Pasquale Galliano Magno: differenze tra le versioni

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Ha partecipato quale avvocato difensore della signora [[Velia Titta]], vedova di [[Giacomo Matteotti]], barbaramente ucciso da un gruppo di fascisti, al primo processo per l'accertamento delle responsabilità nell'assassinio del marito.
 
L'istruttoria del processo iniziò nel giugno del [[1924]] presso il Tribunale di Roma. Il giudizio fu poi rimesso dalla Corte di Cassazione alla Corte d'Assise di Chieti, con la risibile motivazione della sussistenza di gravi motivi di pubblica sicurezza; il dibattimento ebbe quindi luogo nel [[1926]] a [[Chieti]]<ref>Il motivo per il quale fu scelta la città di Chieti può essere desunto anche dal fatto che essa, all'epoca, aveva ironicamente la nomea di città “della camomilla”[[camomilla]]”.</ref>. Non intendendo più soggiacere a soprusi e malefatte, la signora Velia Titta, pur facendo le più ampie riserve per l'esercizio delle azioni civili a lei spettanti nei confronti di tutti gli imputati, si vide costretta, date le angherie subite e lo spirito poliziesco che aleggiava nel processo, a non partecipare alla successiva fase dibattimentale: pertanto incaricò Magno al ritiro della costituzione di [[parte civile]], già avvenuta durante la fase istruttoria effettuata a Roma con l'indicazione dell'onorevole [[Giuseppe Emanuele Modigliani]] come suo patrocinatore.
 
A questo fine l‘avvocato Magno, per incarico e procura conferitagli dalla signora Velia Titta, svolse attività professionale in Chieti nei vari atti istruttori che precedettero la fase dibattimentale. A riscontro di tale attività, i magistrati<ref>La Corte d'Assise di Chieti era composta dal Presidente [[Giuseppe Francesco Danza]], dalla pubblica accusa [[Alberto Salucci]], nonché dai giurati.</ref>, i quali avrebbero dovuto rendere giustizia, si limitavano costantemente (influenzati anche dallo stato di coartazione morale stabilito dal [[fascismo]]) ad osteggiare e disattendere le varie istanze, all'evidente scopo di insabbiare il processo e comunque operare il salvataggio completo degli assassini di [[Giacomo Matteotti]], dei loro complici e mandanti: persino le richieste e le supplichevoli istanze, intese ad ottenere la restituzione degli effetti personali appartenenti alla vittima, vennero inopinatamente respinte.
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Perciò l'avvocato Magno contestò in giudizio, pubblicamente, quello che definì "un processo burla". In effetti, a conferma dei suoi sospetti e della sua denuncia, la Corte d'Assise con una vergognosa sentenza<ref>Il fatto che si sia trattato di un processo combinato è attestato anche dal fatto che - per un reale accertamento delle responsabilità - si rese necessaria, dopo la liberazione dell'Italia dal regime fascista, la celebrazione di un nuovo processo, a carico di tutti gli imputati: esso fu definito dalla Corte di assise di Roma con la sentenza del 4 aprile [[1947]], che condannò Dumini, Viola e Poveromo alla pena dell'ergastolo, poi commutata nella reclusione per trent'anni.</ref>, ritenne di dover condannare i soli imputati [[Amerigo Dumini|Dumini Amerigo]], [[Albino Volpi|Volpi Albino]], e [[Amleto Poveromo|Poveromo Amleto]] per il reato di [[omicidio preterintenzionale]]. Fu esclusa la [[premeditazione]] e furono concesse le [[attenuanti]] generiche. I tre assassini furono condannati alla pena di cinque anni, mesi undici e giorni venti di reclusione, nonché all'interdizione dai pubblici uffici.
 
La gratitudine della signora [[Velia Titta]] per l'opera professionale, che l'avvocato [[Pasquale Galliano Magno]] stava svolgendo nel processo, risulta attestata nella lettera che ella gli inviò in data 29 marzo 1926.
La gratitudine della signora [[Velia Titta]] per l'opera professionale, che l'avvocato Magno stava svolgendo nel processo, risulta attestata nella lettera che ella gli inviò in data 29 marzo 1926. Vi si legge: “confermo fin d'ora la mia riconoscenza per quanto potrà fare in materia che tanto mi sta a cuore“. E si legge ancora: “Colgo l'occasione di ringraziarla per ciò che ella ha fatto in questo doloroso frangente, convinta che le venga resa tanta stima e considerazione da tutti coloro che ancora hanno e possono apprezzare la bontà d'animo e la dirittura della coscienza”. All'uopo va detto che con l'istanza, scritta di suo pugno e datata 29 marzo 1926, Velia Matteotti faceva presente e lamentava che non le era stato ancora restituito “ciò che apparteneva al suo defunto marito” e che “si trattava di altissimo valore morale specialmente per la vedova e gli orfani del defunto”. E più oltre scriveva: ”Salvo errore le cose da restituire sono le seguenti: -lettera ferroviaria - una ciocca di capelli - falangetta - giacca e pantaloni (compresa la manica staccata)”. A conclusione dell'istanza dichiarava: “ la sottoscritta delega per il ritiro di quanto sopra l'avv. Pasquale Galliano Magno di Chieti”. Seguiva la firma “Velia Matteotti” e la data “Roma 29 marzo 1926”.
Con successiva lettera 2 aprile 1926, inviata all'avvocato Magno, la signora Velia Titta così scriveva: “Mi lusingo che la sua premura e la volontà del buon esito in un atto pietoso, arrivino a superare le difficoltà possibili, di una pratica così delicata. Le esprimo la mia riconoscenza per quanto potrà fare”. Anche in questo suo ulteriore scritto la signora Velia Titta confermava, attestava e ribadiva l'apprezzamento e la stima che provava per il professionista che, con tenace impegno, aveva cura dei suoi legittimi interessi. Va altresì ricordato che la signora Velia Titta donò, con un gesto di gratitudine e riconoscenza, la penna stilografica del defunto suo marito all'avvocato Magno, penna che suo figlio, avvocato Carlo Eugenio Magno, oggi custodisce presso un istituto bancario.
 
Già allora l'abitazione e lo studio professionale dell'avvocato Magno - nel [https://web.archive.org/web/20160304120555/http://infochieti.it/film/palazzi3.swf palazzo Tella], al civico numero cinque di via dello Zingaro in Chieti - furono oggetto di varie perquisizioni e di sequestri di atti e documenti inerenti al processo. Solo poche lettere e veline di comparse furono salvate, nascondendole altrove. L'epoca era quella di un fascismo violento, quando i magistrati, anche i più noti di essi, ricevevano ordini che scendevano dall'alto. Le “squadracce” fasciste costrinsero l'avvocato Magno ad ingurgitare [[olio di ricino]], bastonandolo, come umiliazione e “castigo” per l'attività che stava esercitando, con impegno, lealtà e rettitudine, nel processo. Iniziò così contro di lui il periodo dei soprusi e delle persecuzioni, durato fino al crollo del fascismo.
 
===Nel secondo dopoguerra===