Progetto Lebensborn: differenze tra le versioni

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{{Citazione|Lo stato razzista deve considerare il bambino come il bene più prezioso della nazione|[[Adolf Hitler]], ''[[Mein Kampf]]''}}
Il '''Progetto Lebensborn''' ('''Progetto Sorgente di Vita''') fu uno dei diversi programmi avviati dal gerarca [[nazismo|nazista]] [[Heinrich Himmler]] per realizzare le [[eugenetica|teorie eugenetiche]] del [[Terzo Reich]] sulla [[razza ariana]] e portare la popolazione ariana in Germania a 120 milioni di persone entro il [[1980]].<ref>{{Cita web|url=http://www.akra.it/amis/schede.asp?id=6&idsch=73|titolo=Museo virtuale delle intolleranze e degli stermini - Progetto Lebensborn|sito=www.akra.it|accesso=12 novembre 2017}}</ref>.
 
Aveva come [[motto]]:
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Il 10 dicembre [[1935]] venne fondata a [[Berlino]] la "Lebensborn e.V." ("Sorgente di vita società registrata"), società amministrata dall'"Ufficio centrale della razza e del Popolamento" in collegamento con diversi uffici per la tutela della madre e del fanciullo. Il progetto era quello di costruire un potente strumento per la crescita del numero di nascite "razzialmente di valore".<ref>{{cita|Ericsson-Simonsen, 2007|p. 24}}.</ref>
 
Il 1º gennaio del [[1938]] la società, con il nome di ''Amt L'' (''Ufficio L'', dove "L" sta per Lebesborn),<ref>Organizzazione dell'Amt Lebesborn:
* Amt'' H '': ''Heimaufnahme''
* Amt'' A '': ''Arbeit''
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* Amt'' Ad '': ''Adoptierungen''
* Amt'' S '': ''Standes''</ref>
, passò sotto il controllo diretto dello Stato maggiore delle SS cioè dello stesso Himmler che, per avere più libertà d'azione, trasferì il centro e gli uffici da Berlino a [[Monaco di Baviera|Monaco]], nell'ex sede del Centro comunitario ebraico e nella casa requisita dalle SS a [[Thomas Mann]].<ref>{{cita|Hillel-Henry, 1976|pp. 78-79}}.</ref>
 
I massimi dirigenti dell'organizzazione furono: lo Standartenführer-SS (colonnello) [[Max Sollman]] dell'amministrazione, [[Inge Viermetz]] della sezione cliniche, il dottor [[Gregor Ebner]] della sezione medica, [[Günther Tesch]] della sezione legale.
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La realtà del progetto Lebensborn era infatti difficilmente percepibile ad un occhio esterno. L'istituzione si occupava con attenzione e professionalità della tutela delle donne partorienti che si affidavano ad essa, ma questo trattamento protettivo privilegiato per principio era riservato solo alla categoria delle “donne di sangue puro” disposte a donare il proprio figlio alla Germania.
 
Significativa a questo proposito la testimonianza al [[processo di Norimberga]] di [[Gregor Ziemer]],<ref>[[Gregor Ziemer]] è stato l'autore del soggetto del film statunitense del [[1943]] ''[[Hitler's Children]]'', incentrato sul progetto Lebensborn, diretto da Irving Reis e [[Edward Dmytryk]].</ref>, un educatore [[statunitense]] visitatore per motivi di studio dell'istituzione statale per la tutela dei figli illegittimi di madri tedesche di sangue puro. Egli raccontava come le case fossero tutte in ambienti naturali idilliaci, lontane dallo [[smog]] cittadino e dove le donne ricoverate, salvo le ore dedicate all'istruzione [[ideologia|ideologica]] nazista, erano libere da qualsiasi lavoro domestico.
 
La clinica visitata da Ziemer, un albergo di lusso requisito ad ebrei, si presentava ariosa, luminosa e igienicamente perfetta. Ziemer ebbe anche modo di assistere al pranzo delle partorienti meravigliandosi della quantità e della qualità dei cibi. Le donne, prima di iniziare a mangiare, salutavano con il braccio teso il ritratto di Hitler sotto una [[svastica]], dicendo in coro: "Nostro [[Führer]] ti ringraziamo per la tua munificenza; ti ringraziamo per questa casa; ti ringraziamo per questo cibo. A te dedichiamo tutte le nostre forze: a te dedichiamo la vita nostra e quella dei nostri figli!". Osserva Ziemer: "Ringraziavano un [[dio|nume]]. Offrivano a Hitler i loro bambini ancora non nati".<ref>{{cita|Ziemer, 1944|pp. 26-30}}. La testimonianza riportata nel libro di Ziemer è la trascrizione fedele di quella tenuta dallo stesso nel [[Tribunale Militare Internazionale]] (in ''Procès des grands criminels de guerre'' Vol.XXX, doc. PS-2441, pp. 502-541).</ref>
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Ebner in realtà pensava che si dovessero trasferire in Germania non solo le norvegesi incinte di soldati tedeschi, ma le donne nordiche in genere, poiché presentavano caratteristiche razziali migliori delle tedesche, specialmente di quelle della Germania meridionale.
Si optò invece il sistema più semplice per la germanizzazione: il rapimento di bambini norvegesi, “figli della guerra”, trasportati in Germania in ospizi appositi per essere adottati o germanizzati.<ref name="cita|Hillel-Henry, 1976"/> In realtà pochi furono effettivamente trasportati in Germania. Nei centri Lebensborn norvegesi (circa 500) si registrarono circa 9.000 figli della guerra e uno tra i problemi che il governo legittimo norvegese dovette affrontare nell'estate 1945 era quello dei figli della guerra, dove subito si accorse che l'atteggiamento popolare nei loro confronti era fortemente ostile. Il problema, nonostante molteplici iniziative come trasferimenti in Svezia o Australia, non si risolse e quasi tutti i “mocciosi tedeschi” rimasero in Norvegia.<ref>{{cita|Ericsson-Simonsen, 2007|p. 39}}.</ref> Questi però subirono nel corso degli anni “violenze simboliche” ovvero che «''il dominato applica categorie costruite dal punto di vista del dominante ai rapporti di dominazione, e in tal modo li fa sembrare naturali.''».<ref>{{fr}} Pierre Bourdieu, ‘'Masculine Domination'’, p.35, Polity, 2001</ref>
 
=== Danimarca ===
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Vaclav, biondo e dagli occhi azzurri, abitava a [[Lidice]], un villaggio [[Boemia|boemo]] che subì la rappresaglia tedesca per l'uccisione a [[Praga]] del [[gerarca]] nazista [[Reinhard Heydrich]], il 29 maggio [[1942]].
 
Il villaggio fu raso al suolo; i suoi abitanti sopra i 15 anni uccisi sul posto, le donne deportate a [[Ravensbruck]], quelle incinte in ospedale e «tre bambini portati all'Altreich per la germanizzazione...».<ref>{{cita|Schnabel, 1961|pp. 250-251}}.</ref>
 
Uno di questi bambini sopravvissuti era Vaclav che venne portato in auto a Praga e rinchiuso in una scuola con la madre per due giorni sino a quando, «Venerdì verso sera - racconta - è venuto in palestra un gruppo di uomini. Ci hanno messo in fila da una parte e le nostre madri dall'altra, dicendo che sarebbero andate non so dove in treno, e noi le avremmo raggiunte in autobus. Ma le nostre madri non volevano crederci, hanno preso tutti i loro figli e li tenevano stretti».
 
Vaclav separato dalla madre («Da quel momento non ho più visto la mamma»),<ref>{{cita|Ivanov, 1972|p. 275}}.</ref> viene registrato e inviato con gli altri bambini in un ospedale poi in un [[ghetto]] da dove, dopo molti controlli, viene trasferito in un orfanotrofio a Puskov, dove si ammala. Guarito viene adottato da una coppia di [[Dresda]].
 
«Volevano che li chiamassi ''Mutterchen'' e ''Vaterchen'', ma io non potevo: e non volevo... ma loro parlavano soltanto il tedesco... e ho cominciato a dimenticare... La guerra è finita... non ricordavo più nemmeno il nome Lidice. Le autorità cecoslovacche mi hanno ritrovato soltanto nel [[1947]]. E sono tornato a casa... del nostro paese è rimasta soltanto una pianura... Ho ritrovato soltanto mia mamma. Mi ha riconosciuto da tre cicatrici che avevo sul petto...».<ref>{{cita|Ivanov, 1972|pp. 276-377}}.</ref>
 
=== Sigismund Krajeski ===
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Nella scuola di germanizzazione Sigismund fa una vita dura: punito e picchiato perché continua a parlare in polacco e non rinnega la sua [[nazionalità]].
 
«Dei tedeschi venivano nel campo e sceglievano i bambini che gli piacevano... facevano credere che i genitori erano morti... cambiavano il nome e cognome in nomi tedeschi... Quando i tedeschi mi offrivano dei dolci... rispondevo in polacco... le punizioni che seguivano erano terribili... Finalmente riuscii a fuggire».<ref>{{cita|Hillel-Henry, 1976|pp. 191-192}}.</ref>
 
=== Anonima ===
La madre aveva ricevuto l'ordine di presentarsi con la piccola figlia all'Ufficio Comunale della Gioventù. Lì venne separata dalla mamma e portata a Kalish; dal campo fu trasferita con altre bambine polacche alla scuola di germanizzazione "Illenau".<ref>Un antico istituto trasformato in un asilo per il progetto Lebensborn e per il [[Aktion T4|T4]] presso il villaggio di [[Achern]] nel [[Baden-Württemberg|Baden]].</ref>
 
«Siamo state marchiate alla mano sinistra e al capo...ci dissero "voi metterete al mondo due o tre tedeschi di razza, poi sparirete"...Ci facevano anche continuamente delle iniezioni...penso...che fossero di [[ormone|ormoni]] per farci raggiungere celermente la [[pubertà]]. Di tanto in tanto le SS...ci facevano passare un nuovo esame razziale sempre più severo. Le bambine che venivano scartate non le rivedevano più.».<ref>{{cita|Hillel-Henry, 1976|p. 195}}.</ref>
 
''Alcuni di questi bambini sradicati dalla loro famiglia d'origine e assimilati completamente a quella d'adozione dopo molti anni di vita nel nuovo ambiente familiare e sociale si rifiutarono di riprendere il filo della loro vita spezzata. È il caso di queste due bambine germanizzate:''
 
=== Hélène Wilkanowicz ===
Rapita in Polonia a [[Pabianice]], quando aveva dodici anni dalle SS perché aveva capelli biondi e occhi azzurri. Insieme ad altre bambine venne rinchiusa nel campo raccolta di bambini a [[Buckau]]. Nel novembre del [[1943]] fu mandata alla scuola SS "Illenau" dove si operavano severe selezioni tali che «I bambini non validi che questa scuola respingeva venivano sterminati».<ref>{{cita|Hillel-Henry, 1976|pp. 282-283}}.</ref>
 
Dopo la guerra, aveva ormai diciassette anni, non volle tornare in Polonia. Non si sentiva tedesca dopo tanti anni «D'altra parte qui mi trattano ancora come una sporca polacca, ''Dreckpolack''. È orribile che in Germania… si rimane uno sporco polacco, come si rimane un sudicio ebreo.» Forse - continua - tornerà in Polonia «Ma io sono malata, soffro ancora per quel periodo. Nostalgia. Una cosa che uccide, ''das macht sie kaputt''. Non trovo più pace…».<ref name="cita|Hillel-Henry, 1976"/>
 
=== Eugenia Ewertowska ===
Rapita alla madre il 27 settembre [[1943]], adottata ufficialmente nel [[1947]], mentre il governo polacco la stava cercando, dalla famiglia tedesca Horn. Germanizzata, sposata e madre di due bambini, Eugenia, ora con il nome tedesco di Irene, assegnatole da Gunther Tesch,<ref>Capo dell'ufficio giuridico del Lebensborn anche dopo la guerra continuava a professare l'avvocatura a Dortmund.</ref> si rifiuta di tornare dalla madre «Non sento nulla per quella donna. Che cosa vogliono ancora da me?… Io voglio la pace… ».<ref>{{cita|Hillel-Henry, 1976|p. 285}}.</ref>
 
== Il numero dei bambini rapiti ==
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Alla fine di maggio del [[1945]], nella sola [[Oslo]], risultavano arrestate e chiuse in campi di concentramento mille donne e poco dopo il governo norvegese emanò una legge retroattiva che cancellava il diritto di cittadinanza per ogni donna che si fosse sposata con un tedesco nei cinque anni precedenti.
Tali misure, ricevettero un forte sostegno da parte della popolazione come dimostrato anche dalle seguenti testimonianze degli storici norvegesi Lars Borgersrud e Kjersti Ericsson, riportate al programma televisivo "[[La storia siamo noi]]":<ref>[http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=518 RAI, "La storia siamo noi"] {{webarchive|url=https://web.archive.org/web/20090201012231/http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=518 |data=1º febbraio 2009 }}</ref>:
 
{{Citazione|L’odio nei confronti dei War Children può essere spiegato nella durezza dell’occupazione tedesca nei confronti del nostro paese. Non si deve dimenticare che diecimila norvegesi sono stati uccisi, mentre altri novemila sono stati deportati in Germania dove hanno subito un trattamento durissimo e almeno milleseicento di loro sono stati uccisi nei lager nazisti. Soprattutto nel nord della Norvegia la popolazione ha reagito all'occupazione rifiutando di collaborare con il nemico e dando vita ad un movimento di resistenza che è durato per tutti gli anni della guerra, per questo molti norvegesi hanno reagito alla drammatica esperienza dell’occupazione identificando questi bambini con il nemico tedesco.}}