Regno d'Italia (1861-1946)

Italia tra il 1861 e il 1946

Il Regno d'Italia fu lo Stato italiano unitario proclamato il 17 marzo 1861.[5] La proclamazione fece seguito alla seconda guerra d'indipendenza italiana (1859), combattuta dal Regno di Sardegna contro l'Impero austriaco,[6] e alla spedizione dei Mille, con la conquista del Regno delle Due Sicilie. La proclamazione del Regno rappresentò il culmine di quel movimento culturale, politico e sociale, nonché periodo storico, detto "Risorgimento". Ad essa seguì la terza guerra d'indipendenza italiana (1866) e l'annessione dello Stato Pontificio, con la conseguente presa di Roma (20 settembre 1870).

Regno d'Italia
Motto:
FERT
Regno d'Italia - Localizzazione
Regno d'Italia - Localizzazione
Il Regno d'Italia nel 1936
Dati amministrativi
Nome completoRegno d'Italia
Nome ufficialeRegno d'Italia
Lingue ufficialiItaliano[1]
Lingue parlateItaliano e lingue locali italiane
Inno
CapitaleRoma (1871-1946)
Altre capitaliCostituzionali:

Sedi provvisorie del governo:

Dipendenze
Politica
Forma di Stato
Forma di governoMonarchia costituzionale
(de facto dittatura totalitaria fascista dal 1925 al 1943)
Re d'Italia
Presidente del Consiglioda Camillo Benso di Cavour (primo)
ad Alcide De Gasperi (ultimo): elenco
Nascita17 marzo 1861 con Vittorio Emanuele II
CausaProclamazione del Regno d'Italia
Fine18 giugno 1946[2] con Umberto II
CausaNascita della Repubblica Italiana
Territorio e popolazione
Bacino geograficoregione geografica italiana
Territorio originaleregione geografica italiana
Massima estensione310190 km² nel 1936
Popolazione26 249 000 nel 1861
38 269 130 nel 1915
42 943 602 nel 1936
Economia
ValutaLira italiana
Varie
Sigla autom.
Religione e società
Religione di StatoCattolicesimo
Religioni minoritarieebraismo, evangelismo
L'Italia tra le due guerre mondiali
Evoluzione storica
Preceduto daBandiera del Regno di Sardegna Regno di Sardegna[3]
Succeduto daBandiera dell'Italia Repubblica Italiana[4]
Ora parte diBandiera dell'Italia Italia
Bandiera dell'Albania Albania
Bandiera della Città del Vaticano Città del Vaticano
Bandiera della Croazia Croazia
Bandiera della Francia Francia
Bandiera della Slovenia Slovenia

Il completamento dell'unità territoriale avvenne tuttavia solo al termine della prima guerra mondiale, considerata talvolta come la quarta guerra d'indipendenza italiana, il 4 novembre 1918 (giorno della diramazione del bollettino della Vittoria che annunciava che l'Impero austro-ungarico si arrendeva al Regno d'Italia) in base all'armistizio firmato a Villa Giusti, nei pressi di Padova. Con il successivo trattato di Saint-Germain-en-Laye, nel 1919, l'Italia completò l'unità nazionale con l'annessione di Trentino, Alto Adige, Venezia Giulia ed Istria, oltre a Zara di Dalmazia.

Dal 1861 al 1946, il Regno d'Italia fu una monarchia costituzionale, basata sullo Statuto Albertino, concesso nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia ai sudditi del Regno di Sardegna, prima di abdicare l'anno successivo. Al vertice dello Stato vi era il re, il quale riassumeva in sé i tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, seppur non esercitati in maniera assoluta.[7] Tale forma di governo fu avversata dalle frange repubblicane (oltreché internazionaliste e anarchiche) e si concretizzò soprattutto in due note vicende: la fucilazione di Pietro Barsanti (da alcuni considerato il primo martire della Repubblica Italiana)[8] e l'attentato di Giovanni Passannante (di fede anarchica). Tra il 1922 e il 1943, durante il cosiddetto "ventennio fascista", il governo del Regno d'Italia fu guidato da Benito Mussolini, capo del fascismo, che, a partire dal 1925, tramite le cosiddette leggi fascistissime, trasformò l'assetto giuridico-istituzionale dello Stato italiano, monarchico e liberale, in una dittatura totalitaria.

Il Regno costituì diversi possedimenti coloniali (vedi colonialismo italiano); tra questi, domini in Africa Orientale, in Libia e nel Mediterraneo, nonché una concessione a Tientsin, in Cina.

Con la seconda guerra mondiale, dopo lo sbarco in Sicilia delle forze alleate, la caduta del fascismo e la guerra di liberazione, l'Italia divenne nel 1946 una repubblica; nello stesso anno, fu dotata di un'Assemblea Costituente al fine di redigere una costituzione avente valore di legge suprema dello Stato repubblicano, onde sostituire lo Statuto Albertino. La trasformazione nell'attuale assetto istituzionale avvenne in seguito ad un referendum istituzionale, tenutosi il 2 e 3 giugno, che sancì la nascita della Repubblica Italiana. La nuova Costituzione della Repubblica Italiana entrò in vigore il 1º gennaio 1948.

Storia modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Storia del Regno d'Italia (1861-1946).

L'unificazione italiana modifica

La seconda guerra d'indipendenza modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Risorgimento.
 
Vittorio Emanuele II di Savoia, il primo re d'Italia di casa Savoia

Il processo di unificazione italiana, intensificato dai moti del 1848 e rallentato dalla sconfitta del Regno di Sardegna nella prima guerra d'indipendenza, si rinnovò su spinta della borghesia e dell'aristocrazia liberale rappresentata dalla destra storica nella figura di Camillo Benso, conte di Cavour, che nel 1852 grazie a un accordo con la sinistra storica di Urbano Rattazzi riuscì a formare su incarico del re Vittorio Emanuele II il suo primo governo.[9] Per conseguire l'unificazione Cavour ritenne necessario rafforzare l'alleanza con la Francia di Napoleone III combattendo al suo fianco nella guerra di Crimea, iniziata nel 1853 e terminata nel 1856 con la vittoria della coalizione e il congresso di Parigi.[10]

La vicinanza alla Francia consentì a Cavour di incontrare nella notte tra 20 e il 21 luglio 1858 Napoleone III per concordare il futuro assetto geopolitico della penisola italiana in quelli che saranno definiti gli accordi di Plombières. In seguito a un'ipotetica guerra contro l'Impero austriaco da parte dell'alleanza franco-piemontese il Regno di Sardegna avrebbe ottenuto il Regno Lombardo-Veneto, i ducati dell'Emilia e la Romagna pontificia unificandoli sotto la dinastia Savoia nel Regno dell'Alta Italia. La Francia avrebbe ottenuto il Ducato di Savoia, la città di Nizza mentre avrebbe creato sotto la sua influenza uno stato in Italia centrale composto dal Granducato di Toscana e dalle restanti province dello Stato Pontificio, ad eccezione di Roma, che sarebbe andata al Papa; sorte analoga sarebbe toccata al Regno delle Due Sicilie.[11]

Scoppiata la seconda guerra di indipendenza, tuttavia, il progetto naufragò a causa della decisione unilaterale di Napoleone III di uscire dal conflitto (armistizio di Villafranca), consentendo così al Regno di Sardegna di acquisire la sola Lombardia, e non l'intero Regno Lombardo-Veneto come da accordi.

Dopo l'armistizio il piano di una penisola italiana suddivisa in tre regni fallì sia a causa delle rivolte scoppiate in Emilia, Romagna e Toscana, dell'opposizione di Garibaldi, dei mazziniani, e anche di quella re Francesco II delle Due Sicilie, che rifiutò nel 1859 una proposta del Regno di Sardegna di alleanza per un comune attacco allo Stato Pontificio, poiché non voleva acquisire territori appartenenti al papa.[12]

Il periodo del regno di Vittorio Emanuele II di Savoia che va dal 1859 al 1861 viene anche indicato come Vittorio Emanuele II Re Eletto. Infatti, nel 1860 il Ducato di Parma e Piacenza, il Ducato di Modena e Reggio, il Granducato di Toscana e la Romagna pontificia votarono dei plebisciti per l'unione con il Regno. Nello stesso anno con la vittoria della spedizione dei Mille vengono annessi i territori del Regno delle Due Sicilie, e con l'intervento piemontese le Marche, l'Umbria, Benevento e Pontecorvo, tolti allo Stato Pontificio. Tutti questi territori saranno annessi ufficialmente al Regno di Sardegna tramite plebisciti, ratificati dal parlamento, e pubblicati sulla gazzetta ufficiale del Regno di Sardegna n.306 del 26 dicembre 1860. Su richiesta dalla Francia di Napoleone III, in cambio dell'aiuto militare ricevuto contro gli austriaci, il Regno di Sardegna concesse la Contea di Nizza e il Ducato di Savoia.

Vittorio Emanuele II (1861-1878) modifica

La proclamazione del Regno d'Italia modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Proclamazione del Regno d'Italia e Famiglia reale italiana.
 
L'estensione del Regno d'Italia al momento della sua proclamazione

Il 21 febbraio 1861 la nuova Camera dei deputati approvò un disegno di legge con il quale Vittorio Emanuele II assunse il titolo di Re d'Italia, assumendone il titolo per sé e per i suoi successori.[13] La legge 17 marzo 1861 n. 4671, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia del 17 marzo 1861[14] (formalmente però una legge del Regno di Sardegna) sancì l'assunzione da parte del monarca sabaudo del titolo di re.

 
Stampa del 1860 che mostra le critiche garibaldine alla situazione nel 1860: Garibaldi regge un foglio sui temi dell'armamento nazionale, liberazione di Roma e Venezia e i suoi decreti emessi a Napoli, a terra giacciono due fogli con i nomi di Nizza e Savoia, tre garibaldini feriti volgono le spalle ad un gruppo di borghesi e notabili che ballano, commentati col detto: "Il maestro di cappella è mutato, ma la musica è la stessa"

Dal punto di vista istituzionale e giuridico assunse la struttura e le norme del Regno di Sardegna, esso fu infatti de jure una monarchia costituzionale, secondo la lettera dello Statuto Albertino del 1848. Il Re nominava il governo, che era responsabile di fronte al sovrano e non al parlamento; il re manteneva inoltre prerogative in politica estera e, per consuetudine, sceglieva i ministri militari (Guerra e Marina).

Il diritto di voto era attribuito, secondo la legge elettorale piemontese del 1848, in base al censo; in questo modo gli aventi diritto al voto costituivano appena il 2% della popolazione. Le basi del nuovo regime erano quindi estremamente ristrette, conferendogli una grande fragilità. Tornando al 1861, il Regno d'Italia si configurava come una delle maggiori nazioni d'Europa, almeno a livello di popolazione e di superficie (22 milioni su una superficie di 259320 km²), ma non poteva considerarsi una grande potenza, a causa soprattutto della sua debolezza economica e politica. Le differenze economiche, sociali e culturali ereditate dal passato ostacolavano la costruzione di uno Stato unitario.

Accanto ad aree tradizionalmente industrializzate coinvolte in processi di rapida modernizzazione (soprattutto le grandi città e le ex capitali), esistevano situazioni statiche ed arcaiche riguardanti soprattutto l'estesissimo mondo agricolo e rurale italiano. L'estraneità delle masse popolari al regno unitario si palesò in una serie di sommosse, rivolte, fino a una diffusa guerriglia contro il governo unitario, il cosiddetto brigantaggio, che interessò principalmente le province meridionali (1861-1865), impegnando gran parte del neonato esercito in una repressione spietata, tanto da venire considerata da molti una vera e propria guerra civile.

Quest'ultimo avvenimento in particolare fu uno dei primi e più tragici aspetti della cosiddetta questione meridionale. Ulteriore elemento di fragilità era costituito dall'ostilità della Chiesa cattolica e del clero nei confronti del nuovo Stato liberale, ostilità alimentata dalla Legge Rattazzi, che si sarebbe rafforzata dopo il 1870 con la presa di Roma (questione romana).

I governi della Destra storica modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Destra storica.

A far fronte a queste difficoltà si trovò la Destra storica, raggruppamento erede di Cavour, espressione della borghesia liberal-moderata. I suoi esponenti erano soprattutto grandi proprietari terrieri e industriali, nonché militari (Ricasoli, Sella, Minghetti, Spaventa, Lanza, La Marmora, Visconti Venosta).

Gli uomini della Destra affrontarono i problemi del Paese con energica durezza: estesero a tutta la Penisola gli ordinamenti legislativi piemontesi (processo chiamato "Piemontesizzazione"); adottarono un sistema fortemente accentrato, accantonando i progetti di autonomie locali (Minghetti), se non di federalismo; applicarono un'onerosa tassazione sui beni di consumo, come la tassa sul macinato, che gravava soprattutto sui ceti meno abbienti, per colmare l'ingentissimo disavanzo del bilancio.[15] In politica estera, gli uomini della Destra storica vennero assorbiti dai problemi del completamento dell'Unità; il Veneto venne annesso al Regno d'Italia in seguito alla terza guerra di indipendenza.

Per quanto riguarda Roma, la Destra cercò di risolvere la questione con il metodo diplomatico, ma si dovette scontrare con l'opposizione del Papa, di Napoleone III e della Sinistra, che tentò di percorrere la via insurrezionale (tentativi di Garibaldi, 1862 e 1867). Nel 1864 venne stipulata con la Francia la Convenzione di settembre, che imponeva all'Italia il trasferimento della capitale da Torino ad un'altra città; la scelta cadde su Firenze, suscitando l'opposizione dei Torinesi (Strage di Torino). Nel 1870, con la breccia di Porta Pia, Roma venne conquistata da un gruppo di bersaglieri e divenne capitale d'Italia l'anno seguente. Il Papa, ritenendosi aggredito, si proclamò prigioniero e lanciò virulenti attacchi allo Stato italiano, istigando per reazione una altrettanto virulenta campagna laicista e anticlericale da parte della Sinistra. Il governo regolò unilateralmente i rapporti Stato-Chiesa con la legge delle guarentigie; il Papa respinse la legge e, disconoscendo la situazione di fatto, proibì ai cattolici di partecipare alla vita politica del Regno, secondo la formula «né eletti, né elettori» (non expedit).

Dopo aver ottenuto una maggioranza schiacciante nelle elezioni del 1861, la Destra vide ridursi progressivamente i suoi consensi, pur mantenendo la maggioranza. Nel 1876 venne conseguito il pareggio del bilancio dello Stato, ma gravi problemi rimanevano sul tappeto: il divario fra popolazione ed istituzioni, l'arretratezza economica e sociale, gli squilibri territoriali. Un voto parlamentare portò alla caduta del governo di Marco Minghetti, e al conferimento della carica di primo ministro ad Agostino Depretis, guida della Sinistra storica. Finiva un'epoca: solo pochi mesi dopo, Vittorio Emanuele II morì e sul trono gli successe Umberto I.

Regno di Umberto I (1878-1900) modifica

I governi della Sinistra storica modifica

 
Umberto I, re d'Italia dal 1878 al 1900

Depretis formò un governo che, oltre all'appoggio della Sinistra, schieramento di cui faceva parte, si reggeva anche sull'appoggio di una parte della Destra, quella che aveva contribuito alla caduta del governo Minghetti. Nella sua azione di governo, Depretis cercò sempre ampie convergenze su singoli temi con settori dell'opposizione, dando vita al fenomeno del trasformismo.

Nel 1876, la Sinistra si presentò alle elezioni con un programma protezionista. Si faceva portavoce delle rivendicazioni contro la Destra storica. Con la crisi economica in Europa (1873) crebbe la miseria dei braccianti; questo provocò i primi scioperi agricoli. Il protezionismo si tradusse nell'intervento dello Stato, aggiunto ai dazi doganali, che limitavano le importazioni e favorivano il commercio interno. L'interesse del governo si rivolse al rafforzamento dell'industria: grazie agli incentivi statali e al protezionismo nacquero le Acciaierie di Terni nel 1884 e la Società di Costruzioni Meccaniche Ernesto Breda nel 1886; si svilupparono le infrastrutture; la produzione industriale aumentò.

L'ossessione del governo italiano era di portare il Paese su una posizione adeguata a livello internazionale; per questo motivo venne acquistata nel 1882 la Baia di Assab dalla Compagnia Rubattino, da cui partì in seguito l'avventura coloniale nell'Africa orientale. La Sinistra storica cercò di migliorare le condizioni di vita della popolazione: con la legge Coppino del 1877 fu ribadita l'istruzione obbligatoria e con la riforma della legge elettorale del 1882 il diritto di voto fu esteso a chi avesse frequentato i primi due anni di scuola o pagasse almeno 20 lire di tasse annue.

Depretis avviò anche una serie di inchieste sulle condizioni di vita dei contadini nella penisola, la più famosa delle quali fu l'inchiesta Jacini. Tali iniziative rivelarono una grande miseria e pessime condizioni igieniche; l'infanzia era spesso vittima della difterite mentre gli adulti soffrivano di pellagra per malnutrizione. Tuttavia le finanze dello Stato venivano dissipate dalla politica coloniale e dai finanziamenti industriali: non furono realizzate nuove strutture scolastiche né bonifiche o migliorie agricole. Negli ultimi anni dell'Ottocento il Regno fu afflitto da un'emigrazione di massa, nel corso della quale milioni di contadini si trasferirono nelle Americhe e in altri stati europei.

In quel periodo, però, l'Italia fece anche un decisivo passo in avanti, avvicinandosi ai paesi più moderni. Ebbe inizio un ciclo di rapida industrializzazione; si affermò il movimento operaio; l'economia progredì, favorita dall'adozione di misure protezionistiche e dai finanziamenti concessi dallo Stato e da alcune importanti banche (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano). L'industrializzazione ebbe i suoi punti di forza nella siderurgia (gli operai del settore tra il 1902 e il 1914 aumentarono da 15 000 a 50 000) e nella nuova industria idroelettrica. Quest'ultima sembrava risolvere una delle debolezze dell'Italia, Paese privo di materie prime essenziali come il carbone e il ferro. Utilizzando l'acqua dei laghi alpini e dei fiumi fu possibile ottenere energia senza dipendere dall'estero per l'acquisto del carbone: la produzione di energia idroelettrica, tra il 1900 e il 1914, salì da 100 a 4 000 milioni di kWh.

L'industria tessile mantenne una posizione di rilievo con prodotti venduti sia sul mercato interno sia su quello internazionale. Anche l'industria meccanica cominciò ad affermarsi nel settore dei trasporti (auto, treni) e delle macchine utensili. Ciononostante l'economia conservava forti squilibri tra il Nord del Paese, industrializzato e moderno, e il Sud, arretrato e prevalentemente agricolo. La modernizzazione si manifestò anche nelle forme della vita politica e del conflitto sociale. Nel 1892 fu fondato a Genova da Filippo Turati il Partito Socialista Italiano, principale referente del movimento operaio fino all'avvento del fascismo.

Una grande esplosione di protesta popolare si registrò in Sicilia dopo il 1890 e vide migliaia di contadini, spinti dalla crisi che impoveriva l'economia dell'isola, battersi per una riforma agraria. Il governo, presieduto da Francesco Crispi, decretò l'occupazione militare della Sicilia e la condanna dei capi sindacali. Con Francesco Crispi, appunto, che assunse la carica di Primo Ministro dopo la scomparsa di Depretis nel 1887, la Sinistra prese una svolta autoritaria, nel tentativo di consolidare i possedimenti coloniali e di estenderli all'intera Etiopia; di sviluppare il mercato interno favorendo l'esportazione verso nuovi mercati. La realtà era ben diversa, però, dal progetto di Crispi.

Soprattutto una forte collusione tra potere economico e potere politico (si ricordi anche lo Scandalo della Banca Romana) paralizzava lo sviluppo del Paese e soprattutto del Mezzogiorno. Alcuni economisti ritengono che l'economia sia stata in questo periodo "un processo artificioso" prodotto dallo statalismo economico e non dalla libera iniziativa privata. Il governo della Sinistra storica si concluse nel 1896, con le dimissioni di Crispi, pochi mesi dopo la schiacciante sconfitta italiana ad Adua, dove si contarono circa cinquemila morti. L'iniziativa coloniale italiana non aveva cambiato la posizione del Paese sullo scacchiere internazionale.

La politica estera e l'alleanza con gli Imperi centrali modifica

Nel 1878 l'equilibrio europeo concordato a Vienna rischiò di essere sconvolto dagli esiti della guerra russo-turca e dai successivi accordi di pace che fecero crescere la sfera di influenza russa nella penisola balcanica. Il cancelliere Bismarck, preoccupato di questo, convocò d'urgenza una conferenza a Berlino alla quale partecipò, come rappresentante del Regno d'Italia, il Ministro degli Esteri Luigi Corti.[16] Da questo congresso, l'Impero russo vide praticamente annullati i vantaggi ottenuti con il trattato, e all'Austria-Ungheria fu assegnata la Bosnia-Erzegovina, all'Inghilterra l'isola di Cipro e alla Francia fu assicurato l'appoggio per l'occupazione della Tunisia.[17]

L'Italia non ottenne alcun vantaggio di nessun genere e la delusione che ne susseguì fu grande; ma ancora più gravi furono le conseguenze che ne derivarono, prima di tutte la conquista della Tunisia nel 1881 da parte della Francia.[17]

«Era stata bruscamente troncata un'altra speranza italiana, quella della Tunisia, che è di fronte alla Sicilia, che i suoi figli avevano quasi colonizzata, e che pareva spettarle come campo di attività in Africa e per la sua stessa sicurezza nel Mediterraneo... [...] eppure l'Italia non poté se non sdegnarsi e gridare, non essendo nemmen da pensare [...] una guerra contro la Francia.[18]»

Ora la vicinanza alla Sicilia della Repubblica transalpina rappresentava la più grave minaccia per il territorio italiano e principale avversario per gli interessi del Regno.[17] Nei confronti della Francia si venne a creare un sentimento di timore che fece passare in secondo piano il vecchio rancore verso Vienna, nonostante questa occupasse ancora terre italiane.[19] Così il Regno andò a cercare un suo posto tra le potenze europee dalle quali sarebbe risultato più forte, tanto più forti sarebbero stati i suoi alleati; guardò così alla Germania, alleata all'Austria-Ungheria. Il 20 maggio 1882 si concluse il primo trattato della Triplice Alleanza, un accordo di natura difensiva di valore quinquennale che fu rinnovato una prima volta il 20 febbraio 1887, anche se furono siglati due distinti accordi bilaterali Italia-Austria e Italia-Germania che stabilivano l'impegno dei firmatari a mantenere lo status quo nei Balcani.[19] L'ultimo rinnovo del trattato avvenne il 5 dicembre 1912, a seguito di altri due rinnovi precedenti.

Crisi di fine secolo modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Politica interna italiana alla fine del XIX secolo.

Negli ultimi anni del secolo a una nuova ondata di scioperi il governo rispose con una dura repressione, il cui culmine si ebbe per i moti di Milano del maggio del 1898, quando il generale Bava Beccaris fece aprire il fuoco sulla folla che reclamava pane e lavoro. Con la proclamazione dello stato d'assedio, la polizia arrestò i dirigenti socialisti, chiuse i giornali di opposizione e le sedi dei partiti operai.

La situazione italiana si trovò allora a un passaggio difficile. C'era il rischio che prevalesse un governo reazionario. L'attentato in cui morì il re Umberto I, compiuto a Monza nel 1900 dall'anarchico Gaetano Bresci, rese più tesa la situazione. D'altra parte diversi uomini della borghesia industriale e i partiti di sinistra (socialisti, repubblicani e radicali) puntavano invece a una svolta democratica. Questa si presentò nel 1901, quando il nuovo re Vittorio Emanuele III affidò la carica di primo ministro a Giuseppe Zanardelli, un liberale che si era pronunciato contro la repressione.

Economia italiana del XIX secolo modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Economia italiana del XIX secolo.

L'economia italiana del XIX secolo risentiva dell'unità nazionale conquistata da troppo poco tempo, delle contraddizioni politico-economiche delle diverse regioni unificate, delle forti disparità socioeconomiche fra il Settentrione e il Meridione del Paese, esemplificate poi nella cosiddetta questione meridionale, oltre che del mutato assetto geopolitico dell'Europa dopo il 1870.

Oltre ai collegamenti interni fra le varie regioni, ormai in via di ultimazione, l'Italia era collegata con la Francia e l'Europa centrale. Tutto ciò consentiva lo sviluppo di un vero mercato nazionale e internazionale, anche se la stessa povertà del mercato interno rappresentava un ostacolo al suo sviluppo.

Regno di Vittorio Emanuele III (1900-1946) modifica

L'anteguerra modifica

 
Vittorio Emanuele III, re d'Italia dal 1900 al 1946
 
Il Regno d'Italia dal 1871 alla Grande Guerra

Vittorio Emanuele nacque a Napoli l'11 novembre 1869, figlio di Umberto e di Margherita di Savoia. Nel 1896 sposò Elena del Montenegro e salì al trono nel 1900, quando il padre venne assassinato. Promotore di una politica riformatrice, sostenne l'azione politica di Giuseppe Zanardelli e Giovanni Giolitti. Si mostrò favorevole, nel 1911, all'invasione della Libia, preceduta da una grande campagna propagandistica.

Il periodo compreso tra il 1901 e il 1913 fu dominato dalla figura dello statista Giovanni Giolitti: la modernizzazione dello Stato liberale, insieme con le prime riforme di carattere sociale, nate in un clima di positivo rapporto tra governo e settori moderati del socialismo, ne fu il tratto caratterizzante. Importanti furono le posizioni riformistiche prevalse tra le file del partito socialista, che posero in minoranza l'ala massimalista, fautrice di uno scontro sociale e politico senza mediazioni. La svolta nel partito socialista trovò giustificazione nella linea politica tenuta da Giolitti, che si caratterizzò per un nuovo atteggiamento di neutralità governativa nei conflitti di lavoro, lasciando che fossero risolti dalle parti in causa: industriali e operai.

Ai governi presieduti da Giolitti risalgono le prime leggi speciali per lo sviluppo del Mezzogiorno, imperniate sul principio del credito agevolato alle imprese e riguardanti la Basilicata, la Calabria, la Sicilia, la Sardegna e Napoli: in quest'ultimo caso fu possibile ultimare rapidamente il centro siderurgico di Bagnoli. Un altro importante progetto portò alla statalizzazione delle ferrovie approvata dal Parlamento nel 1905, che metteva l'Italia al passo con gli altri paesi europei in un settore essenziale allo sviluppo. Nel 1912 una legge per finanziare le pensioni di invalidità e di vecchiaia per i lavoratori inaugurava la moderna legislazione sociale in Italia.

L'età giolittiana fu contrassegnata da una forte crescita economica che fece registrare notevoli tassi di sviluppo nel settore industriale, con conseguente aumento del reddito di molti italiani. Tuttavia, gli indici altrettanto elevati dell'emigrazione all'estero (circa 8 milioni di italiani lasciarono il Paese in dieci anni) confermavano i radicati squilibri tra nord e sud e tra città e campagna. L'Italia, alleata con la Germania, le cui ambizioni coloniali erano osteggiate da Gran Bretagna e Francia, trovò il pretesto per agire al di fuori dei vincoli della Triplice Alleanza (Germania, Italia, Austria-Ungheria).

Favorevoli alla campagna furono i grandi gruppi finanziari, come il Banco di Roma e la Banca Commerciale, ed esponenti della corrente nazionalista. Contrari erano i socialisti e alcuni rappresentanti del movimento democratico. Avanzata, il 29 settembre 1911, la dichiarazione di guerra alla Turchia, i 100 000 uomini del generale Carlo Caneva occuparono Cirenaica e Tripolitania in ottobre, dichiarandole territorio italiano il 5 novembre.

Nel maggio 1912 truppe italiane agli ordini del generale Giovanni Ameglio occuparono Rodi e il Dodecaneso. La Turchia, incapace di rispondere efficacemente alle manovre italiane, accettò i termini stabiliti nella pace di Losanna (18 ottobre 1912), in cui si stabiliva che l'Italia doveva ritirare le truppe dalle isole egee, mentre la Turchia cedeva la Libia al Governo italiano. Dato che la Turchia si rifiutava di cedere la Libia, l'Italia non ritirò il contingente dal Dodecaneso, dove rimase invece per tutta la durata della prima guerra mondiale.

Nel 1923 il trattato di Losanna assegnava ufficialmente il Dodecaneso e Rodi all'Italia; sarebbero rimaste sue colonie fino al 1945.

La Grande Guerra e i trattati di pace modifica

 
L'Italia dal 1924 alla seconda guerra mondiale, con la Venezia Tridentina e la Venezia Giulia (province di Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Zara)

L'azione austro-ungarica contro la Serbia era contraria agli interessi italiani, ma Roma ammetteva pure l'ipotesi di fornire all'alleata sostegno contro la Serbia, in cambio di compensi territoriali, ai sensi dell'articolo VII del Trattato della Triplice Alleanza. Per Roma, tali compensi territoriali dovevano consistere nelle province italiane dell'impero asburgico, in particolare nel Trentino. Pressato dalla Germania, il governo asburgico concesse la legittimità dell'interpretazione italiana dell'articolo VII, ma condizionò il riconoscimento dei compensi alla partecipazione italiana alla guerra. Inoltre, il governo asburgico respinse seccamente l'idea che i compensi potessero consistere in territori del suo impero (come il Trentino). Ciò persuase il governo italiano che gli eventuali compensi concessi non sarebbero stati tali da giustificare lo sforzo bellico, né a convincere l'opinione pubblica italiana dell'opportunità di scendere in guerra con Vienna e Berlino. Anche perché l'Italia era largamente impreparata ad affrontare un conflitto di ampie proporzioni. La neutralità fu dunque il risultato di una situazione in cui l'Italia aveva molto da rischiare, e poco da guadagnare, dalla partecipazione alla guerra al fianco di Vienna e Berlino.[20]

Nel 1915, Vittorio Emanuele III si dimostrò ancora una volta favorevole all'entrata in guerra a fianco di Gran Bretagna, Francia e Russia. Allo scoppio della prima guerra mondiale, si recò personalmente al quartier generale in Veneto, anche se il comando era tenuto da Luigi Cadorna, lasciando la luogotenenza del Regno allo zio Tommaso, duca di Genova. Fino al 1917 la situazione del fronte era stabile, con pochissime conquiste e decine di migliaia di vittime da entrambi i lati.

Tuttavia, nell'ottobre del 1917 una forte scossa alla guerra sul fronte italiano: la disfatta di Caporetto. Per l'organizzazione politica e militare italiana fu una rivoluzione: il Comando dell'esercito venne affidato ad Armando Diaz (il "Duca della Vittoria") e il Governo presieduto da Paolo Boselli fu costretto alle dimissioni. Verrà subito sostituito da Vittorio Emanuele Orlando, che poi parteciperà alla Conferenza di Pace di Parigi, grazie al quale l'Italia ottenne il Trentino-Alto Adige, Trieste, Gorizia, l'Istria, Zara e le isole del Carnaro, di Lagosta, di Cazza e di Pelagosa.

Il regno tra le due guerre mondiali modifica

 
Mussolini fu il capo indiscusso dell'Italia dall'ascesa del fascismo nel 1922 fino al 1943.

In Italia il ritorno alla pace mise allo scoperto le fragilità del sistema economico, chiamato alla riconversione dalla produzione bellica a quella civile: debito pubblico alle stelle, inflazione e disoccupazione erano le eredità del conflitto. Nell'opinione pubblica si insinuò il mito della "vittoria mutilata" allorché alla conferenza di pace fu negata all'Italia la cessione della Dalmazia e di Fiume, in base al principio dell'autodeterminazione dei popoli. A nulla servì il gesto di rottura compiuto dai ministri plenipotenziari, Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino, i quali nell'aprile del 1919 abbandonarono per protesta la conferenza di Parigi, salvo farvi ritorno poco dopo per la firma dei trattati conclusivi, nei quali venivano riconosciuti all'Italia Trento, Trieste e l'Istria. In un clima di delusione ebbero buon gioco i nazionalisti a fare sentire la loro protesta e ad applaudire l'occupazione di Fiume effettuata nel settembre del 1919 dai volontari guidati dal poeta Gabriele D'Annunzio e fiancheggiati da truppe sediziose dell'esercito.

A partire dal 1919 gli operai nelle fabbriche e i braccianti nelle campagne scesero in sciopero per rivendicare aumenti salariali e migliori condizioni di vita; ma agiva in loro anche il richiamo alla rivoluzione socialista, sull'esempio di quella in atto nella Russia di Lenin, iniziava il biennio rosso. Il movimento popolare, indirizzato dai sindacati e dal Partito socialista, mancò di una chiara linea di conduzione perché venne disorientato dalle divisioni all'interno della sinistra, in particolare dallo scontro tra massimalisti e riformisti. Raggiunse l'acme con l'occupazione delle fabbriche del Nord (1920), per poi declinare rapidamente.

Intanto in quegli anni si affacciarono nuove formazioni politiche, espressione di ideologie moderne. Nel 1919 fu fondato dal sacerdote Luigi Sturzo il Partito Popolare Italiano, sotto gli auspici della Chiesa. Lo stesso anno vide venire alla luce il movimento fascista, nato per iniziativa di Benito Mussolini come forza extraparlamentare col nome di Fasci italiani di combattimento, in difesa degli ideali nazionalistici e con un radicalismo antisocialista; esso si rivolgeva soprattutto agli ex combattenti e ai ceti medi, facendo leva sullo spauracchio (non del tutto infondato) di una rivoluzione comunista. Nel 1921 a Livorno da una scissione in seno al partito socialista nacque il Partito Comunista d'Italia: Antonio Gramsci ne era il leader teorico.

Nelle istituzioni si riflettevano le tensioni presenti nella società. Nel giugno del 1920 fece ritorno alla presidenza del consiglio Giolitti, che per esperienza e prestigio si pensava potesse comporre i contrasti politici. Egli risolse la questione di Fiume, firmando con la Jugoslavia il trattato di Rapallo (12 novembre 1920), che riconosceva all'Italia Zara e le isole di Cherso, Lussino, Pelagosa, Lagosta e Cazza, e faceva di Fiume una città libera: tale sarebbe rimasta fino al 1924, anno in cui, con il trattato di Roma, passò sotto la sovranità italiana. Le difficoltà per Giolitti vennero dalla situazione interna, perché cresceva nei ceti medi e nei possidenti, allarmati dalle vittorie socialiste alle elezioni amministrative, l'attesa di una risposta autoritaria, mentre l'opinione pubblica moderata era turbata dal disordine e dalle violenze generate dai tumulti del movimento operaio da quanti speravano di innescare una situazione rivoluzionaria, a somiglianza di quanto era da poco accaduto in Russia, e che stava accadendo in quegli anni in altri paesi della Mitteleuropa come, ad esempio, nell'effimero caso della Repubblica Bavarese dei Consigli.

Il 18 settembre 1920, grazie ad un accordo italo-albanese (accordo di Tirana del 2 agosto 1920, in cambio delle pretese italiane su Valona) e ad un accordo con la Grecia, l'isola di Saseno entrò a far parte dell'Italia, la quale la voleva per la sua posizione strategica all'imbocco del Mare Adriatico. Esauritosi il così definito biennio rosso (1919-1920) delle lotte operaie e contadine, la reazione dei ceti medi, degli agrari e degli industriali si indirizzò verso il movimento fascista, le cui violenze vennero ingenuamente assolte come premessa a un auspicato "ritorno all'ordine".

Mussolini riuscì così a catalizzare sia le ambizioni di crescita sinora frustrate della piccola borghesia, disposta persino all'uso della violenza, sia lo spirito di rivalsa diffuso tra i grandi detentori di ricchezze, gli agrari in primo luogo, a questi si aggiungevano, come "cani sciolti", i molti studenti universitari affascinati dalla carica eversiva e rivoluzionaria dell'arditismo come dall'idealismo e dalla mistica fascista e infine tutti quei nazionalisti declinanti al patriottismo massimalista. Iniziarono allora le violenze delle squadre di volontari fascisti, le camicie nere, contro le sedi e gli uomini del movimento operaio e socialista. Nelle elezioni politiche del 1921 il Partito Nazionale Fascista, fondato in quell'anno, ottenne 35 deputati, un numero ancora inferiore a quello dei socialisti ma sufficiente a segnare la sconfitta dei partiti democratici, tra loro profondamente divisi.

Nell'ottobre del 1922 Mussolini chiamò a raccolta i suoi uomini e li organizzò in formazioni di carattere militare, a capo delle quali mise un quadrumvirato composto da Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi. Il 27 ottobre del 1922 le camicie nere si raccolsero in diverse parti d'Italia per dirigersi su Roma (marcia su Roma del 28 ottobre) e chiedere le dimissioni del governo presieduto da Luigi Facta. Questi si rivolse al re perché proclamasse lo stato d'assedio e sciogliesse la manifestazione. Ma Vittorio Emanuele III si oppose e affidò a Mussolini l'incarico di formare il nuovo governo. In questo modo, Mussolini andò al governo a capo di una coalizione di liberali e popolari, che ottenne la maggioranza nel voto parlamentare.

Alla vigilia del Ventennio, Vittorio Emanuele III assunse una posizione incerta al profilarsi dell'era fascista. Mussolini, salito al potere nel 1922, portò rapidamente il Paese ad una deriva autoritaria nel 1925. Il fascismo in Italia durò fino al 1943, allorquando in seguito ai disastri sui vari fronti militari durante la seconda guerra mondiale e all'approssimarsi dell'invasione alleata dell'Italia, Mussolini fu sfiduciato dal Gran consiglio del fascismo e fatto arrestare dal re.

La politica coloniale fascista (1926-39) modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Colonialismo italiano.
 
La resistenza opposta da Hailé Selassié all'invasione italiana dell'Etiopia lo rese l'uomo dell'anno 1935 sulla rivista Time.

Il fascismo in ambito coloniale propugnava l'Italia quale grande potenza, i cui sogni però erano stati disattesi dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale. Così fin dal suo esordio il fascismo perseguì l'obiettivo di rendere reale il sogno di un impero coloniale italiano. Questo disegno colonialista fu avviato prima in Libia dove nel corso del tempo l'Italia aveva perso il controllo di molte zone. Così Tra il 1926 e il 1931 il regime fascista, con una forte azione repressiva riuscì riprendere il controllo dell'intero territorio libico sia la parte costiera che l'entroterra. Successivamente nel 1936 fu avviata la guerra contro L'Abissinia, con la campagna del generale Rodolfo Graziani che conquistò l'Abissinia con la totale noncuranza delle sanzioni economiche. La guerra all'Abissinia si concluse nel giro di un anno portando il 9 maggio 1936 alla proclamazione dell'impero, e alla nomina di Vittorio Emanuele III, quale Imperatore d'Etiopia. L'Italia fascista continuò successivamente l'ingrandimento del proprio spazio coloniale annettendo a sé l'Albania nel 1939 parallelamente alle conquiste tedesche nel resto d'Europa. In seguito all'ultima annessione il re assunse anche il titolo di Re d'Albania.

Il regno durante la seconda guerra mondiale modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Regno del Sud.
Il Regno d'Italia tra il 1941 e il 1943, con la Provincia di Lubiana e il Governatorato della Dalmazia.
L'Impero coloniale italiano nel 1940, nel momento di massima espansione

A causa delle sanzioni economiche, l'Italia si ritrovò in una situazione sfavorevole, alla quale Mussolini fece fronte con un regime autarchico. Il regime di autosufficienza economica rappresentò una soluzione parziale, dato che all'economia era necessario il commercio: l'unica nazione disposta a commerciare con l'Italia fu la Germania nazista di Hitler, con la quale firmò il Patto d'Acciaio (22 maggio 1939, firmato dai due Ministri degli Esteri: Joachim von Ribbentrop e Galeazzo Ciano), un accordo che sanciva aiuto reciproco in caso di un conflitto e si definì così l'Asse Roma-Berlino.

Nel 1940, Vittorio Emanuele III, anche se personalmente contrario all'entrata in guerra al fianco della Germania nazista, non si oppose alla scelta di Mussolini. Nel 1943 la guerra volse al peggio per l'Asse, dunque il Re, pressato dalle gerarchie militari, destituì Mussolini, sostituendolo con il maresciallo Pietro Badoglio, in seguito al pronunciamento del Gran consiglio del fascismo del 25 luglio 1943.

Nel luglio-agosto 1943 il generale Dwight D. Eisenhower guidò lo sbarco in Sicilia: il 10 luglio alcune armate anglo-americane sbarcano sull'isola, liberata il 17 agosto. Mussolini venne fatto arrestare dal re il 26 luglio dello stesso anno, sfiduciato dal Partito Nazionale Fascista, imprigionato a Ponza, poi a La Maddalena e infine, il 27 agosto, a Campo Imperatore, dove venne liberato dai tedeschi il 12 settembre, condotto a Monaco da Hitler e riaccompagnato in Italia, dove il 23 settembre costituì la Repubblica Sociale Italiana (RSI), o Repubblica di Salò (sul lago di Garda).

 
Repubblica Sociale Italiana: le aree segnate in marrone facevano ufficialmente parte della R.S.I. ma erano considerate dalla Germania zone di operazione militare e sottoposte a diretto controllo tedesco.

Intanto il nuovo capo del governo Badoglio, il cui mandato iniziò ufficialmente il 26 luglio 1943, condusse trattative segrete che culminarono con la firma dell'armistizio a Cassibile (Siracusa) il 3 settembre, annunciato alla popolazione del Regno solo l'8 settembre. La notte stessa della firma dell'armistizio il Re e il governo fuggirono a Brindisi, che divenne sede provvisoria del governo, mentre alcune armate alleate giunsero a Taranto e a Salerno. In ottobre i tedeschi attuarono l'operazione Achse, con cui le truppe tedesche occuparono le zone dell'Italia non ancora liberate dagli Alleati, e a settembre l'operazione Nubifragio, con cui si annetterono il Trentino-Alto Adige, e le provincie di Belluno, Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana. 700 000 soldati italiani furono deportati in Germania.

Nelle città principali, nelle valli settentrionali e nel centro Italia si formarono i primi gruppi partigiani, e la Regia Marina, in osservanza dell'armistizio, si concentrò su Malta. Fra l'ottobre 1943 e il maggio del 1944 la "Linea Gustav" bloccava l'avanzata alleata, che però riprese il suo corso dopo che le truppe tedesche abbandonarono il caposaldo di Cassino. Tra il 28 settembre e il 1º ottobre 1943 a Napoli i partigiani combatterono le quattro giornate di Napoli.

Il 13 ottobre l'Italia dichiarò guerra alla Germania. Nel gennaio del 1944 la sede provvisoria del governo fu trasferita a Salerno (a questo proposito, si parla enfaticamente di Salerno capitale). Il 22 gennaio le truppe americane sbarcarono ad Anzio ed il 15 febbraio 1944 dei bombardamenti danneggiarono gravemente l'abbazia di Montecassino. L'indomani della liberazione di Roma (4 giugno 1944) da parte delle truppe alleate, Vittorio Emanuele III nominò il figlio Umberto II (il futuro "Re di Maggio") luogotenente del Regno (5 giugno 1944), nel vano tentativo di ritardare il più possibile il momento dell'abdicazione.

Nell'agosto 1944 i partigiani liberarono Firenze, mentre nel novembre dello stesso anno il fronte si stabilizzò lungo la Linea Gotica, ai piedi dell'Appennino tosco-emiliano. Da giugno fino a novembre si svilupparono le lotte partigiane in tutto il nord Italia: l'attività politica e militare della Resistenza venne riconosciuta con l'istituzione del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) e il CVL (Corpo Volontari della Libertà). Il 24 agosto il capo del Governo Bonomi conferì al CLNAI alcuni poteri in Alta Italia.

Tra luglio e agosto 1944 i partigiani formarono la Repubblica di Montefiorino; tra l'agosto e il settembre 1944 si proclamò indipendente la Repubblica libera della Carnia; il 10 settembre 1944 si formò la Repubblica dell'Ossola, che terminerà il 10 ottobre 1944 (i "40 giorni di libertà"); ad Alba i partigiani presero il potere fra l'ottobre e il novembre del 1944. Nell'aprile 1945 le truppe alleate sfondarono la linea gotica e liberarono il nord Italia, aiutate anche dalle numerose insurrezioni nelle principali città (Bologna, Genova, Milano e Torino).

Il 27 aprile Mussolini cercò la fuga in Svizzera con Claretta Petacci, ma venne riconosciuto dai partigiani a Dongo ed ucciso il giorno dopo a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como. Il 1º maggio, truppe partigiane jugoslave occupavano Trieste, anticipando le truppe inglesi, che giunsero il 3 maggio. Vittorio Emanuele III abdicò in favore del figlio Umberto il 9 maggio 1946, per ritirarsi in esilio ad Alessandria d'Egitto, dove morì il 28 dicembre 1947.

La luogotenenza, il regno di Umberto II (1944-1946) e la fine modifica

 
Umberto II, ultimo re d'Italia

La seconda guerra mondiale lasciò l'Italia con un'economia notevolmente compromessa ed una popolazione politicamente divisa. Il malcontento in parte era dovuto all'imbarazzo di una nazione occupata prima dai tedeschi e poi dagli Alleati. Umberto II, passato alla storia come Re di Maggio, ottenne la corona il 9 maggio 1946, quando il padre abdicò in suo favore, ma di fatto aveva cominciato a governare nel giugno 1944, quando il padre, nominandolo luogotenente del Regno, gli affidò la totalità del potere.

Come luogotenente Umberto II si distinse per la sua politica molto diversa da quella del padre. Il suo regno ebbe diversi governi capeggiati da Bonomi e De Gasperi che, a seguito delle "tregua istituzionale" videro la partecipazione di tutte le forze politiche democratiche. Il 2 giugno 1946 si tenne il referendum per scegliere fra monarchia e repubblica, referendum voluto dai partiti politici e decretato dallo stesso Umberto II. I risultati furono proclamati dalla Corte di cassazione il 10 giugno 1946, mentre il giorno successivo tutta la stampa dette ampio risalto alla notizia.

La notte fra il 12 e 13 giugno, nel corso della riunione del Consiglio dei ministri, il presidente Alcide De Gasperi, prendendo atto del risultato, assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato repubblicano. Umberto lasciò volontariamente il Paese il 13 giugno 1946, diretto a Cascais, una città nel sud del Portogallo, senza nemmeno attendere la definizione dei risultati e la pronuncia sui ricorsi, che saranno respinti dalla Corte di Cassazione il 18 giugno 1946. Nel lasciare l'Italia, l'ex re lanciò un proclama agli italiani, in cui denunciava "l'atto rivoluzionario" del Governo.[21]

Dopo la nascita della Repubblica Italiana, il 1º gennaio 1948 entrò in vigore la Costituzione repubblicana che, alla XIII disposizione transitoria, stabiliva il divieto di rientro in Italia per gli ex re, le loro consorti e i loro discendenti maschi. Umberto II di Savoia morirà in esilio nel 1983, con il titolo di conte di Sarre.

Cronologia degli stemmi nazionali modifica

Come primo stemma l'Italia adottò provvisoriamente l'ex stemma del Regno di Sardegna ideato da Carlo Alberto, re di Sardegna.

Nel 1870, per volere di Vittorio Emanuele II, venne modificato l'emblema nazionale, nel quale venne inserito lo Stellone d'Italia.

Nel 1890, per volere di Umberto I, lo stemma venne arricchito e come segno di potere venne inserita al centro la corona ferrea.

Di fronte al consenso al fascismo, Vittorio Emanuele III inserì nel 1929 due fasci littori nello stemma, su richiesta di Mussolini

Dichiarato il fascismo nemico d'Italia, Vittorio Emanuele III poté riadottare nel 1944 lo stemma precedente, che venne utilizzato anche sotto il breve regno di Umberto II.

Politica modifica

L'assetto istituzionale modifica

Retto da una monarchia costituzionale la cui corona fu detenuta dalla dinastia dei Savoia, fu uno Stato nazionale e centralista. Si estendeva pressoché sulla totalità della penisola italiana, arrivando a comprendere, a partire dal 1919, gran parte della regione geografica italiana; confinava (nel 1924) con la Francia a nord-ovest, con la Svizzera e la Repubblica d'Austria a nord, con il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (poi divenuto, nel 1929, Regno di Jugoslavia) a nord-est.

La Repubblica di San Marino e la Città del Vaticano erano enclavi nel territorio del Regno. Il Regno d'Italia ereditò le istituzioni e il corpo legislativo del Regno di Sardegna, che prevalsero rispetto a quelli della maggior parte degli Stati preunitari. Durante la sua esistenza si succedettero quattro sovrani e si alternarono periodi politicamente diversi tra loro: la Destra e la Sinistra storica, l'età giolittiana, il nazionalismo, il biennio rosso, il fascismo e il conflitto interno post-armistizio durante la seconda guerra mondiale.

L'organizzazione amministrativa modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Circondario del Regno d'Italia e Mandamento del Regno d'Italia.

Dopo l'unità d'Italia, con l'estensione della legge Rattazzi al neonato Stato, il territorio venne diviso in province, a loro volta ripartite in circondari; questi ultimi erano a loro volta suddivisi in mandamenti.[22] Alla sua nascita, il Regno d'Italia risultava suddiviso in 11 compartimenti territoriali (privi di funzioni amministrative), 59 province, 193 circondari e 7 720 comuni.[23]

A partire dal II censimento generale del 31/12/1871, il Regno d'Italia raggruppò le 69 province allora esistenti in 16 compartimenti (Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzi e Molise, Campania, Puglie, Basilicata, Calabrie, Sicilia, Sardegna), i quali - benché fossero semplicemente raggruppamenti di province dalle funzioni esclusivamente geografiche e statistiche, non già amministrative - sono sostanzialmente i precursori delle odierne regioni italiane.

Le città capoluogo dei circondari erano sede di sottoprefettura, tribunale ordinario, catasto e uffici finanziari. I circondari e i mandamenti vennero soppressi nel 1927.[24]

Le leggi elettorali modifica

La legge elettorale del Regno di Sardegna emanata da Carlo Alberto il 17 marzo 1848, era stata elaborata anteriormente all'apertura del Parlamento subalpino da una commissione presieduta da Cesare Balbo. L'elettorato poteva essere esercitato solamente dai maschi in possesso di una serie di requisiti: età non inferiore ai 25 anni, saper leggere e scrivere, pagamento di un censo di 40 lire. Al voto erano ammessi, anche non pagando l'imposta stabilita, i cittadini che rientravano in determinate categorie: magistrati, professori, ufficiali. I deputati, in numero di 204, erano eletti in altrettanti collegi uninominali, eletti in un sistema a doppio turno.

Questa normativa elettorale, parzialmente modificata dalla legge del 20 novembre 1859, n. 3778, emanata durante la seconda guerra di indipendenza dal governo Rattazzi in virtù dei pieni poteri, rimase sostanzialmente inalterata dal 1848 al 1882, per le sette legislature del Regno di Sardegna dal 1848 al 1861 e per sette successive legislature del Regno d'Italia dal 1861 al 1882. La legge del 22 gennaio 1882, n. 999, nacque da un progetto presentato da Benedetto Cairoli, presidente del consiglio dal 26 marzo 1878 ed esponente della sinistra storica.

Essa ammise all'elettorato tutti i cittadini maggiorenni che avessero superato l'esame del corso elementare obbligatorio oppure pagassero un contributo annuo di lire 19,80; in tal modo si realizzò un cospicuo allargamento del corpo elettorale che passò da circa 628 000 ad oltre 2 000 000 di elettori, cioè dal 2% al 7% della popolazione totale che contava 28 452 000 abitanti. Furono anche modificate le circoscrizioni con riferimento alle province e si costituirono collegi con due e fino a cinque rappresentanti, adottando lo scrutinio di lista. Venne così abolito lo scrutinio uninominale, ma l'esperimento non diede risultati soddisfacenti e con la legge 5 maggio 1891, n. 210, si tornò al precedente sistema uninominale a doppio turno. Questa normativa elettorale restò in vigore per nove legislature dal 1882 al 1913.

Su pressione delle organizzazioni popolari di massa, in particolare quelle socialiste, ma anche quelle cattoliche, il suffragio universale maschile fu introdotto dal governo Giolitti con la legge del 30 giugno 1912, n. 666. L'elettorato attivo fu esteso a tutti i cittadini maschi di età superiore ai 30 anni senza alcun requisito di censo né di istruzione, restando ferme per i maggiorenni di età inferiore ai 30 anni le condizioni di censo o di prestazione del servizio militare o il possesso di titoli di studio già richiesti in precedenza. Il corpo elettorale passò da 3 300 000 a 8 443 205, di cui 2 500 000 analfabeti, pari al 23,2% della popolazione. Non si attuò invece la revisione dei collegi elettorali in base ai censimenti.

La Camera respinse a grande maggioranza con votazione per appello nominale la concessione del voto alle donne. Nel clima culturale del primo Novecento, in cui la fiducia nel progresso tecnico e scientifico attribuiva agli inventori il compito di risolvere ogni problema, anche la Commissione parlamentare che esaminò il disegno di legge sull'allargamento del suffragio dedicò attenzione a decine di inventori di "votometri" e "votografi", precursori del voto elettronico. Questa normativa fu impiegata nelle sole elezioni politiche italiane del 1913. Al termine del primo conflitto mondiale la legge 16 dicembre 1918, n. 1985, ampliò il suffragio estendendolo a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto il 21º anno di età e, prescindendo dai limiti di età, a tutti coloro che avessero prestato servizio nell'esercito mobilitato.

Inoltre, l'idea di una riforma del sistema elettorale in senso proporzionale, promossa dalle forze politiche d'ispirazione socialista e cattolica, si impose nel dopoguerra. Il 9 agosto 1918 la Camera votò a scrutinio segreto la nuova legge elettorale con 224 voti a favore e 63 contrari. Con la legge 15 agosto 1919, n. 1401, fu introdotto il sistema proporzionale. Base dei collegi divennero le province, ma con riguardo anche alla popolazione in modo tale che ad ogni collegio corrispondessero almeno 10 eletti. Questa normativa, presentata dal governo Orlando, fu impiegata nelle elezioni politiche italiane del 1919 e nelle elezioni politiche italiane del 1921.

Giunto al potere alla fine del 1922, Benito Mussolini manifestò subito la volontà di modificare il sistema elettorale per costituirsi una Camera favorevole e di indire nuove elezioni. La legge elettorale del 18 novembre 1923, n. 2444, meglio nota come legge Acerbo (dal nome del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo, che ne fu l'estensore materiale), rispose a questa esigenza introducendo un sistema che prevedeva l'introduzione nel territorio dello Stato del Collegio Unico nazionale attribuendo due terzi dei seggi alla lista che avesse riportato la maggioranza relativa (purché superiore al 25%), mentre l'altro terzo sarebbe stato ripartito proporzionalmente tra le altre liste di minoranza su base regionale e con criterio proporzionale. Questa normativa fu impiegata nelle elezioni politiche italiane del 1924.

Nel 1928, il disegno di legge sulla riforma della rappresentanza politica presentato dal ministro della giustizia Alfredo Rocco introdusse un nuovo sistema elettorale che, negando la sovranità popolare e liquidando l'esperienza parlamentare, contribuiva alla realizzazione di un regime autoritario basato sulla figura del Capo del Governo. Il provvedimento approvato senza discussione riduceva le elezioni all'approvazione di una lista unica nazionale di 400 candidati, prevedendo la presentazione di liste concorrenti solo quando la lista unica non fosse stata approvata dal corpo elettorale. La compilazione della lista era compito del Gran consiglio del fascismo, dopo aver raccolto le designazioni dei candidati da parte delle confederazioni nazionali di sindacati legalmente riconosciute e altri enti ed associazioni nazionali (testo unico 2 settembre 1928, n. 1993).

Questa normativa fu impiegata nel plebiscito del 1929 e nel plebiscito del 1934. Il sistema elettivo fu poi abbandonato nel 1939; la Camera dei deputati venne soppressa e al suo posto venne istituita la Camera dei fasci e delle corporazioni di cui facevano parte coloro che rivestivano determinate cariche politico-amministrative in alcuni organi collegiali del regime e per la durata della stessa.

Il parlamento e la politica nazionale modifica

Il 27 gennaio 1861 si tennero le elezioni politiche per la prima Camera unitaria (il Senato era di nomina regia: composto da membri di età superiore ai quaranta anni e nominati a vita dal re; la camera era composta da deputati eletti nei collegi elettorali). In continuità con le istituzioni piemontesi, tali elezioni si svolsero sulla base del Regio editto n. 680 del 17 marzo 1848,[25] dopo che Carlo Alberto il 4 marzo 1848 promulgò lo Statuto fondamentale del Regno secondo il quale il potere legislativo veniva esercitato dal re e da due Camere; secondo la suddetta legge avevano facoltà di votare solo i cittadini maschi alfabetizzati, con un'età minima di 25 anni, che godevano dei diritti civili e politici e che pagavano annualmente una quantità di imposte che andava dalle 20 lire della Liguria, alle 40 del Piemonte.

Su una popolazione di 22 182 377 persone, i nuovi governanti concessero il diritto di voto a 418 696 abitanti (circa l'1,9%) e, di questi, soltanto 239 583 (circa l'1,1%) avrebbero esercitato tale diritto; alla fine i voti validi si ridussero a 170 567, dei quali oltre 70 000 erano di impiegati statali. A consultazioni concluse, vennero eletti 135 avvocati, 85 nobili, 53 professionisti, 23 ufficiali e 5 abati.

Con la prima convocazione del Parlamento italiano del 18 febbraio 1861 e la successiva proclamazione del 17 marzo, Vittorio Emanuele II è il primo re d'Italia nel periodo 1861-1878. Nel 1866, a seguito della terza guerra di indipendenza, vengono annessi al regno il Veneto (che allora comprendeva anche la Provincia del Friuli) e Mantova sottratti all'Impero austriaco. Nel 1870, con la presa di Roma, al regno viene annesso il Lazio, sottraendolo definitivamente allo Stato della Chiesa. Roma diventa ufficialmente capitale d'Italia (prima lo erano state in ordine Torino e Firenze).

Seguono i regni di Umberto I (1878-1900), ucciso in un attentato dall'anarchico Gaetano Bresci al fine di vendicare la strage del 1898, quando dei manifestanti pacifici a Milano vennero presi a cannonate dall'esercito sotto ordine reale, e di Vittorio Emanuele III (1900-1946).

Nei vent'anni antecedenti allo scoppio della prima guerra mondiale, il Regno d'Italia vide un graduale ma costante cambiamento verso una monarchia de facto parlamentare, in quanto i governi di quegli anni chiedevano la fiducia alla Camera dei Deputati, e non più al Senato del Regno: per questo si può dire che il Senato avesse perso quasi ogni sua funzione, dall'approvazione delle leggi fino alla fiducia al governo. In quegli anni l'Italia si trasformò quasi completamente in una monarchia parlamentare come il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda.

Con quest'ultimo, nel 1919 dopo la prima guerra mondiale vengono uniti al Regno il Trentino, l'Alto Adige, Gorizia e la Venezia Giulia, l'Istria, Trieste, Zara alcune isole del Quarnaro e altre isole dell'Adriatico: Lagosta, Cazza e Pelagosa. Seguirono l'annessione dell'isola di Saseno nel 1920 e di Fiume nel 1924.

Durante la seconda guerra mondiale vengono annesse le isole Ionie (ad eccezione di Corfù, legata con statuto speciale all'Albania), la Dalmazia e il territorio di Lubiana. Dopo la seconda guerra mondiale, gran parte della Venezia Giulia, l'Istria, Fiume, la Dalmazia (con le isole di Lagosta e di Cazza), e l'arcipelago di Pelagosa vengono ceduti con il Trattato di Parigi del 1947 alla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia che le aveva occupate nella primavera 1945, le isole Ionie passano alla Grecia e l'isola di Saseno all'Albania.

Vengono inoltre ceduti alla Francia i territori di Tenda e di Briga, il passo del Monginevro, la Valle Stretta del monte Thabor, il Colle del Moncenisio ed una parte del territorio del Colle del Piccolo San Bernardo. Il Regno d'Italia, retto intanto da Umberto prima come luogotenente del Regno (1943-1946) e poi per poco più di un mese come re (il Re di maggio) in seguito all'abdicazione di Vittorio Emanuele III, si conclude con la proclamazione della Repubblica Italiana a seguito del referendum del 1946, che segnò l'esclusione della famiglia reale dalla storia d'Italia dopo 85 anni di regno.

Mappe della formazione territoriale progressiva modifica

Legenda

Forze armate modifica

 
Vessillo del Regio Esercito Italiano

Il Re d'Italia fu comandante in capo del Regio Esercito Italiano dal 1861 al 1940 e dal 1943 al 1946. Il monarca aveva ampi poteri sull'esercito ed il parlamento veniva consultato in materia solo con l'approvazione del budget da destinare alle forze armate. Il re aveva il diritto di determinare la forza e le guarnigioni in servizio, di dare ordine di costruire fortezze e di assicurare l'organizzazione e la formazione, l'armamento ed il comando nonché l'addestramento della truppa e le qualifiche degli ufficiali.

Il grado militare più alto nel Regio Esercito Italiano fu quello di Primo Maresciallo dell'Impero che ebbero solo re Vittorio Emanuele III (1938), Benito Mussolini (1938) e Pietro Badoglio (1943, de facto).

Le forze armate del regno erano divise nei seguenti rami:

Demografia e società modifica

Dopo l'unificazione e per tutto il periodo dell'Italia liberale, la società italiana rimase fortemente divisa a livello linguistico, tradizionale e sociale. I tratti culturali comuni in Italia a quel tempo erano di natura socialmente conservatrice, inclusa una forte fede nella famiglia come istituzione e nei valori patriarcali. All'epoca gli aristocratici e le famiglie di medie dimensioni erano molto comuni in Italia. L'onore era un tratto fortemente sottolineato. Dopo l'unificazione, il numero degli aristocratici salì a circa 7 400 famiglie nobili, con la crescita della cosiddetta "nobiltà bianca" (quella fedele al nuovo stato) e una diminuzione significativa del ruolo ricoperto dalla "nobiltà nera", quella fedele al papa e ai dettami della chiesa. Molti ricchi proprietari terrieri (specialmente nel sud) detenevano un controllo ancora feudale sui contadini da loro dipendenti.

 
Raggruppamenti delle lingue e dei dialetti d'Italia.[27][28][29][30]

     Lingua francoprovenzale

     Lingua occitana

     Lingue gallo-italiche

     Lingua veneta

     Dialetto sudtirolese

     Lingua friulana e lingua ladina

     Lingua slovena

     Dialetti toscani

(Italiano)

     Dialetti italiani mediani

     Lingua napoletana

     Lingua siciliana

     Lingua sarda

     Lingua corsa

La società e l'economia dell'Italia meridionale soffrirono particolarmente dopo l'unificazione nazionale. Il processo di industrializzazione in loco si svolse tra molte esitazioni solo a partire dall'inizio del XX secolo, epoca nella quale si assistette ad una leggera ripresa economica. La pessima situazione sociale ed economica rilevata nell'Italia meridionale fu una delle motivazioni che, assieme alla resistenza alle istituzioni sabaude del nuovo stato, fomentò la crescita della criminalità organizzata. I governi italiani che si succedettero alla presidenza del consiglio furono fermamente convinti di poter contrastare tale fenomeno con la repressione militare. L'approccio del governo centrale fu, a partire dagli anni sessanta dell'Ottocento, di distruggere la maggior parte delle infrastrutture sociali preesistenti per imporre il modello sabaudo e ciò fu tra le motivazioni che alla fine innescò una massiccia emigrazione italiana nel mondo (soprattutto negli Stati Uniti ed in Sud America).[31] Molti italiani del meridione si stabilirono anche nelle città industriali del settentrione come Genova, Milano e Torino.

Dopo la fine dell'era liberale, dal 1922 in poi, i fascisti perseguirono il concetto di stato unitario totalitario, col preciso scopo di includere tutte le classi sociali. L'Italia divenne una dittatura monopartitica e Mussolini col regime fascista orientarono univocamente la cultura italiana e la società sul mito di Roma e sul futurismo come espressione intellettuale ed artistica di un'Italia moderna. Sotto il fascismo, la definizione di cittadinanza italiana si basava su un ideale di "popolo nuovo" dove l'individualità personale doveva sottomettersi al bene dello stato e della comunità. Nel 1932 i fascisti presentarono la loro ideologia ne La dottrina del fascismo: le caratteristiche erano il nazionalismo estremo, una posizione di potere per l'Italia nel mondo da raggiungere attraverso la guerra e nuove conquiste, l'enfasi sulla "volontà di potenza" (derivata dagli scritti di Friedrich Nietzsche), il principio autoritario della leadership (Vilfredo Pareto), l'"Azione diretta" come "principio del design creativo" (Georges Sorel) e la fusione in una sola entità dello stato e dell'unico partito al governo. Nell'ideale del fascismo, l'unificazione di lavoratori e imprenditori per il solo bene comune nazionale avrebbe dovuto impedire la lotta di classe. Per conquistare non solo il potere ma anche l'egemonia (nel senso presentato da Antonio Gramsci) lo Stato diede grande impulso anche allo sport. Questo aveva lo scopo di promuovere il culto del corpo, l'esaltazione della forza, la virilità e la dimostrazione della superiorità italiana nelle attività legate al corpo come lo sport, anche in competizioni internazionali come le Olimpiadi. Le donne vennero incoraggiate alla maternità e vennero allontanate dalla gestione della cosa pubblica.

Il "Nuovo Ordine" fascista in Italia differiva notevolmente dal regime nazista tedesco in termini di statalismo, in quanto lo stato forte di Mussolini incorporava anche le vecchie élite italiane, per quanto i diversi tentativi fatti per integrare le vecchie élite e i nuovi ufficiali del partito fallirono. La leadership militare rimase fortemente monarchica e tradizionalista. Il fascismo non riuscì inoltre ad imporre quell'ideale di cultura fascista che cancellasse ciò che era stato in passato come nel caso della Germania nazista o dell'Unione Sovietica, in quanto la cultura italiana era strettamente ancorata al suo passato, storico o letterario che fosse.

La propaganda di Mussolini lo stilizzò come il "salvatore della nazione". Il regime fascista ha cercato di rendere la sua persona onnipresente nella società italiana. Gran parte del fascino del fascismo in Italia era basato sul culto della personalità attorno a Mussolini e sulla sua popolarità. L'appassionata eloquenza di Mussolini alle principali manifestazioni e parate servì da modello per Adolf Hitler. I fascisti diffondevano la loro propaganda attraverso i cinegiornali, la radio ed alcuni lungometraggi. Nel 1926 fu approvata una legge che rendeva obbligatoria la proiezione di spettacoli di propaganda prima di ogni proiezione di film nelle sale cinematografiche. La propaganda fascista glorificò la guerra e promosse la sua romanticizzazione nell'arte. Tuttavia, gli artisti, gli scrittori e gli editori non erano soggetti a controlli rigorosi. Venivano censurati solo se si erano apertamente opposti allo Stato.

Nel 1861 la conoscenza della lingua nazionale tra la popolazione italiana era estremamente bassa. Il dialetto toscano, su cui si basa la lingua italiana, era parlato prevalentemente nell'area attorno a Firenze e nell'intera Toscana. Inoltre, nel resto delle regioni centrali si praticavano parlate assai simili alla lingua italiana, mentre le lingue o i dialetti regionali dominavano il resto del paese. Soltanto il dieci per cento della popolazione utilizzava l'italiano come lingua scritta.[32] Anche il re Vittorio Emmanuele II parlava quasi esclusivamente il piemontese ed il francese. L'analfabetismo era a livelli piuttosto alti: nel 1871 il 61,9% degli uomini ed il 75,7% delle donne italiani erano analfabeti. Questo tasso di analfabetismo era di gran lunga superiore a quello dei paesi dell'Europa occidentale dell'epoca. A causa della diversità dei dialetti regionali, inizialmente non fu nemmeno possibile organizzare una stampa popolare su scala nazionale.

L'Italia dopo l'unificazione disponeva di un numero ridotto di scuole pubbliche. I governi che si susseguirono per tutta l'epoca liberale cercarono di migliorare l'alfabetizzazione creando scuole finanziate dallo stato in cui veniva insegnata solo la lingua italiana ufficiale.

Il governo fascista sostenne una rigida politica educativa in Italia con l'obiettivo di eliminare definitivamente l'analfabetismo e rafforzare la lealtà della popolazione allo Stato. Il primo ministro dell'Istruzione del governo fascista dal 1922 al 1924, Giovanni Gentile, diresse la politica educativa verso l'indottrinamento degli studenti al fascismo. I fascisti educavano i giovani all'obbedienza e al rispetto verso l'autorità. Nel 1929 il governo fascista prese il controllo della gestione di tutti i libri di testo e costrinse tutti gli insegnanti in servizio a prestare giuramento di fedeltà per contribuire alla causa del fascismo. Nel 1933 tutti i professori universitari furono obbligati ad aderire al Partito Nazionale Fascista. Negli anni '30 e '40, il sistema educativo italiano si concentrò sempre più sul tema della Storia, cercando di ritrarre l'Italia come una forza importante nello sviluppo della civiltà umana. Nell'Italia fascista, il talento intellettuale venne premiato e promosso nell'Accademia d'Italia, fondata nel 1926.

Il tenore di vita degli italiani fu in continuo miglioramento dopo l'unificazione, ma rimase (soprattutto al sud) al di sotto della media dell'Europa occidentale dell'epoca. Varie malattie come la malaria e alcune epidemie scoppiarono nell'Italia meridionale. Il tasso di mortalità era del 30 per mille nel 1871, ma venne ridotto già al 24,2 per mille nel 1890. Il tasso di mortalità infantile rimase molto alto. Nel 1871, il 22,7% di tutti i bambini nati in quell'anno morì, mentre il numero di bambini che morirono prima del loro quinto compleanno fu del 50%. La percentuale di bambini morti nel primo anno dopo la nascita scese tra il 1891 e il 1900 a una media del 17,6%. In Italia durante l'era liberale mancò completamente una politica sociale efficace. La prima assicurazione sociale statale venne introdotta per la prima volta nel 1912. Nel 1919 fu istituita la cassa contro la disoccupazione.[33] La politica sociale assunse un alto profilo durante il periodo dell'Italia fascista. Nell'aprile del 1925, venne fondata l'Opera Nazionale Dopolavoro, la più grande organizzazione ricreativa voluta dallo stato e riservata ad un pubblico di adulti. L'organizzazione era così popolare che negli anni '30 possedeva una propria sede in ogni città italiana. L'OND si rese responsabile della costruzione di 11 000 campi sportivi, 6 400 biblioteche, 800 cinema, 1 200 teatri e più di 2 000 orchestre. L'appartenenza era volontaria e apolitica. L'enorme successo dell'organizzazione portò alla fondazione dell'organizzazione Kraft durch Freude in Germania nel novembre del 1933, la quale adottò proprio il modello italiano per modellarsi.

Un'altra organizzazione che ebbe un certo rilievo all'epoca fu l'Opera Nazionale Balilla (ONB), fondata nel 1926, che consentiva ai giovani di avere la disponibilità di spettacoli, eventi sportivi, radio, concerti, teatri ed organizzava attività rivolte al pubblico degli adolescenti sotto l'egida degli ideali del partito.

Il 20 settembre 1870 il Regio Esercito Italiano occupò lo Stato Pontificio e la città di Roma. L'anno successivo la capitale fu trasferita da Firenze a Roma. Per i successivi 59 anni dopo il 1870 la Chiesa cattolica si rifiutò di riconoscere la legittimità del governo del regno d'Italia a Roma e con la bolla Non expedit, il papa proibì ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni del nuovo stato nel 1874. Questo dettame venne ad ogni modo sempre meno seguito dai cattolici laici del paese, motivo per cui venne allentato nel 1909 e definitivamente abolito nel 1919 quando lo stato e la chiesa si riavvicinarono dopo la tragedia della prima guerra mondiale. In quell'epoca nacque così il Partito Popolare Italiano come espressione politica dei cattolici italiani, il quale divenne da subito una delle forze politiche più importanti del paese.

I governi liberali avevano generalmente perseguito una politica di limitazione del ruolo della chiesa cattolica all'interno dello stato col sequestro di diverse proprietà appartenute al clero, il divieto di alcune processioni e le festività cattoliche che vennero parzialmente proibite oppure richiesero l'approvazione dello Stato, che spesso veniva rifiutata. I principali politici del regno erano del resto laici e anticlericali, molti erano positivisti o membri della massoneria. Altre comunità religiose come protestanti o ebrei erano legalmente equiparate ai cattolici; come in altri paesi europei, emersero contemporaneamente nuovi movimenti religiosi e non come il socialismo e l'anarchismo. Tuttavia, il cattolicesimo rimase la religione della stragrande maggioranza degli italiani. I rapporti con la chiesa cattolica migliorarono notevolmente durante il regime di Mussolini. Mussolini, un tempo oppositore della chiesa cattolica, strinse un'alleanza con il Partito Popolare Italiano cattolico dopo il 1922. Nel 1929, Mussolini e papa Pio XI si accordarono per stendere insieme un accordo per porre fine allo stallo di questa situazione. Questo processo di riconciliazione era già iniziato sotto il governo di Vittorio Emanuele Orlando durante la prima guerra mondiale.

Mussolini e i principali esponenti del fascismo in Italia non erano cristiani devoti, ma seppero riconoscere l'opportunità di costruire migliori rapporti con la chiesa come un elemento influente e propagandistico nella lotta contro il liberalismo ed il comunismo. I Patti Lateranensi del 1929 riconobbero il papa come sovrano del piccolo stato della Città del Vaticano all'interno di Roma e resero l'area un centro di importante diplomazia internazionale. Un referendum nazionale nel marzo 1929, confermò i Patti Lateranensi. Quasi 9 milioni di italiani, ovvero il 90% degli aventi diritto a votare, si espressero a favore contro soli 136 000 voti contrari.

Il concordato del 1929, inoltre, dichiarò il cattolicesimo religione di Stato, obbligando lo stato italiano a pagare gli stipendi dei preti e dei vescovi, a riconoscere i matrimoni ecclesiastici ed a reintrodurre l'istruzione religiosa nelle scuole pubbliche. I vescovi, da parte loro, vennero chiamati a giurare fedeltà allo stato italiano, al quale fu concesso un diritto di veto sulla loro selezione. Un terzo accordo portò al pagamento di 1,75 miliardi di lire come risarcimento per le privazioni ed i soprusi commessi dal regno d'Italia contro le proprietà ecclesiastiche a partire dal 1860. La chiesa non era ufficialmente obbligata a sostenere il regime fascista, ma dal canto suo sostenne tacitamente la politica estera dell'Italia, come pure diede il proprio sostegno ai golpisti di Francisco Franco nella guerra civile spagnola ed alla conquista dell'Etiopia. Persistevano ad ogni modo dei conflitti interni, in particolare tra Mussolini ed il gruppo dell'Azione Cattolica che il duce avrebbe voluto vedere integrata perfettamente coi balilla. Le prime frizioni significative si ebbero nel 1931 quando papa Pio XI con la sua enciclica Non Abbiamo Bisogno criticò la decennale persecuzione della chiesa da parte dello stato italiano ed il "culto pagano dello Stato" diffusosi tra i fascisti contro i propositi che erano stati ribaditi nei Patti Lateranensi.

Economia modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Storia economica d'Italia § Regno d'Italia.
 
Moneta d'oro da 100 lire di Vittorio Emanuele III (1931)
 
Indice normalizzato di industrializzazione delle province italiane nel 1871 (la media nazionale è 1,0). Fonte: Banca d'Italia, elaborazione: Wikipedia

     Oltre 1,4

     Da 1,1 a 1,4

     Da 0,9 a 1,1

     Fino a 0,9

Durante tutto periodo del regno d'Italia compreso tra il 1861 ed il 1940 l'Italia conobbe un notevole periodo di boom economico, nonostante le diverse crisi economiche che colpirono il paese, comprese le due guerre mondiali. A differenza della maggior parte delle nazioni moderne, dove questo boom industriale era dovuto essenzialmente all'impegno di grandi società, la crescita industriale in Italia fu dovuta essenzialmente all'impegno delle piccole e medie imprese, spesso a conduzione familiare.

L'unificazione politica non portò automaticamente all'integrazione economica anche perché l'Italia dovette affrontare gravi problemi economici nel 1861, in particolare a causa dei diversi sistemi economici e delle diverse evoluzioni economiche che avevano avuto gli Stati predecessori dell'unità nazionale. Questi fattori insieme portarono a forti contrasti a livello politico e sociale, su scala regionale. Durante il periodo liberale, l'Italia riuscì a industrializzarsi fortemente come avrebbe voluto e si qualificò come la più arretrata tra le grandi potenze dopo l'Impero russo e quello del Giappone, continuando a rimanere molto dipendente dal commercio con l'estero.

Dopo l'unificazione, l'Italia aveva una società prevalentemente agricola con il 60% della forza lavoro impiegata in questo settore. I progressi tecnologici aumentarono le opportunità di esportazione per i prodotti agricoli italiani dopo un periodo di crisi negli anni Ottanta dell'Ottocento. A seguito dell'industrializzazione, la quota degli occupati nel settore agricolo scese al di sotto del 50% all'inizio del secolo XX. Tuttavia, non tutti poterono beneficiare di questi sviluppi sia per la presenza di un clima troppo arido al sud che per la presenza della malaria al nord che in molti casi impedì la corretta coltivazione di aree giudicate paludose.

La massima attenzione posta nella politica estera e militare nei primi anni dello stato portò alla progressiva diminuzione dell'agricoltura italiana, in declino dal 1873. Sia le forze radicali che quelle conservatrici nel parlamento italiano chiesero al governo di esaminare quale fosse il modo migliore per implementare la situazione agricola in Italia. L'inchiesta, iniziata nel 1877, durò otto anni e dimostrò che l'agricoltura non stava migliorando a causa della mancanza di meccanizzazione e ammodernamento e che i proprietari terrieri non facevano nulla per sviluppare le loro terre. Inoltre, la maggior parte dei lavoratori dei terreni agricoli non erano contadini, ma lavoratori a breve termine che mancavano della necessaria esperienza (braccianti), impiegati al massimo per una stagione. La fame fu uno dei motivi che portarono allo scoppio di una grave epidemia di colera che nella seconda metà dell'Ottocento uccise almeno 55 000 persone. La maggior parte dei governi italiani che si susseguirono nel regno d'Italia non furono in grado di affrontare efficacemente la situazione precaria a causa della forte posizione detenuta ancora dai grandi proprietari terrieri nel mondo della politica e degli affari. Nel 1910 una nuova commissione d'inchiesta nel sud riuscì a confermare questo fatto.

Intorno al 1890 ci fu anche una crisi nell'industria vinicola italiana, l'unico settore agricolo di notevole successo che si era mantenuto negli anni. L'Italia soffrì infatti all'epoca di una sovrapproduzione di uve da mosto ed a causa di alcune malattie che compromisero i vitigni migliori. A peggiorare la situazione, tra gli anni '70 ed '80 dell'Ottocento, in Francia, vi furono una serie di raccolti scarsi a causa di alcuni insetti che compromisero la vita delle piante. Di conseguenza, l'Italia divenne il più grande esportatore di vino in Europa. Dopo la ripresa della Francia nel 1888, ad ogni modo, le esportazioni di vino italiano crollarono e si presentò uno stato di disoccupazione ancora maggiore rispetto al periodo precedente la crisi che portò al fallimento di numerosi viticoltori italiani.

Dagli anni '70 dell'Ottocento in poi, l'Italia investì molto nello sviluppo delle ferrovie e dal 1870 al 1890 la rete di collegamenti esistente era già più che raddoppiata.

Durante la dittatura fascista, enormi somme di denaro furono investite in nuove conquiste tecnologiche, in particolare nella tecnologia militare. Ingenti somme di denaro vennero ad ogni modo investite anche in prestigiosi progetti come ad esempio la costruzione del nuovo transatlantico SS Rex che stabilì un record di viaggio transatlantico di quattro giorni nel 1933; sulla stessa scia propagandistica si pose lo sviluppo dell'idrovolante Macchi-Castoldi MC72, che fu l'idrovolante più veloce del mondo nell'anno 1933. Sempre nel 1933, Italo Balbo attraversò l'oceano Atlantico in idrovolante per portarsi alla fiera mondiale di Chicago. Questi elementi insieme volevano essere un chiaro simbolo del potere della leadership fascista e del progresso industriale e tecnologico dello stato, raggiunto sotto il regime.

Note modifica

  1. ^ L'italiano è la lingua ufficiale delle Camere prevista dall' art. 62 dello Statuto albertino., che però consente l'uso facoltativo del francese ai membri originari di paesi che lo adottano, o in risposta ad essi.
  2. ^ Il 2 e il 3 giugno 1946 si tenne il referendum sulla nuova forma istituzionale dello Stato italiano; il 10 giugno la Corte di cassazione diede lettura dei dati non definitivi, riservandosi di comunicare quelli ufficiali e di decidere sui ricorsi, in particolare sul ricorso Selvaggi, in altra data; poco dopo la mezzanotte del 13 giugno i membri del governo, ad eccezione del ministro Cattani che denunziò ciò che a suo avviso rappresentava un illecito, dichiararono decadute le attribuzioni di capo dello Stato italiano del re, conferendole al presidente del Consiglio De Gasperi. Umberto II, convinto che le divisioni fra monarchici e repubblicani potessero sfociare in disordini anche gravi o addirittura in una guerra civile, lasciò l'Italia.
    Cfr. Gigi Speroni, Umberto II, il dramma segreto dell'ultimo Re, Bompiani, p. 315 cit.: «La mia partenza dall'Italia doveva essere una lontananza di qualche tempo in attesa che le passioni si placassero. Poi pensavo di poter tornare per dare anch'io, umilmente e senza avallare turbamenti dell'ordine pubblico, il mio apporto all'opera di pacificazione e di ricostruzione». (Umberto II, lettera a Falcone Lucifero scritta dal Portogallo il 17 giugno 1946).
    Dinanzi al fatto compiuto, il 18 giugno la Corte di cassazione diede lettura dei risultati ufficiali del referendum in favore della repubblica e respinse i ricorsi. Il 1º gennaio 1948 entrò in vigore la Costituzione repubblicana.
    Cfr. Guido Jetti, Il referendum istituzionale (tra il diritto e la politica), Guida, 2009
  3. ^ Tra il 1859 e il 1861, il Regno di Sardegna annetté la Lombardia (che era parte del reame austriaco del Lombardo-Veneto), il Granducato di Toscana, il Ducato di Parma, il Ducato di Modena, i territori sotto l'autorità del papa di Romagna, Marche e Umbria e l'ex Regno delle Due Sicilie conquistato da Garibaldi.
  4. ^ De facto lo Stato, tra il 1943 e il 1945, fu diviso tra il Regno d'Italia (informalmente conosciuto come Regno del Sud) e la Repubblica Sociale Italiana, Stato fantoccio della Germania nazista. Per brevi periodi, alcune zone della RSI furono sotto il controllo di partigiani aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale (vedi Repubbliche partigiane).
  5. ^ Alberto Mario Banti, Storia contemporanea, Donzelli Editore, 1997, p. 139.
  6. ^ Aldo Sandulli e Giulio Vesperini, L'organizzazione dello Stato unitario (PDF) (PDF), su Università degli Studi della Tuscia. URL consultato il 16 novembre 2014 (archiviato dall'url originale il 2 novembre 2018).
  7. ^ Artt. 3, 5, 68 dello Statuto Albertino.
  8. ^ "Fucilato il 27 agosto 1870 in seguito a un fallito moto mazziniano, nei fogli commemorativi il caporale Pietro Barsanti è presentato come colui che ha «versato il primo sangue per la Repubblica Italiana» (Cesena, 27 agosto 1886, snt.)". Citato in Maurizio Ridolfi, Almanacco della Repubblica, Pearson Italia, 2003, p.172
  9. ^ Italia, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 27 agosto 2021.
  10. ^ Guerra di Crimea, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 14 dicembre 2021.
  11. ^ Convegno segreto di Plombières, in Dizionario di storia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2011.
  12. ^ Raffaele de Cesare, La fine di un regno, Milano, 1969, pp. 560-561.
  13. ^ La Camera fa nascere l'Italia da cinquantamila giorni - corriere della sera.
  14. ^ Copia archiviata, su augusto.agid.gov.it. URL consultato il 27 settembre 2016 (archiviato dall'url originale il 31 ottobre 2016).
  15. ^ Giampaolo Conte, Il credito di una nazione: politica, diplomazia e società di fronte al problema del debito pubblico italiano 1861-1876, in Storia ed economia, Edizioni di storia e letteratura, 2021, ISBN 978-88-9359-552-0.
  16. ^ Favre, p. 14.
  17. ^ a b c Favre, p. 15.
  18. ^ Benedetto Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Giuseppe Laterza e figli, Bari, 1962, p. 114.
  19. ^ a b Favre, p. 16.
  20. ^ Giordano Merlicco, La crisi di luglio e la neutralità italiana: l'impossibile conciliazione tra alleanza con l'Austria e interessi balcanici, in Itinerari di ricerca storica, XXXII, n. 2/2018, pp. 13-26.
  21. ^ Senato della Repubblica, Proclama di Umberto II agli Italiani (PDF)., ("L'esortazione del Re ad evitare l'acuirsi di dissensi che minaccerebbero l'unità del Paese", Roma, 13 giugno 1946 - rassegna storica)
  22. ^ Secondo quanto previsto dall'art. 1 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 (Allegato A).
  23. ^ Anci, L'Italia dei comuni, 150 anni di Unità, 2011, p. 11.
  24. ^ Regio decreto 2 gennaio 1927, n. 1
  25. ^ Regio editto sulla legge elettorale 17 marzo 1848 numero 680 (archiviato dall'url originale il 25 maggio 2012)., (sul sito dell'Università di Torino, Dipartimento di Scienze Giuridiche).
  26. ^ Confederazione provvisoria tra i governi filo-sabaudi degli ex-Granducato di Toscana, ducati emiliani e Romagna pontificia, appositamente creata per favorirne l'unione al Regno di Sardegna.
  27. ^ Atlante linguistico italiano, su atlantelinguistico.it. URL consultato il 30 dicembre 2020 (archiviato dall'url originale il 26 febbraio 2018).
  28. ^ Studio dell'Università di Padova. Archiviato il 6 maggio 2008 in Internet Archive.
  29. ^ Carta del Pellegrini. Archiviato il 12 ottobre 2009 in Internet Archive.
  30. ^ AIS, Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, Zofingen 1928-1940 ( NavigAIS-web. Versione online navigabile)
  31. ^ Gernert et al., p. 345.
  32. ^ Italiano e dialetto dal 1861 a oggi | Treccani, il portale del sapere, su treccani.it. URL consultato il 25 gennaio 2022.
  33. ^ Georg Wannagat: Lehrbuch des Sozialversicherungsrechts. Bd. 1, Mohr, Tübingen 1965, S. 83.

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