Meccanica statistica modifica

Sia dato un sistema fisico macroscopico e sia s un suo stato microscopico, descritto dagli stati di tutti gli elementi microscopici del sistema. Diciamo che il sistema è descritto in modo statistico quando anziché essere data la funzione s(t) che determina lo stato miscroscopico in ogni istante di tempo, si dia solo la funzione P(s) che esprime la probabilità di trovare il sistema nello stato s.

Più precisamente la funzione P(s) è definibile solo quando gli stati possibili del sistema sono discreti:  . Altrimenti, se s assume tutti i valori di un insieme continuo, si potrà definire solo la densità ρ(s) tale che:

 .

Se F è una grandezza fisica del sistema, essa dipenderà solo dallo stato s sicché potrà essere espressa dalla funzione F(s), e qualora fosse nota la funzione s(t) il valore di F al tempo t sarebbe dato dalla funzione  .

Se invece il sistema è descritto in modo statistico, allora in ogni istante t potremo calcolare solo la probabilità di trovare per F un certo valore Fk, la quale sarà pari alla probabilità di trovare il sistema in uno degli stati si per i quali la F assume il valore Fk:

 

Il valor medio di F sarà invece:

 


Sia A e B due sistemi fisici, e siano   e   i loro stati possibili. Gli stati del sistema AB, costituito dall'unione di A con B, saranno dunque  .

Se i due sistemi A e B sono entrambi macroscopi ed essi interagiscono solo lungo la superficie di contatto, la probabilità   di trovare A nello stato   è indipendente dalla probabilità   di trovare B nello stato  . Di conseguenza si ha:

 

Poiché le probabilità degli stati del due sottosistemi si moltiplicano, il loro logaritmo è additivo:

 

Funzione modifica

Il concetto di funzione è uno dei concetti fondamentali di tutta la matematica, come è anche il concetto di insieme. Tutti sembrano essere in grado di cogliere intuitivamente il significato di questi termini, ma quando si tenti di darne una definizione quasi sempre ci si rende conto che si stanno enunciando più o meno esplicitamente delle tautologie. Così per definire l'insieme si potrebbe essere tentati di dire che si tratta di una molteplicità, dopodiché quando si cercasse di dire che cos'è una molteplicità potrebbe venir spontaneo dire che si tratta di più oggetti che vengono pensati... assieme.

Buona parte della matematica del XX secolo è stata dedicata allo sforzo di superare l'acquisizione intuitiva del concetto di insieme per addivenire ad una definizione formale rigorosa. Ebbene, dal momento che il concetto di funzione può essere definito in modo rigoroso quando si sia definito in modo rigoroso il concetto di insieme, e viceversa, non ci si stupirà se si scoprirà che il concetto di funzione, che intuitivamente appare facilmente acquisibile, non si lascia facilmente esprimere in modo esplicito.

Spesso si dice che una funzione è una 'regola'

Etimolgicamente il termine funzione deriva dall'accusativo latino functionem (tema function-), il quale si ricava dalla radice fung- con l'aggiunta del suffisso composto -ti-on- (nominativo -tio). Il suffisso -ti- (o -si-) trasforma una radice in un tema nominale, dopodiché il suffisso -on- definisce un sostantivo astratto che definisce l'azione corrispondente o il risultato di quella azione.

In questo caso l'azione è quella definita dal verbo fungi corrispondente all'italiano fungere. Dunque la funzione sarebbe l'azione di fungere, o il risultato di quella azione. D'altra parte anche azione deriva dall'accusativo latino actionem a sua volta ootenuto aggiungendo il suffisso composto -ti-on- alla radice ag- del verbo agire, che ha un significato analogo al corrispondente verbo l'italiano. Qui ci rendiamo conto di essere vicini ai fondamenti del linguaggio, perché per descrivere il sostantivo astratto V-zione (dove V è una radice verbale) siamo costretti a prendere il tema di un verbo estremamente generico come agire e dire che la V-zione è l'a-zione di V-are (o V-ere, o V-ire), o il risultato di quella azione. Difficilmente si potra andare oltre questa spiegazione tautologica della natura della astrazione espressa dai sostantivi in -zione (o -sione).

Anche la definizione del verbo fungere

, significa assolvere un certo compito o un certo incarico, o realizzare un certo scopo.


Corpo rigido modifica

Moto con un punto fisso modifica

Se i punti di un corpo rigido si muovono mantenendo costante la loro distanza dall'orgine, il loro moto si ottiene come trasformazione ortogonale:

[1]  

[2]  

[3]  

[4]  

[5]  

La velocità all'istante t è:

[6]  

Derivando in t la [3] si ha:

[7]  

Posto:

[8]  

dalla [7] segue che l'operatore è antisimmetrico:

[9]  

[10]  

La [6] diventa:

[11]  

Derivando ancora:

[12]  

dove:

[13]  

Moto qualunque modifica

La posizione di un punto P rispetto l'origine O è data dalla composizione della posizione di P rispetto un punto fissato A e la posizione di F rispetto all'origine O:

[1]  

da cui segue:

[2]  

Se di punti ne abbiamo molti allora l'i-mo punto   puo essere indicato genericamente col solo indice i:

[3]  

[4]    

Il momento della quantità di moto di un sistema di punti rispetto ad O è dunque:

 

 

 

 

 

Analisi asintotica modifica

Parlando in modo generico e intuitivo, possiamo dire che l'analisi asintotica di una funzione   ha lo scopo di determinare il "comportamento" della   quando il suo argomento "tende" a un certo valore fissato, ovvero quando l'argomento della funzione sta in un certo "intorno" arbitrariamente piccolo del valore fissato. Ognuno dei termini posti fra virgolette è usato in senso improprio, o quanto meno ha bisogno di essere definito in modo più rigoroso.

Intorno modifica

Per poter essere più precisi, occorre cominciare a precisare qual è il dominio della funzione, poiché è nel dominio che bisogna definire i concetti di "tendere" e di "intorno":

  1. Se il dominio della funzione   è l'insieme dei numeri naturali  , allora la funzione associa ad ogni numero naturale un certo valore, e si dice successione. In questo caso per fare una analisi asintotica nel senso che abbiamo specificato sopra dovremmo fissare un certo numero naturale e "tendere" ad esso, avvicinandoci ad esso indefinitamente. Tuttavia ciò in   non è possibile, e l'unica cosa che si può fare indefinitamente in quell'insieme è considerare numeri naturali sempre più grandi. Dovremmo dunque fare subito una eccezione alla definizione generica che abbiamo dato sopra, ma tuttavia il caso può essere fatto rientrare non appena si decida di dire che tutti i numeri naturali più grandi di un certo numero fissato   costituiscono un "intorno dell'infinito" e che prendendo numeri sempre più grandi "si tende all'infinito". Usando questo linguaggio anche in   possiamo parlare di "intorno" e di "tendere a". Più precisamente chiameremo intorno dell'infinito di raggio 1/N l'insieme  .
  2. Se invece la funzione f è definita su \R o su un altro insieme ai cui punti ci si possa "avvicinare" indefinitamente, allora dato un punto qualunque   si può fissare una distanza   piccola a piacere e definire intorno di   di raggio   l'insieme di tutti i reali   che distano meno di   da  :  . Ovviamente anche in   resta la possibilità, come in   di considerare tutti i numeri maggiori di un certo numero fissato come un "intorno dell'infinito".

Limite modifica

Una volta che sia definito il concetto di "intorno" si può definire quello di "tendere" attraverso l'introduzione del concetto di limite. Dal momento che la definizione generalizzata data sopra ci consente di trattare in modo unificato i casi finiti e infiniti, è utile definire il limite ricorrendo esclusivamente al concetto di intorno, affermando che la funzione   tende al limite   in   se, comunque fissato un intorno   sia possibile trovare un intorno   tale che per tutti gli x di   (tranne al più in  ) la funzione abbia immagine in  :

 

Stima asintotica modifica

Il limite di una funzione in un punto è l'aspetto principale di quello che abbiamo definito genericamente "comportamento" della funzione in un punto. L'altro aspetto del "comportamento" è legato al concetto di stima asintotica. Tale problema si pone perché una volta che si sia calcolato il limite L di una funzione in un punto x_0, si sa solo che quando per l'argomento si prendano intorni sempre più piccoli di x_0 il valore della funzione sta in intorni sempre più piccoli di L. Tuttavia questo non ci dice nulla di quanto vale la f in un generico punto x diverso da x_0 (dove, peraltro, la f potrebbe anche non essere definita, perché la definizione di limite non tiene conto del punto x_0). Se ad esempio sappiamo che il limite in x_0 vale L, e ci poniamo in un punto x che dista da L per un certo valore d, per quanto possa essere piccolo d noi non siamo in grado, senza una ulteriore analisi, di stabilire quanto f(x) possa distare da L. Questa ulteriore analisi è appunto la stima asintotica.

In generale una stima asintotica di f ...

...quel che si cerca di fare è confrontare la funzione f da "stimare" con qualche altra funzione g più nota. Tale confronto consiste nel porre, in un intorno del punto dato, f uguale a g a meno di un certo "resto" R:

 

Come si è detto la funzione g è nota (o comunque meglio nota della f), invece del resto R in generale non si sa descrivere l'andamento, ma si sa solo che possiede i seguenti requisti:

  1. R tende a 0 quando x tende a x_0, il che è come dire che la coincidenza fra le due funzioni f e g deve essere esatta nel punto x_0;
  2. dato un punto x posto ad una certa distanza da x_0 in generale R(x) non sarà nullo, tuttavia siamo in grado di dire che esso è minore in valore assoluto di una certa quantità che dipende da d in modo noto; dunque se nel punto x prendiamo la g al posto della f, sappiamo di star commettendo un "errore" che è contenuto entro dei limiti noti, e che si annulla quando x tende a x_0.

La cosa più banale che si può fare dopo aver calcolato il limite della f in x_0 è confrontare la f con la costante L:

 

Questo segue proprio dalla funzione di limite. Infatti la funzione f ha limite L in x_0 se comunque si fissi un "errore massimo" δ, piccolo a piacere, è possibile fissare un intorno abbastanza piccolo di x_0 che renda la differenza fra f e L più piccola, in valore assoluto, dell'"errore massimo".

Matrici di tensori modifica

Espansione della matrice modifica

Dato un tensore, si procede nel modo seguente:

  1. le componenti covarianti si espandono sulle righe, quelle controvarianti sulle colonne;
  2. cominciare ad espandere la matrice dall'indice covariante più a sinistra (il primo) e/o da quello controvariante più a destra (l'ultimo), e porcedere espandendo in modo annidato.

Dunque:

  •   si espande in una riga;
  •   si espande in una colonna;
  •   si espande in una riga di colonne o in una colonna di righe (matrice);
  •   si espande in una riga di righe;
  •   si espande in una colonna di colonne;
  •   si espande prima in una riga di righe di colonne, ovvero in una riga di colonne di righe, ovvero in una colonna di righe di righe:
  • eccetera.

Esempi:

 



 



 



 


 



 



 


 


 


oppure:

 

Moltiplicazione modifica

Si può espandere solo al primo livello, utilizzando la moltiplicazione "riga per colonna" (con indici liberi da espandere successivamente):

 

Oppure si può espandere fino al secondo livello:

 

e poi moltiplicare tutte le righe per tutte le colonne, tenendo presente che il termine   è dato dal prodotto della i-ma riga per la k-ma colonna:

 

Calcolo differenziale assoluto modifica

Nelle trattazioni avanzate di geometria differenziale il calcolo differenziale viene introdotto direttamente nelle varietà differenziabili di dimensione n.

Intuitivamente possiamo dire che un insieme M è una varietà di dimensione n differenziabile in un certo punto P se tale insieme può essere considerato un sottoinsieme di uno spazio euclideo di dimensioni maggiori, e se nell'intorno del punto P l'insieme M risulta tangente ad un iperpiano di dimensioni n. Ad esempio una superficie sferica è una varietà differenziabile di dimensione 2 (o, come si dice, è 'bidimensionale') dello spazio ordinario tridimensionale, perché in ogni suo punto è definito un piano tangente; e analogamente una curva che abbia ovunque una retta tangente è una varietà differenziabile di dimensione 1.

Questo modo di immaginare le varietà multidimensionali, cioè come sottoinsieme di uno spazio "piatto", si chiama "immersione" della varietà in uno spazio euclideo. Si tratta di un approccio molto utile per l'immaginazione e per fissare le idee, tuttavia buona parte del lavoro matematico che è stato fatto sulle varietà ha avuto proprio lo scopo di "estrarre" le varietà dagli spazi euclidei, e di definire tutte le loro proprietà a partire unicamente da relazioni "intrinseche", cioè relazioni definibili a partire unicamente da operazioni che si possono effettuare "internamente" alla varietà. Questa cosa può essere detta in forma romanzata affermando che le proprietà "intrinseche" sono tutte quelle proprietà di cui si potrebbero "accorgere" degli eventuali esseri intelligenti che fossero "confinati" sulla varietà e non potessero in alcun modo muoversi nelle direzioni perpendicolari ad essa. Così, ad esempio, se degli ipotetici abitanti di un universo avessero il modo di rendersi conto che il loro universo è "chiuso" (ad esempio vedendo che viaggiando sempre in una direzione si torna al punto di partenza, nello spazio e magari pure nel tempo), quella di essere "chiuso" sarebbe una proprietà "intriseca", perché quegli ipotetici esseri se ne potrebbero rendere conto (e alla fine la potrebbero pure "misurare") a prescindere da quale sia l'ipotetico spazio euclideo nel quale si trovi "immerso" quell'universo, e in definitiva si potrebbe anche pensare che non ci sia alcuna necessità di affermare che esiste uno spazio euclideo che contiene quell'universo curvo. Come non siamo tenuti a immaginare che un universo euclideo sia un sottoinsieme di un universo euclideo di dimensioni maggiori, così, a rigore, non siamo nemmeno tenuti a immaginare che un universo "curvo" sia "immerso" in un universo euclideo di dimensioni maggiori. Con una buona dose di astrazione, possiamo pensare che una varietà possa essere "curva in sé" così come uno spazio euclideo può essere "piatto in sé".

Dal momento che buona parte della matematica dell'ultimo secolo e mezzo è stata dedicata proprio all'impresa di descrivere le varietà in modo "intrinseco", nessuna trattazione avanzata dell'argomento sente il bisogno di partire da una varietà immersa in uno spazio euclideo di dimensioni maggiori. Questo tuttavia come approccio iniziale può essere piuttosto ostico e disorientante, e gli stessi fondatori del calcolo differenziale assoluto quando presero le mosse lo fecero tentando di generalizzare le linee e le superfici curve dello spazio o del piano. È vero infatti che un ipotetico abitante di una superficie sferica può esplorare il suo mondo fino a rendersi conto che è "curvo", tuttavia se noi fossimo degli abitanti di uno spazio euclideo nel quale quella superficie sferica è "immersa" potremmo assistere a tutta l'immensa fatica di quegli esseri bidimensionali da un punto di vista privilegiato. Ad esempio se gli ipotetici esseri bidimensionali dopo aver viaggiato lungo una traiettoria "diritta" si ritrovassero al punto di partenza, comincerebbero a chiedersi "Come è possibile???", e solo in seguito qualcuno di loro con delle buoni doti matematiche potrebbe torvare un modo simbolico di spiegare la cosa. Invece per noi, esseri tridimensionali dello spazio euclideo in cui quella sfera è immersa, tutto quello scompiglio sarebbe ovvio e banale, e diremmo che è evidente che se uno viaggia lungo un meridiano prima o poi si trova al punto di partenza. Così il nostro approccio potrebbe avvenire in due fasi:

  1. prima si potrebbero studiare le proprietà geometriche da un punto di vista "estrinseco", sbailendo che cosa si può dire si può dire quando si osservi la sfera da uno spazio tridimensionale che la contenga;
  2. e solo successivamente si potrebbe cercare di comprendere, per astrazione (e con tanto di matematica), come si traduca tutto ciò che abbiamo osservato dal punto di vista "intriseco" di un ipotetico essere che sia confinato sulla sfera e non possa avere cognizione delle altre dimensioni.

Origine del termine modifica

Sviluppo storico modifica

Ogni sistema deduttivo prende le mosse da un sistema di enunciati, che si possono genericamente definire premesse (greco singolare protasis, latino praemissa).

Tali premesse venivano distinte dai filosofi greci (Aristotele in particolare, ma si trovano diverse anticipazioni anche nel suo maestro Platone) in diversi tipi:

  • necessarie
    • definizioni (gr. sing. horismos, lat. definitio)
    • assiomi (gr. sing. axiōma)
  • non necessarie
    • ipotesi (gr. sing. hypothesis)
    • postulati (gr. sing. aitēma, lat. postulatum)

Le definizioni erano considerate necessarie poiché si riteneva impossibile parlare di qualcosa senza aver detto "che cosa fosse" la cosa di cui si stava parlando.

Gli assiomi erano invece considerati necessari in quanto enunciavano delle verità evidenti a chiunque, non dimostrabili ma nondimeno indubitabili. In quanto verità note a tutti, essi venivano anche considerati delle nozioni comuni (gr. plur. koinai ennoiai), ed è così che gli assiomi vengono chiamati da Euclide nei suoi Elementi.

Invece le ipotesi ed i postulati non erano considerati necessari, ma premesse che potevano essere assunte o meno a seconda dei fini e delle circostanze del discorso.

In particolare chi svolgeva un certo ragionamento chiedeva all'interlocutore di assumere per veri certi postulati; non era necessario che egli li ritenesse veri, ma gli si chiedeva solo di seguire il ragionamento che si dipanava da essi quando si fossero assunti come veri.

Quanto alle ipotesi, erano simili ai postulati, con la differenza che colui che li assumeva come premesse lo faceva solitamente con qualche riserva, o perché ritenuti veri dall'interlocutore ma non da colui che svolgeva il ragionamento, o perché si voleva vedere a quali conclusioni avrebbero condotto quelle ipotesi, per stabilire poi - in base a quelle conclusioni - se le ipotesi erano da rigettare. Un esempio tipico di assunzione di ipotesi si verifica quando l'interlocutore afferma qualcosa che non si crede vera, e ci si rende disponibili momentaneamente a ricavare delle implicazioni da quelle ipotesi per mostrare che si tratta di implicazioni inaccettabili (solitamente perché contraddittorie, nel qual caso si ottiene la cosiddetta "dimostrazione per assurdo" della negazione delle ipotesi).

Oggigiorno la logica matematica non ritiene più di potersi fondare su verità necessarie (o necessariamente evidenti a chiunque), e nella costruzione di un sistema deduttivo ci si limita ad elencare in modo "neutro" una serie di premesse per vedere quali implicazioni possano essere dedotte da esse. Inoltre nessun sistema deduttivo tenta di dire "che cosa sono" i termini che esso impiega, nel senso che si è rinunciato al tentativo millenario (da cui aveva preso le mosse la costruzione della metafisica) di dare una definizione esplicita di quei termini, e ci si limita a mettere assieme un sistema di enunciati che impiegano quei termini e dai quali si possano ricavare delle dimostrazioni, ritenendo in questo modo di aver dato una definizione implicita di quei termini.

Si è dunque rinunciato del tutto alle premesse che gli antichi consideravano "necessarie", cioè le definizioni e gli assiomi, e si sono mantenute solo le premesse "non necessarie", che sono i postulati e le ipotesi. Se poi si considera che la distinzione fra postulato e ipotesi ha più che altro un valore "polemico" nell'ambito dello scambio dialettico fra interlocutri, ci si rende conto che l'atteggiamento "neutro" che vorrebbe assumere la logica contemporanea è ben reso da ciò che viene semplicemente assunto come vero senza nessuna pretesa di conferma e di smentita, e questo concetto coincide esattamente con quello di postulato. Tant'è che i famosi cinque postulati di Euclide sono appunto tali (gr. plur. aitemata): nessuno è obbligato a prenderli per veri, ma si chiede al lettore di assumerli come tali per studiarne le implicazioni.

Nonostante ciò, esiste una tradizione millenaria di studi matematici che si sono compiuti in un ambito culturale che credeva nella esistenza di "verità evidenti e note a tutti", e che pertanto costruiva i propri studi a partire da degli assiomi. Per questo motivo si è imposta una continuità lessicale che ha mantenuto il termine assioma per definire qualunque premessa di un sistema deduttivo, anche quando essa venga assunta nel modo più "neutro" possibile.

Etimologia modifica

Il termine assioma deriva da una importante radice indoeuropea ricostruita come *ag-, la quale esprime una serie di azioni che hanno a che vedere con il condurre, il tirare, il muovere, e più in generale l'agire concretamente su degli oggetti.

Da questa radice il latino ha derivato il verbo ago/agere, che mantiene un ampio numero di significati, e in particolare quelli originari attinenti il condurre e il portare, mentre il verbo italiano derivato, agisco/agire, esprime più che altro il concetto generale e astratto dell'azione. In greco si ha il verbo analogo agō/agein, che si mantiene molto vicino al significato originario e assume anche altri significati, fra cui quello di pesare un oggetto sulla bilancia, e quindi "valutare". Dalla stessa radice usata in quest'ultima accezione si ha anche l'aggettivo axios, che orginariamente significava "pesante tanto quanto", e che successivamente è stato usato per connotare ciò che ha tanto valore, dignità e pregio quanto un certo termine di paragone. Il verbo corrispondente è axiō che denota l'atto di ritenere valido, degno o di onorare qualcuno e qualcosa. Nel linguaggio filosofico questo verbo è stato impiegato da Platone e da Aristotele per i giudizi, col significato di ritenere valido un certo giudizio, e quindi di sostenerlo, di affermarne la verità.

Questi termini in ax- derivano probabilmente da un aggettivo con tema *ag-tj-o- (formatosi nel greco arcaico o anche in una fase precedente), ottenuto aggiungendo alla radice verbale *ag- il suffisso aggettivale -ti- e quindi la vocale tematica -o-. Infatti in greco l'eufonia consonantica prevede che il gruppo tj si muti in s, dopodiché si ha un gruppo gs nel quale la gutturale sonora diventa sorda per assimilazione parziale con la sibilante sorda che segue, e si ottiene appunto ks, reso con la grafia x.

Ora, dalla radice di un verbo o di un aggettivo il greco deriva dei sostantivi astratti usando diversi suffissi, fra cui i più usati in ambito teorico sono -ia e -ma (con tema -mat-, da cui derivano i numerosi aggettivi in -matikos). Il primo esprime la qualità astratta associata al verbo o all'aggettivo, mentre il secondo esprime solitamente il risultato dell'azione espressa dal verbo. Applicando questi due suffissi alla radice ax- (o alla presunta forma arcaica *ag-tj-) si ottiene axia, che indica il valore di una cosa o la dignità di una persona, e axiōma, che è ciò di cui uno è ritenuto degno, ovvero - nel linguaggio filosofico - il giudizio che è stato sostenuto come valido.

Questa derivazione può essere confrontata con quella di aitēma, il quale esprime pure il risultato di una certa azione, ma questa volta l'azione è quella espressa dal verbo aiteō, il quale denota l'atto di chiedere, domandare o pretendere. L'aitēma è dunque il frutto di una "pretesa" o di una "richiesta": si chiede appunto all'interlocutore di assumere per vero un certo enunciato. In latino si ha invece il verbo postulo, che pur avendo una diversa orgine etimologica (deriva probabilmente dalla radice *prek-, che esprime proprio l'atto di chiedere e domandare), ha esattamente lo stesso significato del suddetto verbo greco, per cui l'esatta traduzione di aitēma è postulatum.