Comunicazione filosofica (Kierkegaard): differenze tra le versioni

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== L'appropriazione della verità ==
 
La comunicazione indiretta è dunque secondo Kierkegaard l'unica che può arrivare alla [[persona (filosofia)|persona]] e questo lo si può fare "''portando degli Io in mezzo alla vita. Perché il nostro tempo manca completamente di uno che dice: Io. Tali Io [ gli pseudonimi ] sono ora bensì degli Io poetici, ma sono comunque sempre qualcosa''". (Ibidem, op.cit.) La comunicazione vera è dunque quella non del privato al pubblico, ma del singolo al singolo, dell'esistente all'esistente. Gli uomini devono diventare "''attenti alla verità''". La verità è "''l'autoattività dell'appropriazione''" <ref>Søren Kierkegaard, ''Le grandi opere filosofiche e teologiche'', Giunti p.1079</ref> Come Socrate con il suo dialogo "inconcludente", così Kierkegaard non scrive mai "''l'ultimo paragrafo che conclude il sistema''" (Ibidem, op.cit.). Filosofare per lui è fare domande, non dare risposte. Il singolo lettore dovrà porsi davanti il quadro delle varie possibilità d'esistenza rappresentate nelle opere e "''come in uno specchio''" riconoscersi o meno in una sola di queste. Avrà forse la sorpresa di cogliere un aspetto nuovo di se stesso; il suo spirito si risveglierà, "''colpito alle spalle''" da questa nuova verità su se stesso.
"''Tutta la mia feconda attività di scrittore – dice Kierkegaard – si riduce a quest'ultimo pensiero: colpire alle spalle''" (Ibidem, op.cit.), stupire, sorprendere, scuotere chi viveva nell'ovattata illusione di una vita lontana dall'esistenza.