Il sacco di Prato Il sacco di Prato ebbe luogo il 29 Agosto 1512 per mano dell'esercito spagnolo guidato da Raimondo da Cordoba. Trovarono la morte circa 6000 cittadini pratesi; in molti furono torturati o ridotti in schiavitù.

Prato nel Cinquecento modifica

Nel corso del medioevo, Prato crebbe molto dal punto di vista demografico e territoriale, come dimostrano le cerchie murarie della città, più volte ricostruite. Nel 1326 si sottomise a Roberto d'Angiò, re di Napoli, per evitare di essere inglobata nel territorio che apparteneva alla città di Firenze, che aveva aspirazioni espansionistiche. Tuttavia nel 1351 Giovanna d'Angiò vendette Prato a Firenze per una somma di denaro, 17.500 fiorini. Prato iniziò quindi a seguire le sorti della città di Firenze: fino al 1494 fu sotto la dinastia dei Medici, quindi con la Repubblica Fiorentina fino al 1512, anno in cui i Medici rientrarono a Firenze. Quando salì al potere Piero, figlio di Lorenzo il Magnifico, la situazione di pace fin'ora mantenuta iniziò a cambiare: Piero non aveva la stoffa del padre e si lasciò intimorire da Carlo VIII di Francia che scendeva in Italia col suo esercito. Il sovrano fiorentino acconsentì alle richieste del francese concedendogli svariati territori; egli fu cacciato dalla città nel 1494 e con lui l'intera famiglia Medici. Il potere fu preso allora dal frate domenicano Girolamo Savonarola, che regnò poco, ugualmente a chi lo successe, Piero Soderini. Nel 1512 il cardinale Giovanni de'Medici rientrò a Firenze, dopo aver sconfitto i Francesi di Luigi XII.


Il 29 Agosto 1512 modifica

Il sacco di Prato avvenne per mano degli Spagnoli guidati da Raimondo da Cordoba. Prato non poteva contare su un grande esercito: i fanti pratesi erano circa 2000, contro l'esercito spagnolo formato da circa 10.000 uomini ben equipaggiati. Prato aveva più volte chiesto aiuto a Firenze, città da cui dipendeva, per contrastare l'arrivo dell'esercito spagnolo, ma quest'ultima aveva ignorato le sue richieste. Il 28 agosto 1512 gli spagnoli giunsero alle porte di Prato. Nel pomeriggio attaccarono le mura e la porta Mercatale, ma non riuscirono ad aprire nessuna breccia. La tragedia si consumò il 29 agosto. I soldati spagnoli si concentrarono sulla porta del Serraglio e riuscirono a sfondare; ma i pratesi, ancora pronti d'animo e speranzosi, si radunarono alla porta e riuscirono ad evitare che gli spagnoli entrassero. L'esercitò cambiò allora tattica: invece di aprire una breccia provarono a scavalcare le mura. Questa tecnica fu efficace e gli spagnoli penetrarono in una città atterrita dalla paura: i soldati pratesi, consci della loro inferiorità, avevano già iniziato a scappare da quando si erano resi conto che non avrebbero potuto resistere a lungo all'attacco. Gli spagnoli furono nel giro di pochissimo tempo padroni di una città di cui uccidevano qualunque cittadino si trovassero davanti. Intanto nelle chiese si erano rifugiate moltissime persone, per lo più donne, bambini e anziani, pensando che gli spagnoli non avrebbero profanato i luoghi sacri, ma così non avvenne: l'esercito spagnolo non si fermò di fronte a niente. I pratesi non avevano vie di fuga dal momento che le numerose porte della città erano state murate e la città era continuamente sorvegliata dall'esercito. Il sacco di Prato durò per 21 giorni, in cui gli spagnoli uccisero, violentarono e saccheggiarono. Al termine di quei giorni si contarono circa seimila vittime. I pratesi che furono risparmiati dalla morte vennero torturati o ridotti in schiavitù.

Tra Guicciardini e Rucellai modifica

Vincent Luciani, storico, nel volume "Francesco Guicciardini and His European Reputation" , afferma che Guicciardini parlando degli spagnoli "rattiene appena il risentimento per le loro immanità durante il sacco di Prato (1512) e quello di Roma (1527), ove le loro sfrenatezze non rispettarono distinzioni né di sesso né di età né di abito[1]". Valentina Gallo, ricercatrice alla Facoltà di lettere dell'Università di Verona, in Scrittori di fronte alla guerra mette in evidenza come nel componimento di Giovanni di Bernardo Rucellai Rosmunda, traspare un forte realismo nel descrivere il sacco di Prato. Indubbiamente l'autore è influenzato da questo recente avvenimento; sceglie un punto di vista femminile, quello di Rosmunda appunto, per descrivere "la corporeità violata, il saccheggio animalesco che duplica e amplifica il topos dei corpi insepolti in pasto alle fiere[2]"lo scempio del sacco e fa emergere a chiare lettere la persona violata, la depredazione selvaggia, l'oltraggio dei morti insepolti. Rucellai nel suo componimento poetico si armonizza con la storia.

Un testimone oculare modifica

Una testimonianza del sacco di Prato arriva fino a noi da Iacopo Modesti, cittadino pratese e testimone oculare dell'episodio. L'esercito spagnolo fece prigioniero qualche suo parente e egli si dovette impegnare per reperire il denaro perché questi venissero rilasciati. Modesti lascia la testimonianza di quello che successe e di come la sua città fu portata alla rovina. Egli racconta che in agosto si era recato a Firenze dalla famiglia Medici, con cui era in buoni rapporti, che gli avevano assicurato che avrebbero mandato a Prato 18.000 fanti; così non fu. Un messaggero spagnolo si presentò alle porte di Prato già il 26 agosto, ordinando che in tre giorni venisse dato all'esercito spagnolo rifornimento e cibo, in caso di risposta negativa avrebbero messo a ferro e fuoco la città. I pratesi risposero con cannonate all'ordine degli spagnoli. Il 28 agosto si presentò di fronte alla porta Mercatale l'intero esercito spagnolo capitanato da Raimondo da Cordoba. Non riuscendo a entrare da questa porta tentarono con la porta al Travaglio (oggi porta al Serraglio). I pratesi si trovarono presto senza più pallottole e polvere da sparo e senza più speranze che da Firenze giungesse l'aiuto promesso. Gli spagnoli riuscirono a salire sulle mura e così entrarono in città: senza pietà uccisero uomini, donne, bambini, preti, qualsiasi persona gli si presentasse davanti. Nella Pieve si erano rifugiate circa 200 persone che credevano di trovare in quel luogo sacro un riparo sicuro, che incontrarono invece la morte. Le persone furono uccise in tutte le chiese di Prato eccetto che in S. Agostino e S. Domenico. Il 29 agosto 1512 alle ore 18 Prato era in mano all'esercito spagnolo. Secondo l'opinione comune dei cittadini della città gli spagnoli contavano 14.000 fanti, 1000 soldati e 1500 cavalieri, ma su questi dati ci sono pareri discordanti. I morti furono 5600 circa, che vennero gettati nei pozzi quella notte stessa. Il resto dei pratesi che era rimasto in vita venne incarcerato e tenuto prigioniero all'interno della città. Nonostante gli spagnoli fossero molto religiosi, iniziarono prima di tutto col saccheggiare chiese e monasteri, dove trovarono ricchezze. Nella chiesa della Madonna delle Carceri c'era una statua raffigurante una Madonna in marmo, con una corona in testa, che teneva in braccio Gesù bambino: sotto gli occhi di molti spagnoli si narra che il bambino spostò il braccio destro, che teneva intorno al collo della madre, per posarlo sopra la corona. Proprio per la loro devozione gli spagnoli fermarono il saccheggio in quella chiesa e anzi, uccisero lo spagnolo che tolse la corona dalla testa della Madonna e posarono ciò che in quel luogo avevano sottratto. Modesti afferma che molte donne si uccisero per salvare la loro integrità morale, tagliandosi la gola o gettandosi dai balconi; dichiara "non lascerò indietro di molte verginelle e maritate che per voler salvare l'onestà loro, furono alcune ammazzate, e ad altre segata la gola, altre gettate dalle finestre, altre gravissimamente battute, altre spogliate e bruciatagli la natura, e di poi lasciate quasi per morte, e fatte molt'altre infinite disonestà, le quali per vergogna voglio tacere[3]" I pratesi furono costretti alle più incivili torture: venivano legati a mani e piedi e trascinati così per le strade, mentre gli spagnoli godevano nel sentire le loro grida di dolore; qualcuno venne arso vivo sulla paglia; ad altri venne squartata la pelle della pianta del piedi, poi cosparsa con sale e aceto e infine dato fuoco; molti altri vennero impiccati o legati, per poi essere vergati fino alla morte. Iacopo Modesti nella sua testimonianza dichiara, non senza biasimo, quanto furono inumani i fiorentini: videro le spoglie dei pratesi coi loro occhi e gli spagnoli fare da padroni nella città di Prato, ma non fecero niente per fermarli. Anzi, venivano a Prato a comprare grano, biada e olio a basso prezzo, come del resto anche altre città della Toscana. L'esercito spagnolo lasciò la città il 19 settembre 1512, 21 giorni dopo, portando con sé i "prigioni[4]" ovvero i pratesi che non erano riusciti a pagare le imposizioni economiche che erano state istituite. Qualcuno dei prigioni fu venduto, qualche altro messo in carcere a Mantova, Bologna e Modena.


Note modifica

  1. ^ V. Luciani, Francesco Guicciardini and His European Reputation, New York, 1936,p 1003
  2. ^ M. Fiorilla, V. Gallo (a cura di), Scrittori di fronte alla guerra,Roma,2003,Aracne Editrice,p 81
  3. ^ I. Modesti, Il miserando sacco dato alla terra di Prato dagli spagnoli l'anno 1512, in «Archivio storico italiano», I, 1842, pp 242- 243
  4. ^ I. Modesti, Il miserando sacco dato alla terra di Prato dagli spagnoli l'anno 1512, in «Archivio storico italiano», I, 1842, p 246

Bibliografia modifica

  • V. Gori, Storia documentata del sacco di Prato: sue cause e sue conseguenze, Prato, 1933, Capecchi
  • V. Tozzini Cellai, Storia del sacco di Prato, Prato, 1991, Pentalinea
  • C. Guasti, Il sacco di Prato e il ritorno dei Medici in Firenze, Bologna, 1880, Romagnoli
  • I. Modesti, Il miserando sacco dato alla terra di Prato dagli spagnoli l'anno 1512, in «Archivio storico italiano», I, 1842

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