In tristitia hilaris, in hilaritate tristis.

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L'autor, ch'è 'na branca di leone, mi si è accasciato or ora, ed è surto poco prima ch'io ne avessi ragion, e s'è involato via. Perchè ch'un bidello vi si faccia da Prologo ed Anteprologo, traccia non ve n'è, fors'e ch'una scritta da un'affamato, da un fastidito dell'umana gente, che tra madre e madre mise dito. Se v'arrovellate ben venga, ch'io mi scotto, golgoto ed arrovello, e se voi cogitate, ch'io cogiti perchè io stia a far di prologo, ed a far di bidello. Cosa vol dire, nescio, e cosa possavi dir, cari siori, non mel chiedete, ch'io v'ascondo di saper quant'e'voi. L'autore, vel dirò, è uno spirito tormentato, chino, ch'al libro ha tolto financo il budello: si voi lo vedete, nol riconoscerete, perchè financo ciò ch'aveva d'uman sè perso e sfilacciato. Sguardo vuoto, cammin perdito, pensiero lontano, ciondola ed acciondola ed è di ben informe corporatura, al fin che... non vi dico! Ma che si muova peraltro, ben poco o ben assai, non vi è motivo di ritenerlo: un lambiccarsi d'ore, un tormentarsi di minuti, un fachiro di lettere, ben troverete. Quant'a'me, io men vo e m'inguido, ma se prima vogliate tenermi, ben vi narrerò. Un'ode, un opuscolo, un'epigramma, scritto da una sozzur tale di fraintendimenti, che nol darebbe ad intender nemmeno ad egli stesso. E se m'avrete a chiederne motivo, nescio pescio e vescio.


Prolegomeno incipiale


O Lettore che leggi lo scritto,

non creder che 'l mondo

da torto diventi più dritto


se di parole abbondo,

o se imago e pensier

rendon lo libro profondo,


ma sta' su l'ali veritier

che s'aprono sul meridione

di chi svolge retto mestier


e nol fama, nol cognizione

vol ricever dall'altrui mondo.

Perciò di' se la puttana Ragione


non ti empie la mente o 'l fondo,

di' se' Scïenza t'illumina il viso,

se Amor ti colma o ti fa profondo,


sol così raggiungerai il Paradiso.

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Or che mi si rimitta a me l'onere, l'ubbio e la fisima di rifar proprologo, mi irrito e squaccio. Perch'un infame, un cornuto, un invirilito bidello mi si ponga a poppa, e mi diriga il timon, io non lo cogito! Un onor disonorato, un pensier meschino, un Marte insterilito e rinsecchito, un candelaio a cui l'altri infilan candele più che lui le torra all'altri, uno sproloquiatore ragliante, un bacellon da cinque... che 'l cancaro ne bruchi l'osse dell'ora! Ed un insterilita oda, scritta, trascritta e riscritta, cui non gionge rima a verso e verso a capo: questi son compagni in antepropologo. E se voi v'aspettate ch'io mi inizi, ben poco avrete da sperare, assai da pregare, ancorpiù d'attendere, e vile attesa, quel che indarno è dipesa! Nelle mie contemplazioni vagavo, ai miei negoci mi dirigevo, ed ecco ch'incorro in questo gaglioffo figlio canino, di lorda munito e di cervello imbimbito, che mi dice di far prologo a quest'opera, e mi narra, e mi conta dell'autore: di questo fastidito, svilito autore. Che corna gli si possan mettere, ch'ha sue fin sopra la sesta sfera? E vi dico: chi porta pazienza, non ha penitenza. Ed ancor: chi s'aiuta, Iddio l'aiuta. E si non vi bastasse questa caterva di proverbi, di saggezze e di amnenicoli che il lardo del popolo fa colar, potet ben marciar e marcir e chi va nudo a torre l'api il miele, non si lamenti se il suolo si fa lieve. Questo dico, più non parlo e meno mi taccio: quest'autore io lo conosco, e vi confermo ch'è un misero che più miseri non si trova su globo, sopra o sotto la croce del ciel. Si giongano due stelle a quattro, e non ne avrebbe sei, ma sette, e subito figurebbe un'altra ottava cui regalare la sua virtù perdita: ben misera sorte, chi ha la fantasia come consorte. Questi scritti vo'altri li intendereste meglio che lui, perch'omai lui s'è rintanato in ciel. E se vi chiedeste, se il grillo vi cantasse tra staffa e martello: a chi more? A chi è morto? A chi risorge? Per la croce del mondo, per 'l suo troppo amor. E se vi chiede, ov'io son che sorgo? Voi gli direte: tra lardo e oglio. Non sta in ciel stella, che lo riporti sotto la Luna, non sta sotto la Luna, arte che lo mandi alla stella: ma sbiadito, pentito e piangente, vaga nel limbo, tutto conduce, tutto inizia, e conclude niente.

Invocazione proemiale

Divina Lete, Ignoranza santa

a voi chiedo, mendico e prego

a voi m'affido, ispiro e lego,

a voi ch'avete una folla sì tanta


Né uomo, dio o profeta

ebbe maggior compagnia

che esser in vostra balia

e seguir vostro pianeta.


Non si spande terra o regno

non s'alza muro o stanza,

né oro si perde o avanza

senza il vostro disegno.


Il corto fil della memoria

recede a sapienza e follia

dimentica principio e storia,

ma non perde sua compagnia


perché in Ignoranza manduca

e pasteggia con vittoria

d'aver tettato dalla pancia sua

un'ode più alta ch'un Gloria:


Che vi è valso, studiosi

il penoso studiare?

Che esser operosi

per terra, fiume e mare?

Aver dolor e tormento

di nubi e d'inchiostro

son cibo e per voi condimento

l'umore nero e cagliostro


A che val il sangue

se ne la vita non si ride,

appasisce o langue?


Non v'è ch'al ciel una scalinata

di tracotanza figlia

e d'ignoranza lastricata.


Avete speso vita sì lieta

in libri, sangue e gramigna

sol per dir a sera la compieta?


Voi, o dee: ispiratemi un'ode,

un romanzo, un'elogia,

un racconto di me prode

assiso in vostra compagnia,


non tettate latte, ma poesie

romanzi e sante scritture,

ozii, pregiudici e sinecure

e tutt'insieme vane articulerie

riempiono aule, cuori e librerie.


Eppur Voi dee, di fama ammantate,

ergete poeti e dottori,

riempite d'aule professori,

e di mente in mente vuotate:


qual virtù potrà esser più mia?

Sol viaggiar e l'andar per gente

fin che il passo perda la via

pel mistero che avvolge la mente

e divide sanità da follia.

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Ohimé, ohimmena, ohinoi! Giungo travolto e trafitto, co' la mente sfilacciata, lo spirto pendente e il cor trafitto. Non so per cosa e per come esti siori m'abbian presentato, nescio ferme et fermissime ciò che v'abbian detto di me: ch'io son manducato, avanzato, ch'i son torsolo d'homo. Non diniego e non solvo, quest'i son, così come il cielo e Padre Dio m'ha fatto, e spesso assai peggio. Io son l'Autore, e questa piccola opera ch'i vi presento, non è che un minuscolo orpello, una sciocchezza, un chicchessia, una vanità vantitarum. Non tengo mitria, non tengo allori e ben poco mi rimane d'honori: di nummi, son cavo, di spirto, voto e di voto, nullo, non avendo si non in lontanissima cogitationd ben meditato di prender calice, o forse cuculla. Il bidello, che il demonio se lo strangoli, è un povero diavolo, un miser gozzone, intinto in birra e pasciuto di terra, c'ha tolto il Lunedì alla settimana e spesso anche la Domenica. Quanto al secondo sior, non so chi sia, si uno del pubblico, o forse un mio inimico: galant'omo, no di certo. Quel che esti lubentissimi parolai non v'hanno detto e che chiaramente v'espongo, è l'intrico di esta commedia. Vi sarebbe assai miglior lavoro, per chi in viso ha decoro, e non starebbe la gatta al riso, se già avesse il cane inviso. E pur, sbrisga! Voi vedrete innanzi un intreccio od un distreccio, vedrete la pedanteria di Fanestrio, vedrete la nummeria, ch'è quella sottilissima arte per cui denari ci si procura, potere si cumula, ed all'inferno ci si tumula, di Baggiano, ed al fin, vedrete l'informità di mons. Guglielmo Vanaio, arcivescovo di Pisa. Essi s'intreccerann tra loro e tesseran una rete per farvi cader il bon Avio, ch'al mondo si perde ed all'umanità si stende. Dimentico del proprio Amor, Iddio lo ricondurrà sulla diritta e sicura via e pur, si lui timona, noi si voga a remar. Fu qua ch'incontrerà la stregoneria di Valentina che, facta pro factum, profeta sarà in ambascio. Streccia e intrecciar si puole, se volete, e veder oltre la miser stralce dell'opera mia anche, ma, si volete ascoltar una supplica, un kyrie d'un guscio di materia materiato, non rifiutate questo mio figliolo. Non 'scoltate bidelli o profesorelli, non fatene che da voi vi si faccia ragione, ma seguite quel che vi dice scienza e dite ciò che seguite con coscienza. Della gran ruota del carro del mondo tutto compite, tutto ascoltate, e tutto amate nel profondo.