Bhagavadgītā: differenze tra le versioni
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{{q|Compi i tuoi atti (''karmaṇy ''), ma non occuparti del loro frutto (''phaleṣu''). Non avere come movente il frutto delle tue azioni, non avere attaccamento (''saṅgo'') nemmeno per la non-azione (''akarmaṇi '').|''Bhagavadgītā'', II, 47|karmaṇy evādhikāras te mā phaleṣu kadācana<br />
mā karma-phala-hetur bhūr mā te saṅgo 'stv akarmaṇi |lingua=sa}}]]
L'episodio narrato nel testo si colloca nel momento in cui il virtuoso guerriero [[Arjuna]] - uno dei fratelli [[Pāṇḍava]], figlio del dio Indra, prototipo dell'eroe -
Di fronte a questa prospettiva drammatica, Arjuna si lascia prendere dallo sconforto, rifiutandosi di combattere. A questo punto il suo auriga Kṛṣṇa, principe del clan degli ''Yādava'' ma in realtà ''avatāra'' di Viṣṇu qui inteso come divinità suprema, si avvia ad impartirgli degli insegnamenti, dal profondo contenuto religioso, per dissiparne i dubbi e lo sconforto imponendogli di rispettare i suoi doveri di ''
Per convincere Arjuna della bontà dei propri suggerimenti [[Kṛṣṇa]] espone una vera e propria rivelazione religiosa finendo per manifestarsi come l'Essere
[[Kṛṣṇa]] si manifesta nel mondo affinché gli uomini, e in questo caso Arjuna, lo imitino (III, 23-4). Così [[Kṛṣṇa]], l'Essere
{{q|Padroneggiando la
L'uomo deve quindi imparare a fare lo stesso essendo legato alle proprie azioni, in quanto anche se si astiene dal compierle, come stava per fare Arjuna rifiutandosi di combattere, i ''[[guṇa]]'' agiranno lo stesso incatenandolo al proprio ''[[karman]]'' (III, 4-5), egli deve comunque compiere il proprio dovere (''svadharma'', vedi anche più avanti) persino in modo "mediocre" (III, 35).
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Tutto è infatti condizionato dai tre ''[[guṇa]]''<ref>Vedi tra gli altri XVII 7 e segg.</ref> che procedono da [[Kṛṣṇa]] senza condizionarlo.
[[Mircea Eliade]] così riassume l'insegnamento principale di [[Kṛṣṇa]] ad Arjuna e a tutti gli uomini, cioè di imitarlo:
{{q|La lezione che se ne può trarre è la seguente: pur accettando la 'situazione storica' creata dai ''[[guṇa]]'' (e la si deve accettare perché i ''[[guṇa]]'' derivano da Krishna) e agendo secondo le necessità di questa 'condizione', l'uomo deve rifiutarsi di ''valorizzare'' i propri atti e, perciò, di accordare un ''valore assoluto'' alla propria condizione|[[Mircea Eliade]]. ''Op. cit.''. pag. 241}}
{{q|In questo senso si può affermare che la ''Bhagavad Gītā'' si sforza di 'salvare' tutti gli atti umani, di 'giustificare' ogni azione profana: infatti, per il fatto stesso di non godere più dei loro 'frutti', ''l'uomo trasforma i propri atti in sacrifici'', cioè dinamismi transpersonali che contribuiscono a mantenere l'ordine cosmico|[[Mircea Eliade]]. ''Op. cit.''. pag. 241}}
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