Carta del Lavoro: differenze tra le versioni

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La '''Carta del Lavoro''' è uno dei documenti fondamentali del [[Fascismo]], varato il [[21 aprile]] [[1927]]: esprime i suoi principi sociali, l'etica del [[sindacalismo fascista]] e la [[politica economica fascista]].
 
== La Carta del Carnaro ==
{{Vedi anche|Carta del Carnaro}}
La Carta del Carnaro ha una matrice che discende dall'[[interventismo]] di sinistra dei [[Fasci d'Azione Internazionalista]], ma soprattutto dal [[sindacalismo rivoluzionario]] di [[Alceste De Ambris]] e [[Filippo Corridoni]], che in parte si ritrova nel [[s:Manifesto dei Fasci italiani di combattimento, pubblicato su "Il Popolo d'Italia" del 6 giugno 1919|Manifesto]] dei [[Fasci Italiani di Combattimento]], pubblicato su "[[Il Popolo d'Italia]]" il [[6 giugno]] [[1919]]. Nello specifico, dal manifesto pubblicato su ''[[Il Popolo d'Italia]]'', viene estrapolata la parte più legata al [[fascismo di sinistra]] del [[s:Programma di San Sepolcro, pubblicato su "Il Popolo d'Italia" del 24 marzo 1919|Programma]] di [[Sansepolcrismo|Piazza San Sepolcro]]; tralasciando i propositi imperiali e risultando base ideale del Fascismo, ma da esso applicato solo in parte a causa della contrarietà della [[Casa Savoia|monarchia]] e degli ambienti industriali e conservatori.
 
Soltanto il [[sindacalismo fascista]] negli [[anni 1920|anni venti]] si distaccò in parte dalla cultura ufficiale del Fascismo, rifacendo suo il mito dell'[[Impresa di Fiume]] e della [[Carta del Carnaro]] redatta da [[Alceste De Ambris]].<ref>Giuseppe Parlato, ''La sinistra fascista'', Bologna, Il Mulino, 2000 pag 88: "Che la cultura sindacale fosse, nel profondo rimasta antagonista.... lo dimostrò uno dei miti del sindacalismo fascista, l'impresa fiumana, che divenne il punto di discrimine più evidente fra la cultura fascista ufficiale che preferiva non evocare il Comandante e la "città olocausta" come prodomo del fascismo, e una cultura sindacale nella quale il ricordo della Carta del Carnaro era talvolta taciuto ma pur vivo ed attuale"</ref>
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== L'approvazione della Carta del Lavoro ==
Il documento fu preparato e discusso una prima volta il [[6 gennaio]] [[1927]], ma subisce una certa difficoltà a vedere la luce, per il dibattito il seno alle confederazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro.<br />
Sebbene esse ritenessero di dover superare la lotta di classe in favore della collaborazione, le posizioni rimangono distanti ed il [[Gran Consiglio del Fascismo]] si trova costretto a moderare le varie istanze. Imponendo rinunce ad entrambi, il governo riesce a conciliare le parti: viene ad esempio respinto il minimo salariale per categoria, ma vengono accettate indennità di licenziamento, conservazione del posto di lavoro in caso di malattia ed assicurazioni sociali.
 
Il testo redatto da [[Carlo Costamagna]], riveduto e corretto da [[Alfredo Rocco]], fu poi approvato dal [[Gran Consiglio del Fascismo]] il [[21 aprile]] 1927.
Nonostante non avesse valore di legge o di decreto, non essendo allora il Gran Consiglio organo di Stato ma di partito, esso fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 100 del [[30 aprile]] 1927.
 
Porta le firme del capo del governo, dei ministri, dei sottosegretari, dei dirigenti del partito, dei presidenti delle [[Corporativismo#Le_corporazioni_durante_il_regime_fascista|confederazioni professionali dei datori di lavoro e dei lavoratori]] e si compone di trenta [[assiomi]], o enunciazioni, numerati con cifre romane. Dichiara che ''il lavoro è un dovere sociale'' e che il suo fine è assicurare, assai più che la giustizia, la ''potenza della Nazione'', determinando il termine della [[lotta di classe]].
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Secondo il Casini, su [[Gerarchia (rivista)|Gerarchia]] del [[1927]], i punti fondamentali e più innovativi della Carta del Lavoro erano tre. Innanzitutto il riconoscimento delle Corporazioni, della [[proprietà privata]] e il [[Contrattazione collettiva|contratto collettivo di lavoro]] reso obbligatorio.
 
La conquista delle ferie pagate e delle indennità in caso di morte o di licenziamento sono state definite come:
{{quote|pratici beneficii che i lavoratori non erano mai riusciti a raggiungere attraverso i cartelloni demagogici della democrazia e che invece allora essi realizzavano, nella perfetta soddisfazione dei datori di lavoro.<ref>Attilio Tamaro, ''Venti anni di storia'', Editrice Tiber, Roma, 1953, pp. 229</ref>|Giuseppe Bottai}}
 
Alcuni tra gli ex avversari del [[fascismo]] si dichiararono "conquistati" dalla politica sociale varata dal governo [[Mussolini]].<br />
L'ex deputato [[Massimalismo (politica)|massimalista]] [[Romeo Campanini]] scrive una lettera (pubblicata da [[Il Popolo d'Italia]]) dove si dice "pentito": le [[Politica sociale (fascismo)|politiche sociali fasciste]] lo hanno costretto "ad un severo esame di coscienza".<br />
Lo stesso giornale, il [[5 maggio]], pubblica una lettera dell'ex redattore capo dell'[[Avanti]] [[Pio Gardenghi]]: in essa si esprime l'approvazione per la ''Carta del Lavoro'' e si manifesta la volontà di correggere i vecchi errori.<br />
I [[Cattolici Nazionali|cattolici nazionali]] indirizzano a Mussolini un messaggio dove spiegano perché si sono separati dal partito popolare e assicurano: ''la nostra adesione al regime, più che frutto dell'entusiasmo, è dovuta a meditazione e convincimento''.<br />
Consensi al regime erano venuti, soprattutto dagli operatori economici, dopo il discorso di [[Pesaro]] dove Mussolini aveva affermato: "''Voglio dirvi che difenderò la lira italiana fino all'ultimo respiro, fino all'ultimo sangue. Non infliggerò mai a questo meraviglioso popolo italiano l'onta morale e la catastrofe del fallimento della lira''".