Geremia Dressellio: differenze tra le versioni

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==Opere ==
* ''[[Helianthus annuus|Heliotropio]]'' o ''Conformare la volontà umana a quella Divina'', cinque volumi edito nel [[1627]]
* ''Gymnasium Patientae'' volgarizzata come ''[[s:Scola della Patienza|Scola della Patienza]]'' o anche ''Gymnasium of Patience'' volgarizzata dal P. [[Lodovico Flori]]. Edita da Hermanno Scheus [[Roma]] [[1643]] con imprimatur di [[Urbano VIII]] del 26 aprile [[1641]] <ref>Nel suo libro ''[[s:Scola della Patienza|Scola della Patienza]]'' Geremia Dressellio racconta la storia di tale '''[[Pecchio Cisalpino]]''' nel capitolo dedicato all''''[[s:Scola della Patienza/Parte seconda/Capitolo II/P3|Astinenza]]''', storiella che in forma di parabola ripropone, mescolandoli e trasponendoli in un tempo precedente, tutti i fatti salienti della vicenda che vide protagonista suor [[Virginia de Leyva]] ([[1575]]-[[1650]]) così come risulta dagli atti del suo processo e conseguente condanna. Fonte: pag.359/368 del libro la '''''[[s:Scola della Patienza|Scola della Patienza]]'''''. La stessa storiella viene solo citata da '''[[Jacob Balde]]''' nel suo '''''Solatium podagricorum''''' del [[1661]] che invece mette l'accento sui [[Battaglia di Pavia (1525)|fatti d'arme]] e la [[gotta]] del [[bisnonno]] di suor [[Virginia de Leyva|Virginia]], [[Antonio de Leyva]] ([[1480]]-[[1536]]), creando in tal modo una relazione diretta tra i fatti. Ciò testimonia l'eco suscitata nella pubblicistica dei contemporanei di suor [[Virginia de Leyva]], lei ancor vivente, della sua tragica vicenda umana poi romanzata dal [[Alessandro Manzoni|Manzoni]] nei [[Promessi Sposi]].</ref><ref>'''Scola della Patienza''' - Parte seconda Capitolo II - pag.359 -'''[[s:Scola della Patienza/Parte seconda/Capitolo II/P3|§.3.Della Astinenza.]]''' Oltre della ''Compassione''' nella Scuola della Pazienza impariamo ancora l''''Astinenza''' e la '''Temperanza'''. Vi son molte cose che mentre le possediamo ci pare di non potere starne senza, ma quando ci sono levate, noi stessi ci maravigliamo della facilità che sentiamo in non haverle. Si trova talvolta un mercante ricco e splendido che non sa uscire di casa se non è accompagnato da una buona comitiva di servitori, ma se questo a sorte cade in povertà, allora prova quanto sia facil cosa l'andar solo e senza compagnia. Si trova uno per viaggio, che per essergli subito fatto notte, non potendo per l'oscurità arrivare al destinato alloggiamento, è forzato a starsene in campagna e starsene la notte sotto a un albero, e perché ha portato seco poca provisione è sforzato finalmente confessare e dire: io non sapevo di poter cenare con due denari. Vi è un artigiano che un tempo fu ricco e teneva buona tavola, ma perché non volle affaticarsi e non attese alle sue faccende, consumò ogni cosa e ridotto in povertà, si riduce alla fine a mangiare la mattina un poco di insalata senza oglio e la sera a passarsela così a digiuno, o pure con una scodella di brodo senz'occhi e con un poco d'acqua fresca, onde poi va dicendo a se stesso: io non sapevo di poter vivere così parcamente. Vi sarà ancora qualcheduno di questi Postiglioni, o procacci, che haverà seppellito tutto il suo [avere] nelle hostarie e nelle taverne, e da cavallo restando a piedi: sia ringraziato Dio, dice, che di nuovo m'ha fatto levare in piedi. Io non sapevo prima quando me ne andavo a cavallo di poter così bene camminare. Così fa Dio con molti che con una salutifera penuria gli riduce alla mediocrità e alla temperanza. Vi sono molti che stanno così ostinati nel loro proprio giudizio, che dicono, uno: io non posso stare senza una buona tavola, l'inedia non fa per il mio stomaco. Un altro poi dice: io non posso far la vita mia senza compagnia. Quell'altro dice: ed io se non bevo molto bene sono come un pesce in secco. Ma quando la povertà o qualche altra calamità levano loro il cibo, i compagni, e il sonno e gli mutano il vino in acqua, allora sperimentano benissimo in fatti quanto sia facile il vegliare, il mangiare poco, il digiunare, l'esser privo del vino e dei compagni. La calamità è maestra della Temperanza. Nelle scarsezze impariamo la sobrietà e la parsimonia. E spesse volte non giova niente l'esser parco al fine.
Quanti huomini grandi e nobili che noi habbiamo conosciuto, hanno imparato in una prigione a mangiare con pochissima spesa, che prima la lor tavola a pena era bastante a sostener tante vivande? Sentite, di grazia, una cosa maravigliosa che vi farà trasecolare, ed è cosa che fa molto al proposito nostro.<br>
'''''Pecchio Cisalpino''', huomo assai industrioso e di grande animo, venne in odio a un Signore assai ricco e potente e facendo egli una volta un viaggio, dette negli agguati del suo nemico e così fu preso e come un gatto rinchiuso in un sacco fu portato in un castello. Quivi il povero Pecchio fu messo in una oscura e profonda prigione, e senza che alcuno di quei di casa sapesse mai che cosa passasse, fu dal Signore del Castello dato in cura ad un suo più fidato servitore, con ordine severissimo che senza far di ciò parola con nessuno l'andasse mantenendo di questa maniera:''' che non gli desse altro ogni giorno che un pezzetto di pane molto scarso e un pochetto d'acqua , con che quel meschino potesse non tanto lungamente vivere, quanto sentirsi continuamente e lentamente morire.''' Far questo mentre '''Pecchio''' era cercato per tutte le città e luoghi di quel paese; ne essendosi esso potuto trovare, fu trovato solamente il suo cavallo macchiato un poco di sangue. Laonde sospettandosi che egli fosse stato ucciso, furono fatte grandissime diligenze per trovarne l'autore. Alla fine furono ritrovati due coi quali si sapeva che una volta egli haveva havuto una certa rissa. Questi poveri meschini confessarono a forza di tormenti, se bene ciò non era vero, che essi l'havevano ammazzato. Onde essendo stati perciò condannati, '''ad uno fu tagliato il capo''' e l'altro fu impiccato.