BIOGRAFIA


Gianni Ferrara è nato il 27 agosto 1971 a Reggio Calabria. Dal 1991 collabora con varie testate giornalistiche e riviste specializzate come critico letterario.Ha fatto parte del comitato di redazione delle riviste “La Voce Libera di Calabria” e di “Cronache Letterarie”. Attualmente è Direttore Editoriale del bimestrale “Helios Magazine” ( www.heliosmag.it) Ha pubblicato tre raccolte di poesie “Haiku” (premio Annassilaos 1996) edizioni Club Ausonia “D’incompiute emozioni” (premio Selezione 1998) edizioni Libroitaliano “Austere Nudità” (premio Isola d’Ischia 2000) edizioni Nuove Grafiche Anselmi e le raccolte di racconti “Le istantanee di un minimalista” (premiato al Prevert 1999) edizioni Montedit “Sul morbido guanciale della follia”(nel quale sono contenuti, tra gli altri, i due racconti vincitori dei premi Piero della Francesca 2001 e Città Viva 2004) edizioni Menna Per contatti Email gferrara1971@libero.it

Poesie tratte da “Haiku” Strana la vita Un aquilone gioca Con la tempesta


Fragili sono i sogni: maledetta corporeità


Naufrago: meste nubi disegnano il tuo profilo


Poesie tratte da “D’Incompiute Emozioni” Poiesis

Affido confessioni sub rosa ai tremiti febbrili di una penna, ed il suo leggero tocco mi sottrae alla Deet. Ecco un altro verso posarsi come uno scarabeo sul mio petto per sporgersi tra le pieghe della carta al giudizio e d’altre porte chiuse. di un nuovo sole


Stanze vuote

Nelle stanze vuote le pareti sanguinano ricordi La polvere dei pochi oggetti rimasti Aleggia nell’aria, congiungendosi Con i rumori passati. Le ore mi trasformano Nell’alta ombra del bambino Chi qui, in anni passati, per guardarsi intorno si alzava sulla punta dei piedi.


Notte

Il fumo di una sigaretta accompagna il mio sguardo di una fuori dalla mia finestra verso il vibrante echeggiare delle stelle. Chiuso nell’ombra stendo la mia stanca fragilità mentre i miei sospiri sollevano nugoli d’incompiute emozioni e d’altre porte chiuse.


Randagismi

Vorrei come Fenrir mordere la mano divina che mi porge il cibo e nelle notti di luna piena raggomitolare il tempo fuggito.

Sciolto dal destino dei miei simili vorrei continuare ad essere un randagio predatore di nuvole.



E’tardi

Ridestarsi per rivestirsi in fretta. E’ tardi, si fa sempre tardi e c’è sempre un indumento . che non vuole farsi trovare, che si nasconde sotto le coperte.

Il nervoso gocciolio del rubinetto ed il giubilo mattutino degli uccelli ci ricordano gli impegni del giorno.

Chini rifacciamo il letto, quello stesso letto dove qualche attimo prima ritenevamo tutto possibile anche arrestare il tempo.

                                                                             .


Grapho

Frugo la mia sagoma infetta di silenzio alla ricerca di una parola smaltata di vita


Poesie tratte da “Austere Nudità”


Suoni

Urlare tanta è la voglia di urlare e poi, magari, ascoltare la mia voce distorta, salire in cielo con l’umida leggerezza . di ciglia commosse. Il vento mi sarà amico e come polvere spargerà i suoni della mia bocca, come polvere entreranno negli occhi e nelle orecchie dei distratti Sospesi sui tetti della città assonnata si uniranno alle nostalgie delle rondini.



Vita

Aspirando alle tue fibrillanti vette, fieri continuiamo a generare nuove luttuosità. Dispettosa ti mostri brevemente nei minimi distacchi, ordinari come gesti materni, che frusciano solamente nel sonno del bambino.


Poesie tratte dalla silloge inedita “Guerre Fiorite”


Con la punta di un chiodo incido sulla dura corteccia le mie iniziali. voglio il tempo della quercia, voglio la docile fine della foglia.


Tutto odora di solitudine come una strada di notte umida di pioggia Non avere lacrime è il vero dolore


La verde danza dei prati accoglie il vento dando forma al tacere Dal loro occulto colloquio Muove il verso, debole insetto che tra il morente fogliame cerca spiraglio.



Poesie in lingua inglese tratte dall’antologia “Emerging Poets at the end of the millennium”


Thanatos

Helplessly the retina holds the scene of murder of smoking thuribles deaf invocations and ruthess logs that close the clotted desires of a point that will never get into


Rebirth

There, beyond the shadow of reason, where the gazes ripple and words flee frightened at being heard, it is possible to be born again in the empty silence that separates the hands from clay.


Racconto brevissimo tratto dalla raccolta “Le istantanee di un minimalista”


Prima Istantanea

Il cerchio della luna si contorceva sulla ritmicità delle onde e la sua luce sembrava uno sciame d’api impazzite che duellano con gli spruzzi dell’acqua. Colpito da questo scenario rientrai subito a casa per dividerlo con Diana. La trovai che dormiva avvolta fin sopra il naso da un lenzuolo blu e rosso che la faceva apparire bella e misteriosa come un’immagine dei tarocchi. Le pareti della sua stanza, ricoperte da uno spesso ed irregolare intonaco, non avevano mai smesso di suscitarmi una sensazione di minacciosa austerità e quando il vento frustò le persiane, facendone vibrare i vetri, non potei fare a meno di emettere un urlo soffocato di paura. Diana, udendolo, interruppe subito la sommessa regolarità del suo respiro per chiedermi cosa stesse accatendo. Ripresomi dallo spavento, gli risposi che questa notte c’era una luna stupenda. Appena udì la mia risposta scattò in piedi e lasciandosi scivolare il lenzuolo dalle spalle si mise a correre verso il giardino. Giunta lì si alzò sulle punte dei piedi e tenendo il braccio in alto urlò divertita: << Presa, ora la luna è nostra >> ed il candido astro immoto sembrava davvero essersi posato su quella piccolissima mano aperta.


Racconti tratti dalla raccolta “Sul morbido guanciale della follia”


                                                                       Il Ponte

Luigi contava i giorni con le dita, ogni giorno un dito, ogni dito un giorno. Mancavano soltanto tre giorni ed egli fissava attonito quelle tre dita alzate per poi subito chiuderle, stringendo con forza il pugno fino a sentire le unghie premere contro il palmo, come se bastasse nascondere le dita per far scomparire il tempo, le mura e tutto quello che era accaduto. Durante quei lunghi mesi di internamento che con velata ipocrisia viene chiamata degenza, Luigi non aveva fatto altro che pensare a Clarissa ed al roseo ovale dei suoi capezzoli che risaltavano su quella pelle bianca e profumata come lenzuola lasciate ad asciugare al sole, eppure viziosa ed impura come lo sperma che Luigi, masturbandosi, spruzzava frettolosamente sulle mattonelle del cesso prima un infermiere entrasse a controllare cosa stesse facendo. Clarissa non era mai andata a trovarlo, forse ancora scossa per quello che aveva visto. Quel giorno maledetto, purtroppo, c’era anche lei quando aveva cominciato a scalciare e sbavare come un cavallo imbizzarrito che lotta con il morso nel tentativo di liberarsi dalle briglie. A Luigi ogni giorno veniva comunque recapitata una sua lettera che egli senza aprire posava delicatamente sulle altre formando una piccola torre di carta. Clarissa certo non poteva sospettare che per colpa dei farmaci che gli somministravano Luigi riusciva a malapena a trovare la concentrazione necessaria per leggere il nome del mittente, ma per lui il fatto di sapere che quella donna non lo aveva dimenticato come tutti gli altri era stato sufficiente a farlo sopravvivere in quel posto. Durante l’ora ricreativa che trascorreva nel piccolo parco adiacente alla casa di cura Luigi aveva preso l’abitudine di osservare criticamente quello che facevano gli alri pazienti, come per studiarne il comportamento, e da questo concludere che lui non era e non sarebbe stato mai come loro. Mario, ad esempio, tentava ogni giorno senza riuscirci di costruire un ponte con pietre, ramoscelli e tutte le cartacce che trovava sparse per terra. Secondo Luigi quel ponte in miniatura non era altro che l’estremo tentativo di ridurre il vuoto che esiste tra il malato e la normalità: pertanto il ponte serviva a Mario per attraversare l’abisso e, abbandonando la sponda del buio, raggiungere quella della luce. “Un pazzo osservando un altro pazzo può forse giungere a queste conclusioni? Certo che no!” diceva a se stesso Luigi. “Quindi io non sono pazzo, ma vittima di un errore!”. Quel giorno queste sue riflessioni furono interrotte bruscamente dal capo-infermiere, un omone che faceva pensare più a un macellaio che a un paramedico. Rino, questo era il suo nome, anche d’inverno usava tenere le maniche del camice arrotolate sopra i gomiti per mostrare i suoi avambracci forti e possenti, ed il messaggio che voleva inviare con quello sfoggio di muscoli era molto chiaro: “Con me non si scherza”. << Sei atteso nella sala visite.>> gli disse senza guardarlo. La sala visite era un’ampia stanza arredata soltanto da tre tavoli ovali di plastica, come quelli che si usano nei giardini, e da una ventina di sedie ognuna diversa dall’altra per forma e colore. Seduta ad aspettarlo dietro uno dei tavoli c’era Clarissa ma l’entusiasmo di Luigi scomparve immediatamente quando lei, senza alzarsi, gli fece cenno di accomodarsi su una sedia posta davanti alla sua lasciando così che il tavolo si interponesse tra loro. << Fra tre giorni ti dimetteranno.>> esordi Clarissa con una voce tanto pacata da risultare estranea a Luigi, e dopo un piccolo sospiro riprese a parlare con quel suo nuovo tono monotono. Luigi ascoltava con attenzione il suono della voce lasciando che le parole inudite scivolassero lontano come foglie sospinte dal vento. Una pausa più lunga del solito gli fece capire che Clarissa aveva concluso il suo discorso ed infatti la donna, alzandosi, gli passò velocemente una mano sul volto e fece per andarsene. In quella carezza non c’era più la passione di un’amante ma quel triste affetto che si può provare per un gattino cieco. Luigi prima di liberarsi in un pianto attese che il ticchettio dei tacchi a spillo di Clarissa fosse inghiottito dal ciabattare senza meta degli altri pazienti, che imperterriti vagavano lungo il corridoio. Senza asciugarsi le lacrime ritornò nel parco e raccolse due lattine ammaccate, le riempì di terra e poi rivolgendosi a Mario disse << Questi sono i pilastri. Vedrai che questa volta riusciremo a finirlo.>>.

                                                                      Numero 11


Allargare il passo… devo allargare il passo… senza perdere la frequenza… il respiro si rompe tra le tempie… li ho alle calcagna… sono vicini…sono maledettamente vicini.

Avevo appena due anni quando mia madre mi portò in collegio affidandomi alle mani nodose di quattro suore ed alle loro storielle del cazzo fatte di angeli invisibili, tutti presi a spiare e a denunciare le mie cattive azioni e naturalmente c’era anche il lupo malvagio, sporco e con gli occhi gialli che veniva la notte a prendere i bambini disubbidienti per mangiarseli. Quando serravo forte la bocca, rifiutandomi di ingurgitare le porcherie che ci passavano, le suore si facevano più serie del solito e minacciavano “ Se non mangi tutto stanotte verrà il lupo a prenderti”. Poverine erano convinte che mi cagassi addosso! Se solo avessero sospettato che la cosa che desideravo di più allora era proprio quella di essere rapito dal lupo per sparire con lui nel suo regno di zolfo! Nel collegio rimasi fino all’età di dodici anni e durante tutto questo periodo di mia madre ho conosciuto soltanto il suo profumo tenue, quasi privo di carattere, e quelle odiose caramelle che s’incollavano sempre al palato, dono immancabile delle sfuggenti e rare visite che mi faceva, durante le quali mi prometteva senza convinzione che sarei tornato a casa. Casa? Ma se non sapevo neanche cosa fosse una casa! Ero cresciuto in quel cazzo di collegio fatto di lunghi corridoi pregni dell’odore inconfondibile del disinfettante e da enormi camere bianche, bianche come il latte e senza un disegno, dove le suore con la loro tonaca nera spiccavano come ombre di avvoltoi. Poi prima di andarsene mi carezzava la testa rasata ed io speravo che non tornasse più.

Più veloce, sempre più veloce… non posso farmi raggiungere, non ora, non questa volta…Il sudore cola dalla fronte, la gola è arsa e queste gambe dure come se fossero di legno… ma io ho imparato ad ignorare, so ignorare tutto.

Durante l’intera permanenza nel collegio mi fu assegnato un numero, l’undici. Lo trovavo ovunque, dominava, scritto con un pennarello rosso, sopra la testiera del letto su cui dormivo; era ricamato sulle mutande, sui calzini, in tutti i miei indumenti ed era perfino rozzamente inciso sulle mie posate e col tempo questo numero diventò per me un secondo nome. Gli altri bambini erano tutti più grandi di me e questo mi creò molti problemi, non tanto durante le ore di lezione in aula quanto nelle ore ricreative: ero considerato il moccioso che puzzava ancora di latte e non mi lasciavano giocare con loro. Così, da solo, iniziai a correre intorno al collegio. Lo facevo senza fermarmi finchè non mi chiamavano per rientrare in classe. In poco tempo imparai tutto di quel piccolo percorso, il dislivello delle mattonelle, le pietre insidiose che affioravano dal terreno e le crepe delle aiuole. Correvo, correvo sempre di più ed intanto le mie gambe si irrobustivano.

Sto correndo come non ho mai fatto prima… Vincerò. L’ho capito quando alla partenza mi hanno dato il pettorale con il numero undici.

Uscito dal collegio le cose per me peggiorarono. Non potevo più correre. I parenti sostenevano che se lo avessi fatto la gente del paese avrebbe sicuramente pensato che ero un po’ svitato. In quel cesso di provincia il pensiero della gente era ovunque come la merda di cane e per non lordarti dovevi stare immobile. Lavoravo nell’officina di mio cognato, un uomo rozzo dai baffi setolosi che lo facevano rassomigliare ad un cinghiale. Ovviamente non ricevevo nessuna retribuzione ma lui, mio cognato, in cambio mi avrebbe offerto la sua esperienza ed insegnato a vivere una vita normale fatta di feste di piazza, partite al biliardo e tante, tante schedine. Mio cognato sapeva tutto del mondo; riusciva a posteggiare senza nessuna difficoltà nel piccolo spazio del garage e prima di chiunque altro ad individuare un fuorigioco.

Un giorno una giornalista mi domandò a che cosa penso durante una maratona. << A correre.>> risposi, ma in verità avrei dovuto risponderle che penso solo a scappare dal mio passato.

Poi vennero loro, gli aghi, le medicine, le mani forti per trattenermi. L’ignoranza e la cattiveria mi hanno rubato una parte della mia vita. Quei giorni, nei miei ricordi, sono come tanti fotogrammi di una pellicola non impressionata.

Mentre corro le persone mi incitano, urlano che sono il primo. Davanti a me è rimasto solo il tappeto blu che segna gli ultimi metri dall’arrivo. Gli spettatori si stanno preparando ad accogliermi con uno scroscio di applausi. Quando taglierò il traguardo aprirò le braccia, le alzerò al cielo affinchè tutti dicano che oggi ha vinto il numero undici.