Proclamazione di Roma Capitale d’Italia ed enunciazione del principio ‘Libera Chiesa in libero Stato’

Roma Capitale d'Italia fu proclamata il 27 marzo 1861 dal Parlamento del Regno d'Italia, allora avente sede a Torino, su impulso del Presidente del Consiglio Camillo Benso di Cavour, che espose il suo pensiero ai deputati presenti con un discorso nel quale si affermò il principio laico "Libera Chiesa in libero Stato".

Monumento a Cavour a Roma, nella omonima piazza

La proclamazione, tuttavia, fu solo simbolica, dovendosi attendere l'ingresso effettivo dell'esercito italiano nella futura Capitale, a seguito della Presa di Roma del 20 settembre 1870. Il trasferimento "di fatto" avvenne con l'approvazione della legge 3 febbraio 1871, n. 33 [1]

Presupposti

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Stampa satirica e anticlericale sulla questione romana: con Roma sullo sfondo, Garibaldi e Vittorio Emanuele sparano a pipistrelli "clericali", Napoleone III, nelle vesti di un gendarme, difende Pio IX e Francesco II (abbigliato come pazzariello napoletano) mentre due inglesi in tenuta da caccia osservano ed esclamano: "Lasciate che Vittorio faccia quel bel tiro e siamo più che contenti"

Dopo la conclusione della seconda guerra d'indipendenza, il completamento dell’Unità d'Italia, con l'esigenza di trasferimento della Capitale da Torino a Roma non trovava favorevole l'Imperatore francese Napoleone III, principale alleato del Regno di Sardegna, che proteggeva l'indipendenza del Papa e dello Stato Pontificio in base agli accordi di Plombières.

Il problema, però, non si limitava soltanto all'annessione territoriale di Roma, ma chiamava in causa il complesso tema delle relazioni tra Chiesa cattolica e Regno d'Italia, già gravemente compromesse dalla permanente opposizione al Risorgimento manifestata da Pio IX a partire dal 1849. A seguito dell'approvazione della legge sui conventi, infatti, papa Pio IX, il 26 luglio 1855, aveva pronunciato la scomunica contro coloro che avevano proposto, approvato e ratificato il provvedimento, Cavour e Vittorio Emanuele II compresi.

 
Cavour diffidò dell'Impresa dei Mille che considerava foriera di rivoluzione e dannosa per i rapporti con la Francia.[2]

Il 5 maggio 1860, tuttavia, Giuseppe Garibaldi radunò circa un migliaio di volontari (spedizione dei mille) e salpò da Quarto per dirigersi in Sicilia, all’epoca facente parte del Regno delle Due Sicilie. I garibaldini sbarcarono l'11 maggio 1860 presso Marsala e, con il contributo di volontari meridionali e a rinforzi alla spedizione, dopo una campagna di pochi mesi contro l'esercito borbonico, riuscirono a entrare a Napoli, capitale del regno, e a mettere in fuga Francesco II delle Due Sicilie, che si rifugiò a Gaeta.

Per allontanare il pericolo di un'avanzata di Garibaldi su Roma, Cavour convinse Napoleone III che, per frapporre l'esercito sardo tra Roma e i "mille", l'invasione piemontese delle Marche e dell'Umbria, facenti parte dello Stato Pontificio, sarebbe stato il male minore.

In tal modo, il 26 ottobre 1860, Vittorio Emanuele II poté incontrarsi a Teano con Garibaldi che gli consegnò il controllo delle province conquistate. Il 17 febbraio 1861, a Gaeta, Francesco II si arrese e, il 17 marzo, il Parlamento subalpino proclamò il Regno d'Italia.

Rimaneva aperto il problema di Roma Capitale e del libero esercizio del ministero papale, una volta che il pontefice fosse stato privato completamente del potere temporale.

 
Papa Pio IX scomunicò Cavour dopo l'approvazione della Legge sui conventi.[3]

Per quanto riguarda i rapporti tra Stato e Chiesa, essi erano ormai ridotti ai minimi termini. Cavour espose il suo punto di vista nel corso di tre discorsi per Roma Capitale, nelle sedi del Parlamento italiano, allora in Torino. Il primo, tenuto alla Camera il 25 marzo 1861, gli altri alla Camera il 27 marzo e al Senato il 5 aprile dello stesso anno.

Contenuti del primo discorso (25 marzo 1861)

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Nel primo discorso del 25 marzo 1861, Cavour intervenne dopo il deputato Rodolfo Audinot che aveva affermato senza riserva: «Roma dev'essere la capitale d'Italia»[4].

Cavour precisò che la questione di Roma fosse la più grave, la più importante che sia stata mai sottoposta ad un Parlamento di libero popolo. La questione romana, infatti, non riguardava soltanto l'Italia, ma si estendeva a 200 milioni di cattolici sparsi in tutto il mondo; la cui soluzione pertanto non avrebbe avuto solo un'influenza politica, ma ne esercitava altresì una immensa sul mondo morale e religioso[4].

Affermò di condividere le istanze di molti italiani che vedevano nell'unione di Roma al Regno d'Italia il completamento del sogno risorgimentale. Ricordò anche che l'Italia aveva ancor molto da fare per sciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione stava suscitando e abbattere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni e tradizioni secolari opponevano al progetto unitario. Ma proprio per questo riteneva che finché la questione della capitale non avesse avuto definizione ci sarebbero sempre state divisioni e discordie fra le varie parti d'Italia[4].

«Nella città di Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d'Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d'oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè destinata ad essere la capitale di un grande Stato.[4]»

Cavour concluse osservando che l’Italia aveva contratto un grande debito di riconoscenza verso la Francia. Dopo avere ricavato tanti benefici dall'accordata alleanza, non poteva protestare contro gli impegni che erano stati stretti in base a tali accordi. L'Italia, pertanto, non avrebbe dovuto compiere l’unione ad essa di Roma, se ciò avrebbe recato grave danno all'alleata.

«Ma dunque, mi si obbietterà, la soluzione della questione di Roma è impossibile. Rispondo: se noi giungiamo [...] a far sì che la riunione di Roma all'Italia non faccia nascere gravi timori nella società cattolica [...]; se noi, dico, giungiamo a persuadere la gran massa dei cattolici che l'unione di Roma all'Italia può farsi senza che la Chiesa cessi d'essere indipendente, credo che il problema sarà quasi sciolto.[4]»

Contenuti e passi principali del discorso del 27 marzo 1861

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Cavour con la fascia di presidente del Consiglio del Regno d'Italia.[5]

Il 27 marzo 1861, Camillo Benso di Cavour Cavour prese nuovamente la parola per un più lungo e articolato discorso, in sede di votazione dell'ordine del giorno del deputato Carlo Bon Compagni di Mombello concernente la riunione della città di Roma all'Italia, seguito dalle risoluzioni proposte dai deputati Luigi Greco Cassia e Giuseppe Ricciardi (rispettivamente per proclamare Roma capitale ed esprimere il concorde desiderio della nazione), nonché dagli interventi dei deputati Giuseppe Ferrari e Bertolani.

«Esaminati i tre ordini del giorno di ieri, e i due ordini del giorno d'oggi, mi pare che concorrano tutti nel pensiero finale; tutti sono concordi nel volere che si acclami Roma come capitale d'Italia, che si solleciti il Governo ad adoperarsi, onde questo voto universale abbia il suo compimento. Ma siami concesso di dichiarare che, tanto per la forma, quanto per la sostanza, nessuno di quei voti motivati riassume, a mio giudizio, in modo più conciso e più preciso dell'ordine del giorno Bon Compagni le idee espóste così lucidamente dall'onorevole interpellante, accolte senza riserva dal Ministero, e che furono tanto favorevolmente ascoltate da questa Camera.[4]»

 
Pio IX in un ritratto fotografico del 1875, opera di Adolphe Braun.
 
La Breccia di Porta Pia in una litografia a colori del tempo
 
La lastra dell’Atrio della Stazione Roma Tiburtina che riporta il discorso di Camillo Cavour

Cavour spiegò perché la capitale doveva essere spostata a Roma, ricollegandosi alla soluzione da dare alla questione romana.

«Io ripeto che il proclamare la necessità per l'Italia di avere Roma per capitale non solo è cosa prudente ed opportuna, ma è condizione indispensabile del buon esito delle pratiche che il Governo potrà fare per giungere alla soluzione della questione romana. [...] Io non posso a meno di prevedere che, finché la questione [...] fosse tenuta in sospeso per motivi anche di qualche importanza, ma non supremi, l'Italia tutta sarebbe in uno stato di agitazione e di lotta. Vi sarebbe una lotta vivissima fra coloro che vogliono andar a Roma immediatamente e coloro che vorrebbero ancora differirne il traslocamento della capitale; [...] meglio sarà quanto più presto si potrà andare a Roma; ben inteso, senza mettere in pericolo la sicurezza dello Stato, senza rendere più malagevole l'ultima fase del risorgimento italiano, senza sconvolgere il Governo; ben inteso, infine, che questo trasferimento si faccia con tutta quella gravità e ponderatezza che un affare così grande richiede. [...] Ormai, o signori, mi pare che la questione dell'indipendenza del sovrano pontefice, fatta dipendere dal potere temporale, sia un errore dimostrato matematicamente ai cattolici di buona fede [...]. Mi pare quindi che noi dobbiamo avere l'assenso dei cattolici di buona fede su questo punto[4]

Secondo Cavour, quindi, l'unione di Roma all'Italia era fattibile solo con la rinuncia del Papa al potere temporale, essendo tale rinuncia la garanzia stessa della sua indipendenza dalle Nazioni. In questa parte del discorso pronunciò la frase che sarebbe rimasta a spiegare, da allora in poi, i rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica: "Libera Chiesa in libero Stato".

«Rimane a persuadere il pontefice che la Chiesa può essere indipendente, perdendo il potere temporale. Ma qui mi pare che, quando noi ci presentiamo al sommo pontefice, e gli diciamo: Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia d'indipendenza; rinunziate ad esso, e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche; [...] ebbene, quello che voi non avete mai potuto ottenere da quelle potenze, che si vantavano di essere i vostri alleati e vostri figli divoti [sic], noi veniamo ad offrirvelo in tutta la sua pienezza; noi siamo pronti a proclamare nell'Italia questo gran principio: Libera Chiesa in libero Stato. I vostri amici di buona fede riconoscono [...] che il potere temporale quale è non può esistere[4]

Reazioni e conseguenze

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Il 27 marzo 1861, dopo il discorso di Cavour, la Camera proclamò Roma capitale d'Italia.

Purtroppo, lo statista piemontese non poté coronare il suo sogno di assistere all'Unione di Roma all'Italia, avvenuto il 20 settembre 1870, perché già deceduto il 6 giugno 1861, a Torino. La nipote Giuseppina Alfieri di Sostegno ha tramandato che, sul letto di morte, alla vista del suo confessore Padre Giacomo, Cavour abbia pronunciato le sue ultime parole: «Frate, frate, libera chiesa in libero Stato!»[6][7]

Roma divenne effettivamente Capitale nel 1871 quando i Savoia vi si trasferirono con l'intera corte da Firenze, subentrata provvisoriamente come Capitale a Torino nel 1865, a seguito delle Convenzioni di Settembre.

Riferimenti nella cultura di massa

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Il discorso di Cavour del 27 marzo 1861 è oggi scolpito sul lato ovest dell'Atrio Nomentano della nuova Stazione di Roma Tiburtina[8], a lui dedicata[9].

  1. ^ 150 anni fa la proclamazione di Roma Capitale
  2. ^ Ritratto di Francesco Hayez.
  3. ^ Ritratto di George Peter Alexander Healy
  4. ^ a b c d e f g h Discorsi di Camillo Benso di Cavour
  5. ^ Dipinto di Michele Gordigiani
  6. ^ Rino Fisichella, La confessione di uno scomunicato, in: L'Osservatore Romano, 6 novembre 2009
  7. ^ Indro Montanelli, L'Italia dei notabili, Milano, Rizzoli, 1973, p. 15
  8. ^ Grandi Stazioni: Roma Tiburtina
  9. ^ Intitolata a Cavour la stazione Tiburtina - Gossip - La Presse

Bibliografia

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  • Camillo Cavour, Libera Chiesa in libero Stato. Discorso sul progetto di legge per l'abolizione del Foro Ecclesiastico, Milano, Soc. Editoriale Milanese, 1909.

Voci correlate

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Collegamenti esterni

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Roma Capitale, il sogno di Camillo Cavour