La seconda guerra servile scoppiò in Sicilia nel 104 a.C. e durò fino al 99 a.C. In quel tempo Roma era impegnata nella difficile campagna numidica, contro Giugurta (bellum Iugurtinum), re di Libia e Numidia, che aveva tenuto in scacco diversi eserciti romani, che non avevano concluso nulla fino a che il comando era stato trasferito a Gaio Mario, che in breve tempo risolse la partita a favore di Roma. Contemporaneamente Roma era impegnata con le legioni migliori in Gallia contro i Cimbri ed i Teutoni che, qualche anno prima, erano migrati dalla penisola dello Jutland, nella Germania settentrionale, verso le terre più calde e fertili del Mediterraneo. Non appena scoppiò la rivolta in Sicilia, Roma non fu in grado di organizzare un forte esercito per reprimerla, siccome le sue truppe migliori, come abbiamo visto erano impegnate altrove e poi anche perché era diffusa convinzione comune che una guerra servile non fosse molto onorevole per chi la combatteva, visto che gli avversari erano non uomini, ma cose e poi non v'era prospettiva di bottino e di premio di congedo per i legionari, né di trionfo per i comandanti. Perciò vi era difficoltà di reclutamento. Ancora una volta Diodoro Siculo (Bibl. 36, 2, 3-6) ci è testimone di quanto accadde. I prodromi della rivolta si ebbero nel 105 a.C. a Nucera e Capua, dove piccole pattuglie di schiavi fuggitivi si ribellarono, ma furono facilmente, dato il loro numero ridotto, represse nel sangue. L'anno seguente il Senato aveva autorizzato Gaio Mario a reclutare truppe ausiliare presso gli stati alleati, ma alcuni di questi risposero che non era possibile fornire alcun contingente, siccome i razziatori di schiavi, sempre molto attivi, avevano del tutto spopolato intere province dei loro territori, rapendo uomini liberi per venderli come schiavi, il che era prassi comune per lo schiavismo antico. Il Senato, contrariato da questi rapporti, decretò di fare un'inchiesta per accertare se e quanti cittadini liberi di stati alleati fossero stati razziati con la forza e venduti schiavi, affinché fosse loro restituita la libertà. Il propretore Licinio Nerva che governava la Sicilia accettò di jus dicere, com'era tra i suoi poteri, in questi processi, dando udienza tutti quelli che, dichiarandosi ingiustamente detenuti come schiavi, rivendicassero lo stato libero. In pochi giorni centinaia di schiavi furono liberati. Gli altri, esclusi dai provvedimenti di manomissione, si ribellarono, sperando in provvedimento di clemenza generale. Perciò, accade che numerosi e facoltosi latifondisti siciliani, proprietari d’intere folle di schiavi, protestarono presso il governatore provinciale per la sedizione che i suoi provvedimenti aveva seminato tra gli schiavi e riuscirono in un modo o nell'atro ad ottenere la cessazione di questi processi sullo stato degli schiavi che rivendicavano la libertà. A questo punto gli schiavi insorsero in massa e presso Alice iniziarono a compiere scorrerie e saccheggi, fortificandosi in un luogo ben munito. Licinio Nerva, dopo un primo tentativo d’assalto fallito, riuscì con uno stratagemma, ad espugnare la piazzaforte degli schiavi. Egli, infatti, indusse un certo Gaio Titinio, soprannominato Gadeo, ex condannato a morte, fuggitivo e dedito al brigantaggio, a cattivarsi la simpatia degli insorti e, poi, aprire le porte della rocca ai Romani. Così accadde e parte degli schiavi fu trucidata, parte preferì gettarsi in un dirupo per scappare gli atroci supplizi che li attendevano come punizione. Nerva non aveva fatto a tempo a congedare le sue truppe (ricordiamo che Roma fin quasi alla fine della repubblica non ebbe eserciti permanenti, ma solo legioni che erano arruolate di volta in volta per le singole campagne e che, poi, una volta che questa fosse conclusa, erano congedate e disciolte)che giunse voce che un'altra ribellione di schiavi era scoppiata. Perciò, il propretore si gettò all'inseguimento e poi all'attacco dei ribelli, pensando di sconfiggerli facilmente, ma questi, dopo aver raggiunto Heraclea Minoa, che era il caposaldo degli schiavi fuggitivi, diedero battaglia al legato di Nerva, M. Titinio, il quale fu sonoramente sconfitto. A quel punto il successo rafforzò le fila dei ribelli, i quali raccolsero le armi dei legionari morti e molti altri schiavi fuggitivi, cui era giunta notizia della rivolta e raggiunsero il numero di 6000 unità. Essi nominarono loro capo e re un certo Salvio che godeva fama d’indovino, il quale ordinò di compiere scorrerie e saccheggi in tutta la Sicilia. Gli schiavi giunsero a stringere d’assedio la città di Morgantina, in cui aiuto accorsero le truppe regolari romane, che riuscirono in un primo momento a cogliere un parziale successo, ma per la stoltezza del loro comandante furono prese di sorpresa da un contrattacco dei ribelli che riuscirono a sbaragliarli completamente, anche perché Salvio aveva dato ordine di risparmiare i legionari che gettassero le armi e si dessero alla fuga, per cui molti soldati romani ed alleati mobilitati preferirono darsi alla fuga. In conseguenza della condotta dissennata ed improvvisata della guerra, le file degl’insorti si accrebbero ancor di più di numero, per il clamore destato dalle gesta del vero e proprio esercito che si era andato costituendo attorno Salvio. Posto di nuovo l’assedio a Morgantina, qui i padroni degli schiavi promisero loro che, se avessero combattuto contro gl’insorti, sarebbero stati manomessi e concessa loro la libertà. Essi effettivamente respinsero i ribelli, ma Nerva rinnegò la promessa dei padroni, rifiutandosi di jus dicere nei processi di stato in favore degli schiavi cui era stata promessa la libertà. Il comportamento davvero scellerato di Nerva indusse tutti gli schiavi, a quel punto, ad insorgere, poiché era chiaro ormai che solo nella rivolta v’era l’unica speranza di libertà. Perciò le fila di Salvio s’ingrossarono a dismisura. Contemporaneamente si ribellarono gli schiavi delle città di Segesta e Lilibeo, al comando di un certo Atenione, che giunse a cingere d’assedio Lilibeo stessa. Nel frattempo erano giunte delle truppe numidiche via mare in rinforzo ai Romani, questi colsero solo un successo parziale contro gli schiavi fuggitivi. Durante le operazioni di guerra, la Sicilia piombò nel più assoluto caos ed anarchia, in quanto le campagne erano completamente sotto il controllo delle bande di schiavi che compivano saccheggi, razzie, massacri e stupri, mentre le città erano in balia di se stesse, visto che non v’era più alcun’autorità capace di far rispettare le leggi ed ognuno prese a commettere i crimini più efferati ed abominevoli con la certezza dell’impunità. Le truppe dei ribelli giunsero al punto di fondersi e coordinarsi, raggiungendo l’incredibile numero di 60000 unità ed i loro capi decisero di fortificare Triocala. A questo punto, era chiaro a Roma che la situazione era sfuggita di mano all’incapace propretore Nerva, per cui Lucio Licinio Lucullo fu investito del comando di un’armata con il compito di spazzare via i ribelli. Sul campo di Scirtea i due eserciti si scontrarono a battaglia campale, che ebbe alterne vicende, fino alla vittoria, quasi fortunosa, colta dai Romani, che abbatterono circa 20000 nemici. Lucullo per indolenza o forse, come si disse, per corruzione, non attaccò subito i ribelli sfruttando il vantaggio acquisito sul campo, per cingere d’assedio Triocala, ma senza fortuna, anzi collezionando rovesci. Giunsero nel 102 a.C. al Senato di Roma rapporti allarmanti circa l’indecisa ed incapace condotta delle operazioni da parte di Lucullo, il quale, venuto a sapere che il pretore Gaio Servilio si accingeva con un nuovo esercito ad invadere la Sicilia, ordinò di distruggere tutti gli accampamenti ai soldati, affinché anche il nuovo venuto fallisse il suo compito e, dunque, la sua colpa, agli occhi del Senato, fosse sminuita. Servilio non fu migliore, perciò risulta che entrambi i comandanti romani furono processati davanti al Senato, che chiedeva conto della loro condotta delle oprazioni, e furono entrambi condannati all’esilio. Sotto il quinto consolato di Gaio Mario, il collega Manio Aquilio assunse il comando di un grande esercito consolare, per stroncare definitivamente la rivolta. Infatti, in una grande battaglia, in cui il console uccise personalmente Atenione in duello, le forze dei ribelli furono spazzate via ed essi furono uccisi a decine di migliaia. I superstiti subirono la caccia incessante di Aquilio, il quale continuò a decimarli, fino al punto che gli ultimi rimasti si arresero e furono mandati a Roma per damnatio ad bestias, per essere stati condannati a combattere nel circo con le belve feroci. Ma qui essi sorpresero tutti e rifiutandosi di combattere con gli animali, preferirono uccidersi l’uno l’altro fino all’ultimo. Così aveva termine la seconda guerra servile che era costata oltre centomila morti, se pensiamo ai soli combattenti, per non parlare delle popolazioni civili depredate e massacrate, nonché immani distruzioni materiali, che avrebbero pesato ancora a lungo sulla storia dell’economia e la società della Provincia Sicilia.