Arbegnuoc: differenze tra le versioni

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[[File:19 febbraio 1937Graziani con l'abuna Kirillos nel Ghebì poco prima dell'attentato.jpg|thumb|left|upright=1.1|19 febbraio 1937: il maresciallo Graziani assiste insieme ad autorità italiane e notabili locali alla cerimonia poco prima dell'attentato.]]
 
L'esplosione delle bombe, provocò sette morti e circa cinquanta feriti tra cui il maresciallo Graziani che rimase seriamente ferito a causa delle numerose schegge che lo raggiunsero; subito dopo l'attentato si scatenò il panico tra la folla e i militi della sicurezza aprirono il fuoco nella massima confusione contro gli etiopici provocando decine di morti<ref>{{cita|Dominioni|p. 178}}</ref>. Il drammatico evento innescò l'immediata reazione italiana; la repressione e la rappresaglia ebbero inizio fin dal pomeriggio stesso del 19 febbraio, mentre da Roma Mussolini e Lessona ordinarono subito un "radicale repulisti" e le "più rigorose misure"<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 83-84}}</ref>. L'[[strage di Addis Abeba|azione repressiva]] venne diretta in particolare dal capo della federazione fascista di Addis Abeba [[Guido Cortese (federale)|Guido Cortese]] ed ebbe inizialmente un carattere sommario e brutale: i militari e i fascisti della capitale procedettero ad esecuzioni in massa, distruzione di abitazioni, rastrellamenti di presunti oppositori; alcune migliaia di etiopici furono raccolti in campi improvvisati<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 84-86}}</ref>. Dopo tre giorni di violenze incontrollate, il 21 febbraio 1937 il maresciallo Graziani diede disposizione a Cortese di arrestare temporaneamente la repressione; sembra che circa 3.000 persone furono uccise dagli italiani durante questa prima fase di rappresaglia<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 86-88}}</ref>.
 
In realtà la vera repressione non era ancora iniziata; il maresciallo Graziani, apparentemente convinto, sulla base delle superficiali indagini giudiziarie svolte in fretta dalle autorità, che l'attentato fosse opera di un vasto gruppo di opposizione etiopico coinvolgente gran parte delle personalità superstiti della dirigenza abissina, diede inizio il 26 febbraio alla sistematica fucilazione degli esponenti più importanti della resistenza già sottomessi o catturati in precedenza<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 89-91}}</ref>. In pochi giorni furono quindi uccise personalità della cultura, ex-funzionari, gli ultimi cadetti di Oletta, giovani ufficiali ''arbegnuoc'' come Keflè Nasibù, Belai Haileab e Ketema Bechà, capi prestigiosi come [[Bellahu Deggafù]], ritenuto il principale capo del complotto<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 92-93}}</ref>. Subito dopo il maresciallo Graziani, sulla base anche delle direttive provenienti da Roma, estese ulteriormente l'azione di repressione; dal 19 marzo, con l'approvazione del ministro Lessona, il viceré procedette all'arresto di tutti i cantastorie, stregoni e indovini, considerati diffusori di notizie false e suscitatori di idee "pericolose per l'ordine pubblico", che vennero subito brutalmente "passati per le armi"<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 98-99}}</ref>. Il numero dei fucilati crebbe costantemente nei mesi dell'estate 1937; le azioni di violenza spesso si svolsero senza alcuna norma legale, nella confusione, sulla base di direttive generali che disponevano la distruzione dei villaggi e l'eliminazione soprattutto dell'etnia amahra, anche in assenza di segni di ostilità verso l'occupante o della presenza di combattenti ''arbegnuoc''; alcuni ufficiali italiani mostrarono grande durezza nelle operazioni repressive; in particolare il generale [[Pietro Maletti]] che affermò di aver messo "a ferro e fuoco" lo Scioa<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 99-102}}</ref>.