Sarcofago di Melfi: differenze tra le versioni

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La studiosa individua anche un ulteriore nesso tra le due coppie del lato (in questa lettura) frontaleː entrambi gli eroi maschili muoiono per mano di Apollo. È Febo infatti - che nella succitata versione del mito - uccide Meleagro, così come è questa stessa divinità a guidare la freccia di Paride verso il [[tallone di Achille]]<ref name= Ghiandoni_3/>.
 
[[File:Venus and Mars Museum delle Terme.jpg|left|thumb|''Crispina e Commodo come Venere e Marte'', II secolo, Roma, [[Terme di Diocleziano]]. Anche in questo caso la statua dell'imperatrice è una ripresa dell'[[Afrodite di Capua]]]]
Quanto al significato dell'altro lato lungo, che per la studiosa è quello posteriore, è condivisa la visione dello Strocka per le figure principali - quelle nelle edicole -, cioè Apollo, Teti e Agamennone, ma Febo e il re di Micene starebbero lì in quanto acerrimi nemici di Achille, possibile nesso con il tema del fronte<ref>Si nota in questo senso che Apollo poggia i piedi su uno scudo che potrebbe identificarsi con quello divino del guerriero mirmidone di cui il dio ha determinato la morte.</ref>.
 
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Infine le tre donne nelle edicole centrali di ogni lato, Venere, Teti ed Elena, sono tra loro connesse in quanto tutte coinvolte nell'antefatto della guerra di Troia. È durante il matrimonio di Teti e [[Peleo]] che sorge la contesa tra [[Atena]], [[Era (divinità)|Era]] ed Afrodite per il pomo d'oro della bellezza. Disputa rimessa al [[giudizio di Paride]], principe troiano cui Venere, per ottenere la vittoria, offre l'amore della più bella della mortali, cioè Elena regina di Sparta. Concatenazione di eventi che per l'appunto ha come esito la guerra di Troia. Il richiamo al fatale conflitto potrebbe ulteriormente alludere ai miti sulla nascita di Roma: fuggendo da Troia, ormai devastata dagli Achei, [[Enea]] approderà nel Lazio e porrà il seme della stirpe che fonderà la Città<ref name= Ghiandoni_3/>.
 
===Ipotesi sulla committenza===
Inoltre, la Venere con lo scudo, qui fulcro dell'apparato iconografico del sarcofago, stante l'utilizzo propagandistico di questo modello fatto da alcune imperatrici antonine, potrebbe avere anche una pregnante valenza politica, ipoteticamente indice di uno stretto legame della committenza del sarcofago melfitano con la dinastia imperiale. In questo senso è formulata la supposizione che la commissione del prezioso manufatto possa essere provenuta da appartenenti alla '' gens Brutia''. I ''Bruttii'' sono infatti di origini lucane, ne sono documentati possedimenti nei pressi di Venosa (zona molto vicina al luogo di ritrovamento del reperto) e alcuni suoi esponenti avevano avuto incarichi politico-amministrativi in area mediorientale. Questa ''gens'' era inoltre molto legata agli Antonini al punto che in epoca di poco successiva a quella di realizzazione del sarcofago una rampolla della famiglia, [[Bruzia Crispina|Crispina]], sposò [[Commodo]], l'ultimo imperatore di quella dinastia<ref name= Ghiandoni_3/>.
[[File:Venus and Mars Museum delle Terme.jpg|left|thumb|''Crispina e Commodo come Venere e Marte'', II secolo, Roma, [[Terme di Diocleziano]]. Anche in questo caso la statua dell'imperatrice è una ripresa dell'[[Afrodite di Capua]]]]
Sempre nello studio del 1995, Olivia Ghiandoni prova a formulare un'ipotesi circa l'identificazione dei committenti del sarcofago di Melfi. Si è osservata la pregnante connessione iconografica evidenziata dalla studiosa tra la figura della giacente e la Venere con lo scudo al centro del lato che si presume frontale. Come costantemente rilevato negli studi archeologici sul manufatto, la Venere del monumento funebre lucano è una derivazione della Venere di Capua, tipo scultoreo del quale alcune imperatrici antonine fecero uso con scopi propagandistici.
 
Inoltre,Secondo la VenereGhiandoni, conl'inserimento lonel scudo,sarcofago quidi fulcroquesto dell'apparatostesso iconograficomodello deldi sarcofagoAfrodite, stantecol l'utilizzoquale propagandisticoanche dila questodefunta modellodi fattoMelfi da- alcuneal imperatricipari antonine,delle potrebbeconsorti averedegli ancheAntonini una- pregnantesi valenza politicaidentifica, ipoteticamentepotrebbe essere indice di uno stretto legame della committenza del sarcofago melfitanodell'opera con la dinastia imperiale. In questo senso è quindi formulata la supposizione che la commissione del prezioso manufatto possa essere provenuta da appartenenti alla '' gens Brutia''. I ''Bruttii'' sono infatti di origini lucane, ne sono documentati possedimenti nei pressi di Venosa (zona molto vicina al luogo di ritrovamento del reperto) e alcuni suoi esponenti avevano avuto incarichi politico-amministrativi in area mediorientale. Questa ''gens'' era inoltre moltostirpe legatavicinissima agli Antonini al punto che in epoca di poco successiva a quella di realizzazione del sarcofago una rampolla delladi famigliaquesta ''gens'', [[Bruzia Crispina|Crispina]], sposò [[Commodo]], l'ultimo imperatore di quella dinastia<ref name= Ghiandoni_3/>.
 
I ''Bruttii'' erano infatti di origini lucane, ne sono documentati possedimenti nei pressi di Venosa (zona molto vicina al luogo di ritrovamento del reperto) e alcuni suoi esponenti avevano avuto incarichi politico-amministrativi in area mediorientale, quindi vicino alla zona di produzione del monumento funerario<ref name= Ghiandoni_3/>.
 
Si tratta ovviamentetuttavia solo di un'ipotesi, dichiaratamente talitale: a chi sia appartenuto questo raffinatissimo e prezioso manufatto resta allo stato attuale delle conoscenze un mistero, salvo che per l'ovvio ma generico aspetto che non possa che trattarsi della sepoltura di una persona di censo molto alto. A rendere quanto mai ardua la possibilità di identificare la donna del sarcofago vi è anche il fatto che il luogo esatto di rinvenimento del reperto non è più noto. Infatti, quando l'opera fu spostata a Melfi, nessuno si preoccupò di lasciare precisa traccia del sito di ritrovamento. Resta quindi solo la vaga indicazione della località rapollese Albero in Piano, area però vasta molti ettari<ref>In merito alla committenza del sarcofago ha avuto una certa diffusione la singolare affermazione - non avallata da nessun archeologo o storico dell'arte antica - che la donna della ''kline'' sarebbe [[Emilia Scaura]], patrizia romana sposa di [[Gneo Pompeo Magno]]. Basterebbe a confutare la ''teoria'' rilevare che Emilia Scaura è morta nell'anno 82 avanti Cristo, cioè ben due secoli e mezzo prima della fabbricazione del sarcofago di Melfi (secondo la datazione di [[Richard Delbrueck]], accettata da tutti gli altri, numerosi, studi archeologici sul monumento). Oltretutto periodo in cui la produzione di tale tipologia di sarcofagi è ben lontana dall'affermarsi (che anzi proprio in quello di Melfi ha uno dei suoi primissimi prototipi). Resta peraltro inspiegato perché Emilia Scaura avrebbe dovuto essere seppellita in Lucania posto che ella, come ci dice [[Plutarco]], dopo le nozze «''morì subito in casa di Pompeo sopra parto''», quindi a Roma (''[[Vite parallele]]'', Pompeo, IX). Più di fondo, appare poi improbabile che una patrizia dell'epoca tardo-repubblicana sia stata inumata piuttosto che incinerata, essendo l'incinerazione l'uso assolutamente prevalente delle classi magnatizie romane di quell'epoca (che adotteranno l'inumazione, allora praticata dai ceti sociali più bassi, solo molto dopo). Sia come sia, l'identificazione della giacente con la Scaura si basa essenzialmente (e piuttosto confusamente) sull'asserzione che nel luogo di rinvenimento del reperto sarebbe stata scoperta anche l'iscrizione ''Veneri Erycinae Vicitrici L. Corenlius Sulla Spolia de. Hostib Voto Dicavit''. Essendo Emilia Scaura figliastra di [[Lucio Cornelio Silla|Silla]], cioè colui che avrebbe apposto l'iscrizione in discorso, se ne dedurrebbe (sic!) che la donna di Melfi sarebbe per l'appunto la seconda moglie di Pompeo. Sul punto - anche tralasciando l'evidente carattere non funerario dell'epigrafe, che è viceversa appropriata piuttosto alla dedicazione di un'ara votiva per una vittoria militare - è però agevole constatare che l'iscrizione ''Veneri Erycinae Vicitrici ecc.'' è già documentata da [[Francesco Maria Pratilli]] nello scritto ''Della Via Appia riconosciuta e descritta da Roma a Brindisi'', pubblicato nel 1745, cioè più di un secolo prima della scoperta del sarcofago, avvenuta nel 1856! Su questa stessa iscrizione torna anche l'erudito [[Angelo Calogerà]] che la menziona nella sua ''Nuova Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici'' (Vol. XIX, p. 125), data alle stampe nel 1771, affermando che essa sarebbe stata scoperta (nel 1733) nei pressi di [[Monteverde (Italia)|Monteverde]], comune in provincia di Avellino. Quindi non solo la data di (presunto) ritrovamento di questa iscrizione è del tutto incompatibile con qualsivoglia nesso con il monumento funebre di Melfi, ma altrettanto inconciliabile, stando al Calogerà, è il luogo in cui sarebbe stata rinvenuta l'epigrafe, essendo stato il sarcofago trovato nelle vicinanze di [[Rapolla]]. Per completezza vi è da aggiungere che il grande [[Theodor Mommsen]], padre dell'epigrafia, nel suo testo ''Inscriptiones Regni neapolitani latinae'' del 1852 concluse, a proposito dell'iscrizione riportata dal Pratilli e dal Calogerà, che essa oltretutto sia falsa. Un'altra epigrafe venne invece certamente rinvenuta nei pressi del sarcofago e recita: ''Fausto Fusca Filia Posuit''. Essa è infatti menzionata nei resoconti borbonici sulla scoperta del reperto (che ovviamente tacciono sull'immaginaria ''Veneri Erycinae''). Non v'è però alcun elemento per stabilire se tale iscrizione abbia un collegamento (e quale) con il sarcofago melfitano.</ref>.
 
Negli anni settanta del Ventesimo secolo una spedizione archeologica britannica trovò proprio in contrada Albero in Piano i resti di una villa romana databili in modo compatibile al sarcofago di Melfi. Anche se il rinvenimento di una dimora magnatizia nella stessa area di ritrovamento del costoso manufatto potrebbe far inferire l'esistenza di un nesso tra i due eventi, dal punto di vista archeologico però non emersero collegamenti più significativi e probanti tra la scoperta di questo sito e il sarcofago, né si rinvennero elementi che consentissero di identificare i proprietari della ''domus''.