Il processo (film 1962): differenze tra le versioni

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== Critica ==
Le reazioni al film furono contrastanti. Parte della critica rimproverò a Welles una certa "freddezza" nell'esposizione del racconto, l'incapacità di coinvolgere lo spettatore nella vicenda narrata. La critica più frequente che venne mossa al regista fu quella di non essersi attenuto rigorosamente all'opera di Kafka.<ref name="cita|Valentinetti, 1995|p. 66">{{cita|Valentinetti, 1995|p. 66.}}</ref> In effetti, ''Il processo'' di Orson Welles differisce notevolmente dall'originale kafkiano. Il protagonista Josef K. è molto più aggressivo, spavaldo e ironico che nel libro; manca inoltre il cosiddetto "monologo interiore" che sottintende tutto lo svolgersi della storia. Sparisce la passività del K. letterario e il finale viene significativamente modificato rispetto al romanzo. Anche la scelta di [[Anthony Perkins]] come protagonista venne criticata, ritenuto l'attore statunitense troppo poco espressivo e "caricato" nella recitazione,<ref name="cita|Valentinetti, 1995|p. 68">{{cita|Valentinetti, 1995|p. 68.}}</ref><ref>Mereghetti, Paolo. ''Il Mereghetti'', Baldini & Castoldi, 2002, pag. 1653</ref> i personaggi senza spessore e gli attori generalmente mal diretti. Non tutte le critiche furono negative però, alcuni critici lodarono la maestria di Welles nel rendere sullo schermo le atmosfere allucinate simili ad un incubo del romanzo di Kafka, e l'immaginifico talento visivo del regista. Il critico Sandro Studer, sul n° 3 di ''Metropolis'' (maggio 1979) arrivò a definire il film "il vero capolavoro di Welles, degno di stare alla pari con ''Quarto Potere''".<ref name="cita|Valentinetti, 1995|p. 68"/> Anche lo stesso Welles era soddisfatto dell'opera e così si espresse, durante un'intervista pubblicata ai ''[[Cahiers du Cinéma]]'', nei confronti di essa: «Dite quel che volete, ma ''Il processo'' è il miglior film che abbia fatto».<ref name="cita|Valentinetti, 1995|p. 66"/>
 
Non tutte le critiche furono negative però, alcuni critici lodarono la maestria di Welles nel rendere sullo schermo le atmosfere allucinate simili ad un incubo del romanzo di Kafka, e l'immaginifico talento visivo del regista. Il critico Sandro Studer, sul n° 3 di ''Metropolis'' (maggio 1979) arrivò a definire il film "il vero capolavoro di Welles, degno di stare alla pari con ''Quarto Potere''".<ref name="cita|Valentinetti, 1995|p. 68"/> Anche lo stesso Welles era soddisfatto dell'opera e così si espresse, durante un'intervista pubblicata ai ''[[Cahiers du Cinéma]]'', nei confronti di essa: «Dite quel che volete, ma ''Il processo'' è il miglior film che abbia fatto».<ref name="cita|Valentinetti, 1995|p. 66"/>
In definitiva [[Orson Welles]] ci mostra con grande lucidità un universo in cui la follia è una miscela di freddezza, perversione e carnalità, dove tutti sono colpevoli e dove molti sono solo pedine in un gioco a loro incomprensibile, come i poliziotti incaricati dell’arresto di K., torturati perché questi aveva detto davanti alla corte di essere stato derubato da loro.
 
In definitiva [[Orson Welles]] ci mostra con grande lucidità un universo in cui la follia è una miscela di freddezza, perversione e carnalità, dove tutti sono colpevoli e dove molti sono solo pedine in un gioco a loro incomprensibile, come i poliziotti incaricati dell’arresto di K., torturati perché questi aveva detto davanti alla corte di essere stato derubato da loro.
Il film racconta la discesa di un cittadino nel claustrofobico ambiente giudiziario, in una carrellata di ambienti che vanno via via restringendosi, dalla ampiezza dell’aula della corte suprema agli spazi angusti dei corridoi e dell’atelier del pittore. Questo effetto trasmette allo spettatore il crescere dell’angoscia di K., che si placa solo nel momento in cui accetta la condanna e il suo destino, momento in cui ci è mostrato nuovamente un ambiente aperto. In più, la scelta delle [[inquadratura|inquadrature]] fa chiaramente vedere al pubblico come sia piccolo e insignificante il comune cittadino di fronte all’imponenza della legge; questo è palese ad esempio nella sequenza in cui Josef e la cugina si trovano davanti al palazzo di giustizia e i loro corpi si perdono tra la maestosità delle statue che adornano la scalinata.
 
Il film racconta la discesa di un cittadino nel claustrofobico ambiente giudiziario, in una carrellata di ambienti che vanno via via restringendosi, dalla ampiezza dell’aula della corte suprema agli spazi angusti dei corridoi e dell’atelier del pittore. Questo effetto trasmette allo spettatore il crescere dell’angoscia di K., che si placa solo nel momento in cui accetta la condanna e il suo destino, momento in cui ci è mostrato nuovamente un ambiente aperto. In più, la scelta delle [[inquadratura|inquadrature]] fa chiaramente vedere al pubblico come sia piccolo e insignificante il comune cittadino di fronte all’imponenzaall'imponenza della legge; questo è palese ad esempio nella sequenza in cui Josef e la cugina si trovano davanti al palazzo di giustizia e i loro corpi si perdono tra la maestosità delle statue che adornano la scalinata.
 
Un elemento molto particolare di questo lungometraggio è la sequenza di apertura, giudicata da alcuni critici la parte migliore del film. L'intera sequenza è stata realizzata da [[Alexander Alexeieff]] usando il suo celebre schermo di spilli: uno schermo in cui erano infissi perpendicolarmente migliaia di spilli retrattili, che proiettavano un'ombra a seconda del modo in cui venivano spostati; grazie quindi al gioco di chiaroscuri prodotto dalle ombre degli spilli, si potevano realizzare immagini in movimento.