Castello Cantelmo (Alvito): differenze tra le versioni

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==== Il primo feudo alvitano ====
{{Vedi anche|Terra di San Benedetto|Principato di Capua}}
Nel corso dell'[[XI secolo]] ''Sant'Urbano'' cadde definitivamente in rovina. Già dal 1096 tutto il territorio che spettava alla città si indicava ormai come pertinenza di ''Monte Albeto''<ref>AAMC in Antonelli a p. 113</ref>, un nuovo nome che si era imposto dopo l'invasione normanna<ref>''Chronicon Volturnense'', I, p. 231.</ref>. Ciò lascia supporre che, decaduta la città, la vita civile si svolgesse in nuovi centri sorti sulle pendici del ''Monte Morrone'' oppure che non vi fosse più nessuna fortificazione<ref>Antonelli D., ''Alvito dalle origini'', cit., p. 116.</ref>. La perdita dell'unità amministrativa cassinate rischiava di sciogliere l'organizzazione territoriale del fondo, in particolare il sistema economico che aveva per vertice i possedimenti di [[Montecassino]] e così l'abbazia provvide ad infeudare l'area ai [[d'Aquino (famiglia)|d'Aquino]]. La famiglia campana, che si era insediata nella media valle del Liri, ottenne dall'abate [[Papa Vittore III|Desiderio]] di Montecassino, nell'ambito di una ripianificazione territoriale della Terra Sancti Benedicti, alcuni terreni a [[Settefrati]] (''Pietrafitta'') e a [[Posta Fibreno]] (''La Posta''), in cambio di [[Piedimonte San Germano]]<ref>Castrucci F.S., ''Cenni storici su Alvito e il suo castello'', Tipografia di Casamari, Veroli 1994, pp. 24-25.</ref> e per rafforzare il controllo benedettino, ebbe anche in dotazione in un nucleo di abitazioni sul ''Colle del Albeto'', fino ad allora appartenuto alla ''[[Civita di Sant'Urbano]]'', che gli Aquinati avrebbero dovuto possedere per una sola generazione. Costoro erano già stati tra i più convinti oppositori dei monaci benedettini, perché mal avevano tollerato l'attività politica della sede abbaziale a [[Cassino]], finché non furono costretti a sottomettersi ai cassinati, quando alcuni abati riuscirono ad assoggettare militarmente la quasi totalità della [[contea di Aquino]], già alla fine del [[X secolo]]<ref>Esilio di Teano. Abbate Mansone. Dell'Omo M., ''Montecassino. Un'abbazia nella storia'', Arti Grafiche Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo 1999, p. 33-34</ref>. [[File:Victor III. - Desiderius of Montecassino.jpg|thumb|[[Desiderio di Montecassino|Desiderio]] nell'atto di donare a [[San Benedetto]] i beni temporali e i libri di [[Montecassino]] (particolare da una miniatura cassinense)<ref>Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vat. lat. 1202 (anno 1075), ''Lezionario'', f. 2r.</ref>]] E asserviti alla causa benedettina, la nuova infeudazione alvitana costituì uno degli interventi periferici nella politica di riorganizzazione della [[Terra di San Benedetto]] e delle proprietà di confine. Tale Adenolfo d'Aquino beneficiò dei nuovi possedimenti. Egli ottenne un nucleo urbano composto da più di 120 famiglie di coloni e coi terreni che lavoravano, che avrebbe però dovuto cedere con la sua morte, senza possibilità di farne un'eredità, il primo nucleo del castello di [[Alvito (Italia)|Alvito]]<ref>Castrucci S. F., ''ibidem''.</ref>. ''Sant'Urbano'' però, già in decadenza, perdeva anche l'unità amministrativa patrimoniale e l'incastellamento che aveva incoraggiato Desiderio fu disturbato da un nuovo fondo che ne assorbì la vitalità economica e urbana.
 
==== L'incastellamento di ''Albeto'' ====
{{Vedi anche|Normanni}}
Il dominio dei d'Aquino in Valcomino fu instabile e soggetto ai primi disordini cui incorse il [[Lazio meridionale]], nel periodo che vide più volte combattersi e poi riappacificarsi i [[Normanni]] e lo [[Stato Pontificio]]. Dopo la costituzione del [[Regno di Sicilia]], i confini della Campania furono nuovamente oggetto di numerose contese fra i papi e i nobili locali, specialmente i sovrani del [[Principato di Capua]] e in quest'epoca Alvito risultò particolarmente esposta alle scorrerie normanne alla fine dell'[[XI secolo]]. Il conte di [[Carìnola]], Gionata, si portò fino ai confini romani, in una piccola guerra condotta contro la [[contea di Sora]]. Una contesa tra Rainulfo d'Aquino, castaldo di Sora, che da anni perseguiva una politica di sostegno economico all'[[Abbazia di Montecassino]], con lasciti e donazioni di importanti proprietà, fra cui i ricchi mulini di ''Colle de Insula'' (probabilmente oggi [[Isola del Liri]]), e diversi monasteri in [[Arpino]], e la popolazione locale<ref>Antonelli D., ''Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella diocesi di Sora nel medioevo (sec. VIII-XV)'', Pasquarelli ed., Sora 1986, p. 156-157.</ref>, era stato il pretesto del calense per occupare militarmente la città, conducendo un assedio che interessò anche gli alvitani. I sorani, che mal avevano tollerato le acquisizioni cassinesi di Isola, si erano ribellati ai [[d'Aquino (famiglia)|d'Aquino]] e avevano chiamato in soccorso il conte normanno. Rainulfo, gastaldo di Sora, e l'alvitano Atenolfo furono vinti da questi, e resi quindi prigionieri<ref>Branca C., ''Memorie istoriche della città di Sora'', Tipografia de' Gemelli, Napoli 1847, p. 123.</ref>. I fatti di quegli anni, attorno al 1094, sono molto conosciuti nella storiografia locale e, oltre ad essere presi come il ''terminus a quo'' del declino dell'egemonia aquinate della [[valle del Liri]], sono testimoniati in documenti storici importanti per comprendere la situazione feudale della Valcomino. Quando Adenolfo fu catturato, gli fu imposto un cospicuo riscatto in denaro che pagò l'[[Oderisio di Montecassino|abate Oderisio]], alleato dei d'Aquino. Il prezzo pattuito era di 200 [[Libbra|libbre]] d'oro, garantite dai cassinati, di cui egli ne avrebbe dovuto restituire 100 all'abate entro un anno, altrimenti avrebbe reso in pegno le proprietà alvitane così come le aveva ricevute da [[Desiderio di Montecassino|Desiderio]]. Una clausola contrattuale prevedeva però che non sarebbero stati né negoziabili né tantomeno alienabili i beni di Atenolfo sul ''Monte de Albeto'' perché oggetto, in quegli anni, di migliorie.<ref>Castrucci F. S., ''op. cit.'', pp. 26-27.</ref> Questa condizione ha fatto pensare ad alcuni autori che era ivi iniziata la costruzione di un castello<ref name="Ibidem"/>, mai portata a termine<ref>Antonelli D., ''Alvito dalle origini al sec. XIV. Nella ricorrenza del IX Centenario della fondazione della Città (1096-1996)'', Printhouse, Castelliri 1999, p. 116.</ref>. Alcuni anni più tardi Adenolfo, proprietario della sola ''Albeto'', morì, e chi gli succedette è ignoto. Perché si trovi successivamente menzione della proprietà alvitana, si dovrà attendere il 1157<ref>Ammirato S., ''Delle famiglie nobili napoletane'', I, Firenze 1580, p. 154; Della Marra F., ''Delle famiglie estinte, forestiere, o non comprese ne' seggi di Napoli, imparentate con la Casa [[della Marra]]'', Napoli 1641, p. 47. Scandone F., ''Regesto di documenti'', in appendice a ''Roccasecca, patria di San Tommaso d'Aquino'', in «Archivio Storico di Terra di Lavoro»'', I (1956), p. 133 doc. 50 (1157).</ref>, quando dei documenti menzionano un d'Aquino, ''Landolfo de Albeto'', signore della terra alvitana, precisamente «''dominus castri Albeti''», il quale era sicuramente un parente di Atenolfo. Certamente alla fine del [[XII secolo]] il centro fortificato era stato ultimato, come dimostra il toponimo ''castrum'' con cui è denominato, non necessariamente un castello, più probabilmente un borgo protetto da torri, mura e un palazzo signorile o fortezza<ref>Antonelli D., ''op. cit.'', p. 162.</ref>.
[[File:Castello di Alvito.jpg|upright=3.2|center|thumb|Il borgo fortificato di Alvito Castello e il maniero dei [[Cantelmo (famiglia)|Cantelmo]]]]
 
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==== Alvito e gli Angioini ====
Una sorta di processo di riunificazione patrimoniale nel [[Mezzogiorno (Italia)|Mezzogiorno]] continuò con la dinastia sveva. [[Federico II di Svevia|Federico II]] ereditò il [[Regno di Sicilia]] e portò avanti la politica centralista normanna. Il partito che lo sosteneva e che si interessò anche di riformare il sistema politico e giuridico italiano, si dovette scontrare con i diritti e i privilegi delle città della Penisola. Dal [[1230]] il paese fu sconvolto da una feroce guerra, che ebbe termine solo con la [[Battaglia di Benevento (1266)|battaglia di Benevento]] e la sconfitta dei [[ghibellini]], compresi i [[D'Aquino (famiglia)|d'Aquino]], sostenitori di [[Manfredi di Sicilia|Manfredi]]. Di conseguenza anche i feudatari d'Alvito, [[Tommaso II d'Aquino]], Giacomo e Adenolfo II, vennero espropriati dei loro beni, e a nobili francesi, che combatterono a fianco di [[Carlo I d'Angiò|Carlo d'Angiò]] contro gli svevi, fu assegnato il territorio cominese<ref>Franco de Wassemal prima, poi Esustasio de Faylle e quindi Pietro de Cronay e Goffredo de Jamville ebbero [[San Donato Val di Comino|San Donato]] e [[Settefrati]]; altri territori ebbe Guglielmo Maccaris, Atina andò a Ottone de Tremblay, mentre Casalvieri toccò a Ugone de Lica, nel 1269. Da ''Registri Angoini'', 1969, XXVII, p. 163, n. 222 e p. 288 n. 211.</ref><ref>Tauleri B., ''Memorie istoriche della città di Atina'', pp. 112-113, in Mancini A., «''La storia di Atina. Raccolta di scritti vari''», Forni ed., Sala Bolognese 1994.</ref>. L'intera [[Valle di Comino|Valle]] risultò variamente frammentata e agli Aquinati, che pur conservavano un certo prestigio politico in [[Terra di Lavoro]], restò la sola Gallinaro<ref>Mazzoleni J. (a cura di), ''I registri della cancelleria Angioina'', Napoli 1949-1971, XXII, p. 40.</ref>. Dal 1270 pare che abbiano perso anche il castello di Alvito<ref>Castrucci F.S., ''op. cit.'', pp. 27-28.</ref>. Solo con la venuta di un nuovo re ebbero fine le loro sventure e il feudo per breve tempo si giovò di un'amministrazione prospera. Adenolfo II D'Aquino ([[1293]]), [[conte di Acerra]], qualche anno dopo le dure perdite subite dai suoi predecessori, riconquistò il favore del nuovo re, [[Carlo II d'Angiò|Carlo II]], che era succeduto a [[Carlo I d'Angiò]]. Costui riebbe [[Campoli Appennino|Campoli]], [[San Donato Val di Comino|San Donato]], [[Settefrati]] e il ''fortilicie castri Albeti'', nuova denominazione con cui si indicò [[Alvito (Italia)|Alvito]], che lascia supporre che nel frattempo vi era sorto un castello vero e proprio<ref>Antonelli D., ''op. cit.'', p. 195-196.</ref><ref>[[Domenico Santoro|Santoro D.]], ''Pagine sparse di storia Alvitana'', vol. I, Tip. Jecco, Chieti 1908, pp. 9-10.</ref>. ''Fortilicium'' è, infatti, il termine con cui nel medioevo si indicavano specificatamente i castelli.<ref>Antonelli D., ''op. cit.'', pp. 195-196.</ref> Il maniero in quegli anni è descritto come un edificio in buone condizioni, ampiamente munito di armi e adeguatamente approvvigionato dei prodotti del circondario ([[vino]], [[grano]], [[Panicum miliaceum|miglio]], [[spelta]])<ref>Santoro D., ''op. cit.'', pp. 9-10.</ref> anche perché nelle lotte tra guelfi e ghibellini, trattandosi di una fortezza di confine fra lo Stato Romano e il Napoletano, aveva acquisito sempre maggior importanza territoriale e politica<ref>Antonelli D., ''op. cit.'', pp. 195-196.</ref>. [[File:Vicalvi.JPG|upright=1.6|left|thumb|L'abitato e il [[castello di Vicalvi]]]]
 
==== La fine del dominio dei d'Aquino ====
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==== I Cantelmo ====
{{Vedi anche|Cantelmo}}
Dall'arrivo degli angioini nel [[regno di Napoli]] non esistevano più le grosse signorie baronali, alcune delle quali retaggio dell'antica [[Regno longobardo|dominazione longobarda]]. Ogni città aveva il suo signore, generalmente di origine francese, e ricostruire le unità territoriali delle regioni storiche meridionali fu impresa ardua, spesso impossibile. Nell'area a cavallo fra l'[[Abruzzo]] montano e l'alta [[Terra di Lavoro]] si insediò la famiglia francese dei [[Cantelmo (famiglia)|Cantelmo]], che qui ebbero in concessione diverse città dai sovrani di [[Napoli]], ricoprendo poi anche cariche amministrative e burocratiche nei [[giustizierato|giustizierati]] abruzzesi e campani.<ref>Santoro D., ''op. cit.'', vol. I, p. 49.</ref> A svantaggio dei D'Aquino, la famiglia francese accrebbe notevolmente il suo patrimonio, e compare per la prima volta anche nella storia di Alvito, grazie a dei matrimoni combinati dapprima fra Giovanni Cantelmo, figlio di [[Giacomo II Cantelmo|Giacomo II]], con [[Etendard|Angela Étendard]], signora di [[Arpino]], [[Roccasecca]], [[Gallinaro]] e [[San Donato Val di Comino|San Donato]], e quindi fra [[Rostaino II Cantelmo|Rostaino II]] e Margherita di Corban, vedova di [[Adenolfo d'Aquino]] signore di Alvito<ref name="Ibidem"/>. Anche l'unità territoriale cominese era stata perduta; gli [[Stendardo (famiglia)|Étendard]] di Arpino, infatti, avevano ottenuto diversi borghi della [[Valcomino|Valle]]<ref>Vincenti P., ''Historia della famiglia Cantelma'', Napoli 1604, p. 33.</ref>, e i D'Aquino non erano più in grado di tutelarvi i propri interessi economici e territoriali, né il bene comune dei locali abitanti. [[Rostaino Cantelmo]], figlio di [[Rostaino II Cantelmo|Rostaino II]] e nipote diretto dei d'Aquino morti nel terremoto del [[XIV secolo]], per via della zia [[Giovanna Cantelmo|Giovanna]], non poté non approfittare di questa confusione amministrativa e, ereditata la proprietà del castello, si preoccupò della sua ricostruzione. Rostaino edificò anche una cinta muraria nuova per Alvito e il palazzo ducale di [[Atina]], ultima residenza nobiliare dopo i crolli del [[XIV secolo|1300]]<ref>Altri membri della famiglia [[Cantelmo (famiglia)|Cantelmo]] avevano Rostaino per nome; perciò per anni si è fatta molta confusione su chi fosse il proprietario del [[Castello di Alvito]], su chi ne avesse finanziato la ricostruzione, sulla consistenza del patrimonio alvitano della famiglia francese e sulla linea di successione. Il [[Domenico Santoro|Santoro]] riporta una serie di documenti che fanno pensare che il Rostaino, primo feudatario dei Cantelmo di Alvito, sia il figlio di [[Rostaino II Cantelmo|Rostaino II]] e Margherita di Corban, vedova di Adenolfo II signore d'Alvito e che quindi, morto senza eredi, abbia indirettamente lasciato il patrimonio al suo pronipote Rostaino, nipote diretto di [[Giacomo II Cantelmo|Giacomo II]], giustiziere d'Abruzzo. Cfr. Santoro D., ''op. cit.'', vol. I, pp. 56-60.</ref>, assicurandosi il controllo di quello che allora era il centro più importante della zona. I lavori iniziarono nel [[1350]] e furono completati probabilmente da [[Giacomo III Cantelmo|Giacomo III]]<ref>Reggente dei tribunali del regno. Mancini A., ''Famiglia Cantelmo'', in «''La storia di Atina''», cit., p. 691.</ref>, anche se in alcuni documenti sembra che in realtà l'erede del castello fosse il fratello Rostaino. Da alcuni manoscritti infatti, risulta che costui, usurpati ''manu militari'' i feudi dei [[D'Aquino (famiglia)|D'Aquino]] nella [[Valcomino]], fu multato dal re [[Carlo III di Napoli|Carlo III]] e ancora, a seguito di una ribellione, pare, secondo altre fonti, che per le stesse ragioni gli furono alienate delle proprietà a [[Napoli]]<ref>L'identificazione di questo Rostaino è rafforzata proprio da alcune fonti che ricordano i suoi possedimenti a Napoli. Dice il Vincenti: «Rostainuccio hebbe un assai ricco palazzo nella piazza d'Arco di Napoli, là dove si dice capo di Trio, nel qual luogo erano le case di Rostaino Cantelmo, zio di costui». Evidentemente è lui il Rostaino a cui vennero confiscati i beni, lui il ribelle e lui il nemico dei D'Aquino, almeno il più intemperante. Cfr. Santoro D., ''op. cit.'', vol. I, pp. 59-62.</ref>. I nobili francesi avevano comunque sconfinato dall'Abruzzo in Terra di Lavoro e avevano compiuto il primo passo verso la riunificazione dell'antico feudo cassiense tra [[Alto Sangro]] e Valcomino. [[File:Palazzo Ducale Cantelmo di Atina.JPG|left|thumb|Il palazzo ducale di [[Atina]] costruito da Rostaino e Giacomo III.]]
{{citazione|Allorché un terremoto mise in pericolo varie parti del Regno, queste annose mura ruinarono e caddero interamente al suolo. Tuttavia Rostaino Cantelmo, chiaro pel nome illustre degli avi, le rifece più belle ed eresse un nuovo Castello e nuove mura. Ma più ancora gli dà rinomanza e gli assicura imperitura fama l'invitta costanza onde mantiene la sua fedeltà. Quando, a difesa del Re d'Ungheria, soldatesche nemiche invadevano il Regno, egli, incurante della sua stessa salute, di danni e di spese personali, serbò a viso aperto la sua onesta promessa. Per tanti meriti il Re e la Regina gli donarono questo Castello che, per la morte di Adenolfo, era rimasto privo del suo Signore. Se chiedi quando ciò accadesse, aggiungi a cinquanta mille e trecento: l'anno in cui il Giubileo aprì le porte del Cielo a tutti i cristiani; se domandi del fondatore, il suo nome è Landolfo.|lingua = la|Antica lapide presso il castello, oggi non più esistente|Dum tremor in terris fuit et generale periclum per varias Regni partes, haec moenia prorsus sunt aequata solo, dederunt annosa ruinam. Ristaysius tamen in melius Vir nobilis ille Guantelmus egregio priscorum Patrum restituit, Castrumque novum nova moenia fecit. Nec minus invictae fidei custodia clarum nunc facit et longe servat praeconia famae. Ungariae Regi, dum Regnum invaderet hostis, publicus iste fuit promissi cultor honesti, nec sibi, nec damnis parcens, nec sumptibus ullis. Huic pro tot meritis Rex et Regina dederunt hoc Castrum, quod tunc Adenulfi morte vacarat. Tempora si quaeris, millenos atque tricenos quinquaginta dabis, coeli dum libera cunctis Ostia christicolis annus iubilaeus habebat. Si petis artificem, Landulfus sit tibi nomen.|lingua = la}}