Essere e tempo: differenze tra le versioni

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'''''Essere e tempo''''' (''Sein und Zeit'', prima edizione [[1927]], [[Halle sul Saale|Halle]], [[Germania]]) è unal'opera delle opere principaliprincipale di [[Martin Heidegger]] ([[1889]] - [[1976]]), [[filosofia|filosofo]] [[Germania|tedesco]], che ha influenzato notevolmente la [[filosofia contemporanea]], in particolare l'[[esistenzialismo]] e l'[[ermeneutica]].
 
Fu pubblicata inizialmente nell'ottavo volume del ''Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung'' di [[Edmund Husserl]], a cui fu anche dedicatodedicata: "''Edmund Husserl in Verehrung und Freundschaft zugeeignet''" ("Dedicato a Edmund Husserl con rispetto e amicizia"). Il ponderoso saggio, incompiuto, ha come filo conduttore l'elaborazione del problema del senso dell'essere, ovvero la ripresa della questione ontologica fondamentale che, da [[Platone]] ed [[Aristotele]] in poi, ha costituito il nucleo centrale della [[metafisica]] ma su cui, secondo l'autore, nel pensiero contemporaneo, è caduto l'oblio più totale (''Seinsvergessenheit'').<ref>"M. Heidegger ''Essere e tempo'': "Benché la rinascita della 'metafisica' sia un vanto del nostro tempo, il problema dell'essere è oggi dimenticato". § 1, p.17, Edizioni Longanesi Milano, 1976.</ref>
 
== Tematiche e contenuti ==
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In realtà, già in [[Soren Kierkegaard|Kierkegaard]], filosofo apprezzato da Heidegger, ma che al contempo rapidamente licenzia con l'appellativo di "teologo cristiano", il problema dell'essere non è più dato per scontato. Kierkegaard sviluppa la problematica fra due poli incompatibili: l'irriducibilità dell'esistenza e della libertà del singolo, inconciliabile sul piano razionale con l'assoluta [[trascendenza]] dell'Essere (che per Kierkegaard corrisponde all'Ente Supremo, [[Dio]]).
 
Questa [[antinomia]] inconciliabile evidenzia l'inconoscibilità dell'Essere. Il termine stesso "ripetizione" è kierkegaardiano: ripetere il problema dell'essere equivale, in entrambi i filosofi, alla necessità, per l'uomo, di ritrovare la propria autenticità ripetendo, ovvero svolgendo nuovamente, la ricerca dell'essere. In Kierkegaard questa ricerca appartiene al singolo e al suo rapporto con Dio; in Heidegger, il singolo è piuttosto un mezzo, una Apertura ("''Erschlossenheit"''), attraverso cui il senso dell'Essereeseere si manifesta.
 
Ridestare l'uomo alla capacità di conoscere l'Essere significa, per Heidegger, innanzitutto evidenziare la [[differenza ontologica]] che separa, senza dividerlo, l'Essere nella sua trascendenza da ciò che concretamente è, ovvero l'ente.
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=== La struttura formale dell'essere ===
L'oggetto della ricerca è ''l'[[essereEssere]]'', considerato come [[a priori]] [[trascendentale]] rispetto a ogni sua determinazione concreta, ovvero rispetto a ogni ente. Questo determina la "struttura formale" della ricerca, ovvero la necessità di superare l'errore tradizionale della metafisica, che ha ridotto l'essereEssere aad un ente come gli altri, ovvero all'Ente supremo.
 
Il problema dell'essere è il problema fondamentale (ovvero il problema del fondamento in quanto tale, e della sua capacità di fondare la realtà e la conoscenza che ne abbiamo), e richiede un atteggiamento conoscitivo necessariamente diverso da quello con cui ci volgiamo alla conoscenza delle singole cose concrete. Se l'essere è il ricercato, e se l'essere va considerato sempre come "l'essere di una cosa", ne consegue che, nel problema dell'essere, l'interrogato è ciò che è: è la cosa (l'ente). Ma quale cosa (ente)? Qual è la cosa (l'ente) che è in grado di rispondere a una domanda sul suo essere? Ovviamente siamo noi, è l'uomo, per il semplice fatto che da sempre egli esperisce la sua esistenza come tale che in essa ne va del suo stesso essere: egli solo, cioè, è in grado di porsi la domanda sull'essere in modo esplicito. Questa cosa (ente) che noi siamo (''esistente'') e che ha per proprio modo di essere quello di interrogarsi, Heidegger lo chiama '''[[Esserci]]''' (''[[Dasein|Da-sein]]''). Va segnalato, in questa sede, che questo primato ontologico dell'uomo è segno di un residuo [[umanismo|umanistico]] della sua filosofia, che Heidegger stesso si sforzerà successivamente di superare (dalla ''[[Lettera sull'umanismo]]'' in poi), ma che secondo l'interpretazione di [[Derrida]] costringe il pensiero heideggeriano a inesorabili e perpetue ricadute nella [[metafisica]].
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Entrando nel merito dei termini: "ontico" vuole indicare tutto ciò che concerne le singole cose in quanto ''sono'' (cioè gli enti); "ontologico", invece, è ogni discorso inerente all'essere in sé, al tutto.
 
Quindi: primato ontologico del problema dell'essere è il fatto che tale questione precede ogni altra questione che l'uomo si pone; primato ontico è invece il fatto che l'esistente umano, per comprendere l'essere, deve comprendere se stesso in quanto esserciEsserci, in quanto ente privilegiato capace di interrogarsi sull'essere; ente privilegiato cui l'essere, cioè, si manifesta. Se la caratteristica esistenziale dell'esistente umano (dell'Esserci) è quella di rivolgersi a se stesso, al proprio essere, questo modo di comportarsi - di essere - non possiamo che chiamarlo esistenza. «L'esserci comprende sempre se stesso in base alla sua esistenza, cioè alla possibilità che gli è propria di essere o non essere se stesso».
 
=== ''Il tema dell'analitica dell'esserciEsserci'' ===
''"L'essenza dell'Esserci consiste nella sua esistenza"''. <br />
Per esistenza non si intende una "proprietà", cioè la semplice-presenza di qualcosa come questo o quell'essere umano. Per esistenza si intende ogni modo d'essere dell'uomo (esserciEsserci). "Esserci" non indica dunque l'uomo in quanto singolo (questo o quello) ma il suo "essere" in quanto "esistente" (esistente umano). Se l'esserciEsserci non è una proprietà ma il nostro modo d'essere - il mio, il tuo - noi possiamo sia "conquistare" il nostro modo d'essere, sia "perderlo", sia "conquistarlo apparentemente".
 
Noi possiamo cioè essere noi stessi (appropriarci di noi) '''autenticamente''' o '''inautenticamente'''. L'importante è comprendere che entrambe queste possibilità sono modi d'essere reali (anche un'esistenza inautentica è un'esistenza). La nostra esistenza si manifesta sempre in questo o quel modo; ma una corretta interpretazione fenomenologica dell'Esserci (cioè della nostra esistenza), che voglia cioè affrontare "la cosa stessa", non deve scegliere come punto di partenza un modo d'essere particolare - per es. quello gnoseologico/-scientifico, alla [[Immanuel Kant|Kant]] o trascendental-fenomenologico alla [[Husserl]] - ma deve mostrare chi siamo "innanzi tutto e per lo più", cioè nell'indifferenziazione della quotidianità e proprio nella quotidianità, la struttura dell'esistenzialità non è approssimativa e nebulosa, ma inautentica; nella quotidianità, l'esistenza appare nel modo della "fuga" e dell'oblio di sé.
 
=== L'essere-nel-mondo ===
Il significato dell'espressione "essere -nel -mondo" comporta tre punti di vista: '''1)''' il "nel mondo" comporta un'indagine sull'idea di mondo ("mondità", ''Weltlichkeit'') come tale; '''2)''' occorre determinare con chiarezza di cosa parliamo quando parliamo dell'essere che è nel mondo, cioè di cosa si nasconde dietro il "Chi" della domanda "Chi è"; '''3)''' infine occorre chiarire il senso (la costituzione ontologica) dell'"in-essere" (inessenzain-essenza).
 
L'espressione "in-essere" non va intesa in senso pratico come il modo d'essere di qualcosa che è dentro qualcos'altro (come l'acqua nel bicchiere o la chiave nella toppa), cioè la semplice presenza di questo o quell'uomo in questo o quel luogo. "In" deriva da ''in-abitare'', ''habitare'' (''habitus'') nel senso di "essere abituato", "essere familiare con", "essere solito". "In-essere" (essere -nel -mondo) è dunque la condizione fondamentale dell'esistenza umana, nel senso della sua "condizione normale" (abituale, consueta). È, in altre parole, il modo in cui noi ci "sentiamo a casa nel mondo" (lo abitiamo) a prescindere da ogni ulteriore occupazione e attività (la condizione dell'intimità).
 
L'"in-essere" può anche essere illustrato attraverso il concetto di "incontro": un tavolo non può "incontrare" una sedia così come un esistente umano incontra un altro esistente umano. L'incontro infatti presuppone non una condizione spaziale (siamo semplicemente qui, uno di fronte all'altro), ma un'accessibilità che ci permetta di ri-conoscere l'altro in quanto già da sempre conosciuto (appartenente al "nostro mondo"). Questo modo di essere nel mondo lo chiamiamo "effettività" ("''Faktizität"''); questo concetto indica le consuetudini, la familiarità col mondo di un essere che si percepisce (si comprende) come legato nel suo "destino" all'essere che incontra nel proprio mondo.
 
Occorre ora considerare le diverse maniere dell'"in-essere": - ''avere a che fare con qualcosa''; - ''affrontare qualcosa''; - ''lasciar perdere o abbandonare qualcosa''; - ''intraprendere''; - ''imporre'' ecc. Tutte queste maniere o modificazioni dell'"in-essere" originario, inteso come "Habitus"- abitare, sono modi del ''prendersi cura''. Il termine "prendersi cura" naturalmente non va inteso nel suo significato corrente (come "condurre a termine" o "preoccuparsi"). Esso ha un valore esistenziale (ontologico) e indica innanzi tutto il fatto che la costituzione profonda dell'esistente umano (l'essere dell'Esserci) è quella della '''cura''', del prendersi cura. In altre parole questo significa che agli esseri umani non "capita" un po' sì e un po' no di assumere una relazione col mondo, ma che proprio l'essere in relazione col mondo nel modo del prendersene cura caratterizza la loro esistenza.
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=== L'essere dell'ente nel mondo-ambiente ===
 
Gli "enti intra-mondani difformi dall'Esserci" ci si danno non come "semplici-presenze" ("''Vor-handenheiten"''), bensì in quanto "utilizzabili" ("''Zu-handenheiten"'') o ''strumenti'', e costituiscono il nostro "mondo-ambiente" ("''Umwelt"''), guidato dalla "visione ambientale preveggente" ("''Umsicht"''). Il modo in cui gli '''strumenti''' (i mezzi) ci vengono incontro nel nostro prenderci cura ne svela l'intima coerenza (la conformità) col mondo di cui fanno parte. Prima di tutto: lo strumento può rivelarsi ''inutilizzabile'' (non idoneo o guasto). In questa scoperta dell'inutilizzabilità il mezzo ci sorprende: ciò significa che è la sorpresa (l'apparire inatteso di qualcosa) che ci rende consapevoli dell'inutilizzabilità. Qualcosa attraverso cui passavamo per arrivare a qualcos'altro, ci appare davanti come un ostacolo, attirando “improvvisamente” la nostra attenzione, lì dove prima davamo per scontata la sua “semplice presenza”. In secondo luogo: lo strumento può rivelarsi ''mancante''.
 
Nei confronti di ciò che "ci serve" ma non c'è, ciò che rimane – “tutto il resto”, la qualsiasi altra "cosa" – acquista il carattere dell'importunità, dell'inutilità. Più è urgente ciò che ci manca, più diventa inutile ciò che abbiamo. In terzo luogo: lo strumento può apparire come ''non pertinente'' ai nostri scopi, come qualcosa che ci sta "tra i piedi", che è "fuori posto". Questi tre modi – la sorpresa, l'importunità, l'impertinenza – fanno emergere il carattere di "semplice presenza" che può diventare proprio anche degli strumenti, cioè il loro poter diventare "cose" prive di senso con cui si sono interrotte le nostre abituali relazioni.
 
Ed è proprio in questa interruzione che possiamo cominciare a intravedere qualcosa di utile alla nostra ricerca. Attenzione: nella sorpresa, nell'importunità, nella non pertinenza, l'utilizzabilità non è semplicemente assente; essa è ancora presente come qualcosa che si è allontanataallontanato, ma in questo allontanarsi parla ancora di sé, ci dice ancora ciò di cui "sentiamo la mancanza". L'utilità di qualcosa (utilizzabilità) è ancora presente anche quando non ci è a portata di mano (''zuhanden'').
 
Ciò di cui ci si serve, solitamente non lo si considera; ma quando l'utilizzabilità è interrotta, quando si urta contro qualcosa che oppone resistenza, allora questo mezzo appare, si illumina, viene in chiaro, trascinando in questa apparizione tutta "l'officina" di cui è parte. Si vede con occhi diversi qualcosa che già sempre pure si vedeva "senza vedere".
 
Nella mancanza di ciò che ci serve - nel venirci meno del nostro ambiente - noi ne prendiamo coscienza. In questo "prendere coscienza" si annuncia il mondo. ''"Mutatis mutandis''": perché il mondo-ambiente rimanga utilizzabile, non deve sorprendere, non deve apparire, non deve annunciarsi. <br />
In questo consiste la sua essenza profonda.
 
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=== Il con-esserci degli altri ===
Il concetto di "altri" non va inteso in senso aggiuntivo, come qualcosa accanto a cui mi trovo: «''gli altri sono piuttosto quelli dai quali per lo più non ci si distingue e fra i quali, quindi, si è anche''». Questo per dire che noi non siamo "innanzi tutto e per lo più" in atteggiamento di distinzione, di allontanamento, di individuazione dagli altri, ma al contrario tendiamo istintivamente a condividere il mondo con gli altri, a con-vivere (con-esserci, "mit-sein"''Mitsein'') con essi. Non incontriamo gli altri a partire da noi, ma dal mondo in cui ci troviamo ad esistere; e non solo gli altri ma anche noi stessi.
 
''"L'Esserci trova "se stesso" innanzi tutto in ciò che sta facendo, in ciò di cui ha bisogno, in ciò che si aspetta, cioè nell'utilizzabile intramondano di cui si prende cura innanzi tutto"''. <br />
Questo percepire noi stessi come immersi (gettati, "''geworfen"'') nel mondo si riflette anche nel nostro percepire gli altri: noi incontriamo sempre l'altro "in una situazione", in un suo essere-nel-mondo.
 
Con questa nuova determinazione dell'Esserci, ne viene che alle determinazioni esistenziali dell'Esserci (dell'esistente umano) si aggiunge l'esistenziale (''Existenzial'', categoria esistenziale) del con-esserci: '''l'uomo è esistenzialmente con gli altri anche quando è solo'''. Se ci riflettiamo, noi "sentiamo la mancanza" degli altri perché per natura siamo fatti per essere con gli altri; in tal senso l'esser solo è un modo difettivo del con-essere. E d'altra parte la solitudine non viene meno per la "semplice presenza" accanto a noi di qualcun altro: «''per numerosi che siano i presenti, l'Esserci può restare solo''». Questo chiarisce che la vicinanza di altri non è mai comunque solo "una semplice presenza": quando la vicinanza di altri non colma la mia solitudine, essa prende la forma dell'indifferenza e della estraneità.
 
Va adesso chiarito che l'incontro con l'altro nel mondo, pur avvenendo nell'ambito della ''cura'', non è un prendersi cura come quello che caratterizza il "commercio" con gli utilizzabili: «''l'altro Esserci non è incontrato nel quadro del prendersi cura (''Besorgen'') ma dell'aver cura (''Fürsorge'')»''. «''L'aver cura, com'è ad esempio l'organizzazione sociale assistenziale, si fonda nella costituzione di essere dell'Esserci in quanto con-essere''». L'essere l'uno per l'altro, l'uno contro l'altro, l'uno senza l'altro, il trascurarsi, il non importare all'uno dell'altro, sono tutti modi dell'aver cura - positivi e difettivi. Anzi, i modi difettivi sono proprio quelli che caratterizzano la vita quotidiana dell'esistente umano. È l'ovvietà del rapporto quotidiano che rivela il carattere della non sorpresa nei confronti degli altri, che in termini umani definiamo indifferenza, ma che non è diversa dalla familiarità con cui ci muoviamo tra le cose.
 
Ci sono due modi diversi di "aver cura" positivamente degli altri. Intromettersi nella loro esistenza deresponsabilizzandoli, relegandoli in un rapporto di dipendenza; oppure presupponendoli nel loro poter essere, mettendoli nella condizione di divenire consapevoli di sé e di esercitare liberamente la propria cura.
 
=== L'esser se stesso quotidiano e il "Si"===
Noi siamo dominati dalla preoccupazione di distinguerci dagli altri: o negando la differenza nel caso in cui ci si trovi in inferiorità, o cercando di imporci. L'essere-assieme (co-esistenza avente cura) ha questo carattere di "contrapposizione commisurante". Questa presuppone una limitazione alla libera espressione di sé stessi: l'esistente umano si trova, alla luce di tale preoccupazione, in soggezione rispetto agli altri: «''non è sé stesso, gli altri lo hanno svuotato del suo essere''». In questo sentimento di soggezione "gli altri" non sono mai "un altro" specifico; sono quelli che "ci sono qui" quotidianamente e dietro cui nascondiamo la nostra identità perduta. In questo modo di percepire gli altri - come presenza dominante - non esiste più un io padrone di sé, ma un anonimo "Si" ("''Man"'', impersonale). «''Il Chi non è questo o quello, non è sé stesso, non è qualcuno e non è la somma di tutti. ''
 
Nel mondo-ambiente esiste un mondo pubblico che «''dissolve completamente il singolo Esserci nel modo di essere "degli altri", sicché gli altri dileguano ancora di più nella loro particolarità e determinatezza. In questo stato di irrilevanza e di indistinzione il Si esercita la sua tipica dittatura. Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla "gran massa" come ci si tiene lontani, troviamo "scandaloso" ciò che si trova scandaloso. Il Si, che non è un Esserci determinato ma tutti (non però come somma), decreta il modo di essere della quotidianità.''»<ref>§ 27, p.163, Longanesi 1976.</ref>
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=== L'esser-ci come situazione emotiva ===
Heidegger definisce "situazione emotiva" ("''Befindlichkeit"'') ciò che noi comunemente designiamo col termine "umore". Compito di questa fase del "pensiero sull'essere" è di analizzare l'umore nella sua struttura esistenziale. <br />
È fondamentale sottolineare questo fatto: l'uomo (Esserci) è sempre immerso in un determinato umore. Non c'è esistenza priva di tonalità emotiva, fosse anche l'indifferenza, quel grigiore uniforme e persistente in cui l'esistenza (l'essere dell'Esserci) diventa un peso. Perché un peso? «''Non si sa''». La modalità d'essere della "conoscenza" è inadeguata a penetrare nella regione del proprio essere in cui l'uomo già da sempre si trova. La tonalità emotiva è la risposta alla domanda "come va?" che "CI" colloca nella nostra esistenza. L'Esserci è dunque un esistere emotivamente; l'uomo è un esistente che è in quanto "aperto" in una situazione emotiva.
 
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Finora, la discussione sul problema dell'[[essere]] è approdata alla conclusione che la natura costitutiva dell'uomo consiste in una sua originaria appartenenza al mondo, appartenenza che lo situa tra le cose e gli altri nell'atteggiamento della cura, atteggiamento che precede qualunque altro particolare modo d'essere. Questo ''essere-nel-mondo'' era stato anche definito come "apertura preliminare" nei confronti dell'ambiente in cui operiamo, apertura che può anche essere intesa come comprensione del senso delle cose. La capacità di dare significato a ciò che facciamo fa di noi (dell'Esserci) un tipo di ente (esistente) che ha in sé stesso la ragione della propria esistenza.
 
Ora occorre aggiungere alla (categoria) esistenziale della comprensione (''Verstehen'') qualcosa che la distingua dal semplice significato di "essere capace di", "essere in grado di" che spesso le attribuiamo nel discorso corrente. L'idea che nel "comprendere qualcosa" sia insito il poter fare, il poter agire con competenza o coscienza di causa, indica una qualità essenziale della nostra natura umana: «''il modo d'essere dell'Esserci in quanto poter-essere''». La "possibilità", per noi, è la condizione preliminare dell'essere aperti a ciò che verrà, in base alla condizione emotiva in cui ci troviamo; in ogni istante noi siamo nella possibilità di essere questo o quello perché abbiamo già rinunciato ad altre possibilità di essere qualcos'altro. La nostra esistenza è un continuo esser-possibile in cui ci veniamo a trovare (si potrebbe aggiungere: nostro malgrado). L'uomo è sé stesso in quanto libero di poter essere.
 
''Ognuno è, a seconda di come ha saputo comprendere sé stesso, le sue possibilità'': ''"in quanto è questa comprensione, esso "sa" come stanno le cose a proposito di sé stesso, cioè del suo poter essere"''. <br />
Questo "sapere" non è frutto della psicologia, ma è immediato e spontaneo, sorge cioè appena ci rivolgiamo a noi stessi nella nostra interiorità.
 
Alla struttura esistenziale della comprensione corrisponde ciò che noi chiamiamo '''progetto''' (''Entwurf''). L'uomo, in quanto ''gettato nel mondo'', si trova nella condizione "innata" di proiettarsi in avanti (nel tempo) attraverso progetti. Per progetto Heidegger non intende i piani che ci facciamo per il futuro (farò questo e quest'altro); nell'uso che egli fa del termine prevale la funzione verbale rispetto a quella nominale: progettare significa comprendersi in base alle proprie possibilità. Se vogliamo, è quella condizione ideale e rara per cui ci lasciamo essere per quello che siamo, senza intromettere "piani razionali" nel nostro agire. Questo comporta che ciò rispetto a cui progettiamo possa anche non essere "conosciuto" in termini concreti: faccio questo perché "mi va", poi vedremo cosa ne verrà. Soltanto perché l'uomo è (o non è) ciò che poteva essere, soltanto comprendendo questo, egli può dire a sé stesso: «''Divieni ciò che sei!''».<ref>F. Nietzsche ''Divieni ciò che sei. Pensieri sul coraggio di essere se stessi'', a cura di Mirella Carbone e Joachim Jung, Marinotti Milano, 2006. Da un'ode di [[Pindaro]].</ref>
 
La comprensione comporta una doppia prospettiva: uno può comprendere sé stesso a partire dal mondo di cui fa parte; o viceversa, la comprensione di sé può prescindere dal mondo (accettare o cambiare il mondo). «''La comprensione dell'esistenza come tale è sempre una comprensione del mondo''».
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Si è visto che l'uomo comprende sé stesso in base alle proprie possibilità: ciascuno può divenire ciò che è (autoprogettarsi). Questo diventare o non diventare se stessi (autenticità o inautenticità) ci si manifesta compiutamente nell'angoscia. Ma questo capire chi potremmo essere che costituisce il nostro modo di essere [essere uomo vuol dire conoscersi] ci proietta costantemente davanti a noi.
 
L'uomo è, nella sua essenza, un esistente proiettato in avanti, mai fermo all'Hic"hic et Nuncnunc". Questo, tra l'altro, non avviene in astratto, ma nella costante relazione con il mondo di cui siamo parte. E tutto questo in vista di un perché, in ragione di quell'esser presso le cose (gli utilizzabili) di cui ci si prende cura. In altri termini: '''l'esistenza è un lasciar essere le nostre possibilità verso ciò che ci occupa'''.
 
«''Questo essere è espresso globalmente dal termine Cura che qui è usato nel suo senso ontologico-esistenziale genuino''». È la '''Cura''' ("''Sorge"'') che, come condizione originaria all'in-essere, rende possibile "prendersi cura di qualcosa" e "aver cura" degli altri. In questo senso, la Cura non è separata dall'inautenticità: l'affanno per il possesso è la sua espressione corrente e quotidiana. La Cura come fenomeno ontologico-esistenziale fondamentale precede tendenze come il volere, il desiderare, l'impulso o l'inclinazione, che sono tutti interpretabili come manifestazioni del nostro essere avanti a noi come essere presso (Cura).
 
=== ''Il modo di essere della verità'' ===
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Le leggi di natura non sono vere di per sé - e questo già [[Immanuel Kant|Kant]] lo diceva; pertanto non è sensato pensare a un qualcosa che in sé abbia un valore d'esistenza indipendentemente da noi.
 
Non c'è scoprimento, non c'è verità, non c'è nulla fino a che non c'è colui attraverso il quale avviene lo scoprimento, '''la verità si manifesta'''. Le cose diventano per opera di colui per il quale esse hanno un senso; tutto ciò che ancora non si è dis-velato (''unverborgen'') - reso evidente - non esiste (non è neppure il caso di aggiungere "per noi": per chi altri dovrebbe esistere?). «''In virtù del suo essenziale modo di essere, conforme all'Esserci, ogni verità è relativa all'essere dell'Esserci''».
 
Questo vuol dire che ogni verità è soggettiva? No, se per "soggettivo" si intende arbitrario. Scoprire qualcosa significa renderlo evidente, portarlo in cospetto dell'esistenza sottraendolo al condizionamento - che può anche essere la chiacchiera falsificatrice. Questo non significa che la verità sia qualcosa di "oggettivo": la verità "c'è" perché l'uomo (l'Esserci) è nella verità. Noi non dobbiamo presupporre la verità come se fosse il fondamento dell'essere (l'essenza) di un altro ente; la verità ci è data nel momento stesso in cui siamo. Essa non è una decisione, un atto di volontà, così come non è stata una decisione - un libero atto di volontà - il nostro "essere-nel-mondo", il nostro stesso Esserci (esistere). Noi siamo nella verità anche nel momento in cui siamo nell'oscurità del nascondimento - della fuga dalla verità. Non può "essere nascosto" qualcosa che non c'è; come si diceva, la verità non si dimostra (giudizio) ma si lascia essere.
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=== Progetto di un essere per la morte autentico ===
Cosa significa, in prima istanza, essere autenticamente per la morte ("''Sein zum Tode"'')? Essenzialmente, non fuggire davanti al suo ineluttabile essere possibile e non coprirne la verità con la chiacchiera. Se la morte è la possibilità più propria e certa di ogni esistenza, essere per la morte significa dunque essere per una possibilità; essere per una possibilità significa prendersi cura della sua realizzazione. Ma prendersi cura di una possibilità nel senso della sua realizzazione vuol dire trasformarla in un fatto, farla essere come qualcosa di diverso da una possibilità. Il suicidio, come autorealizzazione della propria fine, ci toglie dall'angoscia in quanto ci sottrae al peso che comporta il quotidiano essere per la morte. In questo senso si suol dire che il suicidio è una fuga - l'estrema deiezione dal tutto che noi siamo.
 
Neppure la contemplazione (mistica) è una risposta adeguata alla domanda. "Pensare alla morte" è un modo di renderla "oggettiva", estranea od esterna a noi, come quell'ente che a noi mancherebbe per essere "completi". Al contrario, la possibilità deve essere intesa nel modo più totale come possibilità, come incombere il cui accadere non coincide col nostro esistere: noi non sapremo mai "cos'è" la morte perché nella morte non c'è esistenza.
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Il voler-aver-coscienza è una totale adesione (comprensione) alla verità della propria esistenza: '''"io sono questo" è ciò che la coscienza "dice"'''. È ovvio che la comprensione della chiamata, chiamandoci all'autenticità dello spaesamento, è caratterizzata dall'angoscia. «Il voler-aver-coscienza diviene così un esser pronto all'angoscia».
 
A questa comprensione della chiamata, della voce della coscienza, costituita dall'angoscia, dalla consapevolezza della nullità di ogni progetto e dal silenzio, diamo il nome di '''decisione''' (''Entschlossenheit''). Con la decisione noi raggiungiamo la verità originaria, profonda, dalla nostra esistenza, poiché la decisione è decisione di essere autentici. La decisione è decisione di essere nel nostro Ci, cioè di essere assegnati effettivamente (senza possibilità di scelta) al nostro "mondo". Questo significa che la decisione, richiamandoci a noi stessi dalla "perdizione nel Si", modifica il nostro modo di essere-nel-mondo, di "scoprire" le cose e gli altri. Con la decisione usciamo dalla deiezione della quotidianità per rientrare nella solitudine dell'esser noi stessi. Senza tuttavia diventare indifferenti.
 
«''La decisione, in quanto '''poter-essere se-Stesso autentico''', non scioglie l'Esserci dal suo mondo, non lo isola in un io ondeggiante nel vuoto. Come lo potrebbe se essa, in quanto apertura autentica, è null'altro che l''''essere-nel-mondo autentico'''? La decisione porta invece il se-Stesso nell'esser-presso l'utilizzabile prendente cura e lo sospinge nel con-essere avente cura degli altri'' [fonda il senso autentico del prendersi cura e dell'aver cura].»<ref>§ 60, p.361, Longanesi 1976.</ref>
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Infine, poiché il carattere essenziale della decisione è il suo collocarci nella nostra situazione, cioè il lasciarci venire incontro le cose così come esse si presentano - un accogliere ciò che effettivamente si presenta a noi - in questo '''decidere di cogliere ciò che si presenta così come si presenta è il vero "presente"'''.
 
"Avvenire", "passato" e "presente" costituiscono dunque un fenomeno unitario (avvenire essente stato presentante) che chiamiamo '''temporalità''' (''Zeitlichkeit'')<ref>Il primo traduttore in italiano di ''Essere e tempo'', Pietro Chiodi, ampiamente utilizzato in questa voce, sostiene che l'autore usi "Zeitlichkeit" quando si riferisce alla temporalità dell'Esserci, mentre "Temporalität" quando parla di quella dell'Essere.</ref> In questa struttura "temporalizzante" - che è la struttura della decisione - si rivela il senso della Cura. L'avvenire è il nostro essere noi stessi, il passato l'esser gettati nel mondo, il presente è il "colpo d'occhio" sulla situazione. In questa unità si rileva un carattere costante della temporalità dell'esistenza, costituito dal "movimento" (il termine va inteso metaforicamente) dell'uomo verso il futuro, indietro nel passato e presso la situazione: "ad-sé-in", "indietro-verso" e "venire incontro del". Questi fenomeni relazionali denotano la temporalità come '''estasi''', come "essere fuori di sé" dell'uomo: il tempo non è una cornice che si aggiunge alla vita, ma il modo in cui l'uomo - proiettandosi nel futuro per ripetere il passato nell'"ora" della situazione presente - dà senso alla sua esistenza.
 
Ne consegue che - tra le diverse estasi della temporalità, quella che vanta la priorità originaria è l{{'}}'''avvenire'''. Esso esprime il senso della decisione anticipatrice, e come tale si rivela come finito. Ma non nel senso comune del "cessare" (abbiamo già visto che la morte non è un cessare ma la possibilità più incombente); essendo il senso della Cura, l'avvenire è la morte stessa. Il tempo originario è '''finito'''.