suoi doveri.<ref name="DBI" /> Ammirato in ultima istanza riteneva che la ragion di Stato fosse solo una deroga agli [[ordinamento giuridico|ordinamenti]] vigenti, in casi particolari in cui fosse a repentaglio l'esistenza stessa dello Stato, ma non una deroga alle [[Etica|leggi naturali]] o divine. In altri termini, esiste a suo giudizio una ragione di stato non arbitraria (''dominationis flagitia''), ma rispettosa del bene generale, tesa a limitare i privilegi e gli eccessi, a condizione che venga esercitata dal principe, solo e legittimo rappresentate dello stato, nel rispetto delle leggi di [[Dio]] e della natura.<ref>{{Cita libro|editore= [[Donzelli Editore]]|nome=Maurizio|cognome=Viroli|titolo= Dalla politica alla ragion di stato: la scienza del governo tra XIII e XVII secolo|città= Roma|accesso= 4 gennaio 2012|data= 1994|url= https://books.google.it/books?id=KkCm016TzqkC&pg=PA179&dq=giuristi#v=onepage&q&f=false|p= 179}}</ref>