Intenzionalità: differenze tra le versioni

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L''''intenzionalità''', nella specifica corrente filosofica della [[fenomenologia]], è l'attitudine costitutiva del [[pensiero]] ad avere sempre un contenuto, a dirigersi necessariamente verso un [[oggetto (filosofia)|oggetto]], senza il quale il pensiero stesso non sussisterebbe.<ref>Nicola Abbagnano, ''Linee di storia della filosofia'', III vol., pag. 182, Paravia, Torino 1960.</ref> Non ha a che vedere con la libera [[volontà]] né con l'agire "intenzionalmente", avendo dal punto di vista filosofico soltanto un significato tecnico.
==Origine ed evoluzione del termine==
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===Husserl===
[[Edmund Husserl]] riprese la nozione da Brentano, ma introducendo alcune significative distinzioni. All'interno di ogni vissuto intenzionale si possono individuare due aspetti: uno soggettivo, che cioè prende in considerazione l'atto intenzionale, e chiamòuno obiettivo, che invece considera l'oggetto inteso in quanto tale. Husserl chiama ''noesi'' l'aspetto soggettivo dell'atto intenzionale (ad esempio il pensare), e ''noema'' l'elemento oggettivo (il pensato), da non confondere con l'oggetto esterno, la cui reale esistenza inal fondodi nonfuori hadell'esperienza è per il filosofo moravo una questione importanzametafisica. LaL'oggetto caratteristicainteso delldalla coscienza però non è un oggetto intra-mentale, bensì l'intenzionalitàoggetto reale. L'oggetto inteso è quindi per Husserl la [[trascendenza|trascendente]], in quanto, nel rapportarsi al suo oggetto, il [[pensiero]] è rivolto verso altro da sé, versoe una realtà che supera il pensiero stesso, il quale la recepisce attraverso la sua manifestazione fenomenica,tuttavia a differenza della percezionequalcosa che lafa coscienza ha diparte sedell'esperienza. medesima, che avviene in forma [[immanente]], cioè direttamente o senza [[fenomeno]] intermediario.
 
===Ulteriori sviluppi===