Bhagavadgītā: differenze tra le versioni

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{{q|Compi i tuoi atti (''karmaṇy ''), ma non occuparti del loro frutto (''phaleṣu''). Non avere come movente il frutto delle tue azioni, non avere attaccamento (''saṅgo'') nemmeno per la non-azione (''akarmaṇi '').|''Bhagavadgītā'', II, 47|karmaṇy evādhikāras te mā phaleṣu kadācana<br />
mā karma-phala-hetur bhūr mā te saṅgo 'stv akarmaṇi |lingua=sa}}]]
L'episodio narrato nel testo si colloca nel momento in cui il virtuoso guerriero [[Arjuna]] - uno dei fratelli [[Pāṇḍava]], figlio del dio Indra, prototipo dell'eroe - èsta in procinto diper dare inizio alla [[battaglia di Kurukṣetra]], che durerà 18 giorni, durante la quale si troverà a dover combattere e quindi uccidere i membri della sua stessa famiglia, parenti, mentori e amici, facenti tuttavia parte della fazione dei malvagi [[Kaurava]], usurpatori del trono di [[Hastināpura]].
 
Di fronte a questa prospettiva drammatica, Arjuna si lascia prendere dallo sconforto, rifiutandosi di combattere. A questo punto il suo auriga Kṛṣṇa, principe del clan degli ''Yādava'' ma in realtà ''avatāra'' di Viṣṇu qui inteso come divinità suprema, si avvia ad impartirgli degli insegnamenti, dal profondo contenuto religioso, per dissiparne i dubbi e lo sconforto imponendogli di rispettare i suoi doveri di ''kṣatrakṣatriya'', quindi di combattere e uccidere, senza farsi coinvolgere da quelle stesse azioni (''karman'').
 
Per convincere Arjuna della bontà dei propri suggerimenti [[Kṛṣṇa]] espone una vera e propria rivelazione religiosa finendo per manifestarsi come l'Essere supremoSupremo. Innanzitutto [[Kṛṣṇa]] precisa che la sua "teologia" e la sua "rivelazione" non sono affatto delle novità (IV,1 e 3) in quanto già da lui trasmesse a [[Vivasvat]] e da questi a [[Manu (Induismo)|Manu]] in tempi immemorabili, ma che tale conoscenza venne poi a mancare e con essa il [[Dharma]] e,; quando ciò accadeaccadde e(ed ogni volta che accade), per proteggere gli esseri benevoli dalle distruzioni provocate da quelli malvagi, qui è lo stesso [[Kṛṣṇa]] a parlareaffermò, «io vengo all'esistenza» (IV,8; dottrina dell<nowiki>'</nowiki>''[[avatāra]]'').
 
[[Kṛṣṇa]] si manifesta nel mondo affinché gli uomini, e in questo caso Arjuna, lo imitino (III, 23-4). Così [[Kṛṣṇa]], l'Essere supremoSupremo manifestatosi, spiega che ogni aspetto della Creazione proviene da luiLui (VII, 4-6, ed altri) per mezzo della sua ''[[prakṛti]]'', e che, nonostante questo, egli rimane solo uno spettatore di questa creazione:
{{q|Padroneggiando la miaMia naturaNatura cosmicaCosmica, ioIo emetto sempre di nuovo tutto questo insieme di esseri, loro malgrado e grazie al potere della miaMia naturaNatura. E gli atti non miMi legano, Dhanaṃjaya<ref>"Conquistatore di ricchezze", "Vittorioso", è un epiteto di [[Arjuna]].</ref>; come qualcuno, seduto, si disinteressa di un affare, così io rimango senza attaccamento per i miei attiAtti.| ''Bhagavadgītā'', IX 8-9. Traduzione di [[Anne-Marie Esnoul]]|prakṛtiṃ svām avaṣṭabhya visṛjāmi punaḥ punaḥ bhūta-grāmam imaṃ kṛtsnam avaśaṃ prakṛter vaśāt na ca māṃ tāni karmāṇi nibadhnanti dhanaṃjaya udāsīnavad āsīnam asaktaṃ teṣu karmasu|lingua=sa}}
 
L'uomo deve quindi imparare a fare lo stesso essendo legato alle proprie azioni, in quanto anche se si astiene dal compierle, come stava per fare Arjuna rifiutandosi di combattere, i ''[[guṇa]]'' agiranno lo stesso incatenandolo al proprio ''[[karman]]'' (III, 4-5), egli deve comunque compiere il proprio dovere (''svadharma'', vedi anche più avanti) persino in modo "mediocre" (III, 35).
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Tutto è infatti condizionato dai tre ''[[guṇa]]''<ref>Vedi tra gli altri XVII 7 e segg.</ref> che procedono da [[Kṛṣṇa]] senza condizionarlo.
 
[[Mircea Eliade]] così riassume l'insegnamento principale di [[Kṛṣṇa]] ad Arjuna e a tutti gli uomini, cioè di imitarlo:
{{q|La lezione che se ne può trarre è la seguente: pur accettando la 'situazione storica' creata dai ''[[guṇa]]'' (e la si deve accettare perché i ''[[guṇa]]'' derivano da Krishna) e agendo secondo le necessità di questa 'condizione', l'uomo deve rifiutarsi di ''valorizzare'' i propri atti e, perciò, di accordare un ''valore assoluto'' alla propria condizione|[[Mircea Eliade]]. ''Op. cit.''. pag. 241}}
{{q|In questo senso si può affermare che la ''Bhagavad Gītā'' si sforza di 'salvare' tutti gli atti umani, di 'giustificare' ogni azione profana: infatti, per il fatto stesso di non godere più dei loro 'frutti', ''l'uomo trasforma i propri atti in sacrifici'', cioè dinamismi transpersonali che contribuiscono a mantenere l'ordine cosmico|[[Mircea Eliade]]. ''Op. cit.''. pag. 241}}