La giovane Paola Serragli, di 16 anni, al momento dell'arresto.

Il delitto dell'Archetto è un omicidio avvenuto a Pisa il 18 maggio 1971 [1], a danno di Luciano Serragli, titolare dell'Osteria l'Archetto. È considerato da molti[2] come un caso rappresentivo della società degli anni di piombo, oltre che fondamentale per la scoperta della verità nell'indagine relativa all'attento di Marina di Pisa che è considerato il primo passo verso lo sviluppo dell'attività delle Brigate Rosse in Italia, che quindi, in qualche modo, in queste vicende trova le sue basi[2]. L'attentato di Marina di Pisa, nel quale perse la vita Giovanni Persoglio Gamalero, giovane studente universitario e figlio del titolare di una delle imprese edili allora più note in Italia, la Gambogi costruzioni, risale a circa tre mesi prima[3].Venne dunque messo in relazione con l'omicidio dell'oste solo molto dopo e con qualche difficoltà.

Nel 1978 la Corte di Cassazione riconobbe definitivamente colpevole Alessandro Corbara per l'attentato di Marina di Pisa e assolto per insufficienza di prove nell'omicidio Serragli; Elsa Maffei e Paola Serragli, rispettivamente moglie e figlia del defunto oste, vennero dichiarate colpevoli del delitto Serragli, mentre Glauco Michelotti e Vincenzo Scarpellini, entrambi camerieri dell'Osteria, furono condannati sia per l'omicidio suddetto sia per l'attentato sul lungomare.

L'attentato di Marina di Pisa modifica

La notte tra sabato 13 febbraio e domenica 14 febbraio del 1971, uno studente universitario pisano di 29 anni laureando in ingegneria, Giovanni Persoglio Gamalero, tornando a casa in compagnia della moglie Graziella Leandri, da una serata in discoteca, all'1:30 circa, sul lungomare di Marina di Pisa a bordo della sua auto Alfa Romeo 1750, si fermò a controllare la provenienza di un filo di fumo che aveva visto uscire dalla macelleria di Aldo Meucci[4]. Una volta sceso dalla vettura venne travolto da una forte esplosione provocata da una bomba: vari frammenti metallici penetrarono tutto il corpo, in particolare l'addome e la coscia destra, dove uno frammento metallico, il più grosso e contundente, gli lacerò di netto l'arteria femorale[5]. I soccorsi furono chiamati dalla moglie, rimasta miracolosamente illesa, ma non poterono far altro il decesso, dovuto alla lacerazione dell'arteria femorale.

Le indagini modifica

La scomparsa di Giovanni Persoglio suscitò un'enorme impressione a livello nazionale. L'esplosione era stata provocata da un ordigno collocato sulla soglia di marmo della macelleria, nello spazio fra la saracinesca e una porta a vetri; la ricostruzione dei fatti faceva ipotizzare che la miccia, fissata alla porta, fosse lunga almeno un metro e mezzo e che fossero stati edoperato 300-400 grammi di tritolo compressi in un contenitore metallico. Dalle prime conclusioni sembrò che gli attentatori non avessero premeditato un omicidio, ma piuttosto volessero intimorire il proprietario della macelleria Aldo Meucci, malvisto da certi elementi di estrema sinistra e dagli anarchici. Ciò sembrava confermato da una recente mancata adesione dell'uomo ad uno sciopero solidale con gli operai della Fiat e, soprattutto, dalla scoperta che Piero Michelozzi, vecchio partigiano che aveva fatto parte delle formazioni di Giustizia e Libertà e suo vicino di casa, aveva un debito monetario con lui. Il primo sospettato fu dunque Michelozzi, ma le indagini successive si concentrarono su Alessandro Corbara, amico del Michelozzi. Per gli inquirenti cominciava a essere evidente che l'episodio era inquadrabile in un vasto progetto eversivo: la matrice era indubbiamente politica, l'attentato avrebbe dovuto essere un esempio. Le indagini si indirizzarono quindi verso l'Osteria l'Archetto, covo degli estremisti di sinistra e degli anarchici, e in particolare al suo titolare Luciano Serragli, noto per la sue fede politica comunista e le sue simpatie anarchiche. Le indagini si arenarono a causa della mancanza di testimoni.

L'omicidio dell'Archetto nei fatti modifica

La mattina del 21 maggio 1971, un anziano contadino trovò sul monte Castellare, il corpo senza vita di Luciano Serragli. Il cadavere era nascosto nei cespugli a poco distante dalla buca delle fate, un crepaccio profondo quasi duecento metri. Il corpo del Serragli era avvolto da un plaid rosso, le tasche erano vuote e le mani, come i polsi, erano nude. Il portafoglio venne trovato poco più in là, con solo la sua patente. La salma era sopra una sedia senza due gambe, in seguito ritrovate abbandonate tra i cespugli[6] ed era stato deturpato, come il volto, dagli animali selvatici del posto[7]. Quello stesso pomeriggio toccò al figlio Walter il riconoscimento del cadavere, anche se non con poche difficoltà, tanto che lo riconobbe dai suoi segni particolari: il naso storto a destra e la mano sinistra priva dell'indice.

Le indagini modifica

L'autopsia escluse subito il malore o altre possibili cause naturali; la morte era sopraggiunta in seguito a un'improvvisa asfissia e poiché non erano presenti vistose ecchimosi attorno al collo, i medici legali pensarono che la causa della morte poteva esser stata da un veleno. I carabinieri interrogarono familiari, parenti e vicini del defunto. La prima sorpresa fu che il Serragli era scomparso da casa già da tre giorni, nella notte tra il 18 e 19, ma nessuno aveva denunciato la scomparsa; i carabinieri sentirono per prima la moglie del defunto. Gli investigatori raccolsero anche tutte le voci che circolavano nel rione sull'osteria l'Archetto e sui personaggi che ci vivevano; si scoprì che in via La Nunziatina tutti sapevano che il cameriere Glauco Michelotti aveva una relazione con la giovane Paola, figlia di Luciano Serragli, e da ancora più tempo con Elsa Maffei, moglie di Luciano Serragli e madre di Paola. Queste voci erano arrivate pure alle orecchie del Serragli già da molto tempo; tuttavia a lui sembravano non interessare le faccende private sulla moglie, mentre era tormentato dai sospetti sulla figlia, tanto da volerla sottoporre ad una visita ginecologica per controllare l'effettiva verginità. Come diceva il Serragli « madre e figlia avrebbero lavato l'onore col sangue, lui averebbe ammazzato tutti, avrebbe affettato mamma e figlia con l'affettatrice e via dicendo».[8] Infatti gli inquirenti scoprirono che verso metà maggio l'oste voleva portare Paola alla visita poiché si era accorto che la figlia aveva degli strani sintomi di continua nausea e vomito. Raccolti questi elementi, gli inquirenti non indagarono al di fuori dell'ambiente dell'osteria.

Le prime dichiarazioni modifica

La Maffei dichiarò agli inquirenti che la sera del 18 Maggio avevano cenato tutti e tre (Elsa Maffei, Luciano Serragli, Paola Serragli) nel ristorante assieme ai due camerieri, lo Scarpellini e il Michelotti, e avevano invitato anche la famiglia di una sorella di Luciano Serragli (Silvia Serragli, Luciano Cecchi, Stefania Cecchi) e altri loro amici, i coniugi Mugnanini. Secondo il racconto della Maffei: i Cecchi sarebbero andati via verso le 23, quando ormai l'Archetto era stato chiuso, loro sarebbero andati tutti e tre a letto, mentre il Mugnanini si era recato fino a mezzanotte al circolo Etruria, in via La Nunziatina, in compagnia dei due camerieri. Disse che all'una di notte, lei e suo marito erano stati svegliati all'improvviso da un ubriaco che urlava sotto la loro finestra in via La Nunziatina e, dopo essersi affacciati e aver constatato che si trattava di Umberto Cini detto il Boghero, erano tornati a letto. Tuttavia il marito aveva incominciato a rimproverarla perché lei aveva speso troppi soldi dal parrucchiere poi, forse a causa del troppo alcool, aveva assunto atteggiamenti violenti verso di lei e la figlia Paola, che nel frattempo si era svegliata per i rumori della violenta lite. In seguito disse che Luciano aveva ordinato loro di consegnargli tutto il denaro nella cassaforte e l'incasso della giornata (348.000 Lire), gridando: «vado via, non vi voglio più vedere!».[9] Aggiunse assieme alla figlia Paola che lo aveva visto allontanarsi in via Mazzini, in compagnia di Samuele Dei, un ladro, ricettatore di professione e l'ultima persona che probabilmente l'aveva visto vivo. Il Mugnanini dichiarò di avere salutato Luciano Serragli mentre saliva in casa ubriaco con il braccio affettuosamente appoggiato sulle spalle della figlia Paola. A questo racconto i due camerieri non rimasero indifferenti: quando madre e figlia la mattina del 19 maggio, riferirono la fuga di Luciano con Samuele Dei ai conoscenti di via La Nunziatina i camerieri annuirono lasciando intuire che bisognava seguire quella pista per scoprire la causa della sua scomparsa.

Le smentite modifica

Ben presto si scoprì che la Maffei e sua figlia avevano mentito, ascoltando altre dichiarazioni:

  • Samuele Dei era stato arrestato nel pomeriggio del 18 Maggio alla stazione per altre vicende.
  • Elsa dichiarò che il plaid scozzese nel quale era avvolto il cadavere di suo padre, era per ammissione sua la quale veniva tenuto nel magazzino dell'Archetto.
  • Un loro fornitore di vino, Giuseppe Vaiani, dichiarò di aver consegnato loro nel pomeriggio del 19, successivamente alla scomparsa, due damigiane che gli erano state pagate e che madre e figlia gli avevano pagato anche una terza che era stata ceduta a credito qualche settimana prima: era dunque impossibile che Luciano se ne fosse andato via con le 348 mila lire, lasciandole senza una lira.
  • I residenti della zona dichiararono, al riguardo del passaggio del Boghero in via La Nunziatina la sera del 18 maggio, che non era passato schiamazzando per la strada all'una di notte come dicevano la Maffei e Nana, ma molto prima.

Testimonianze modifica

  • Quando il Dei fu interrogato disse che pochi giorni prima della scomparsa del Serragli, lo Scarpellini gli aveva chiesto di procurargli un veleno molto potente, destinato al Serragli. Tuttavia lui dichiarò di avergli risposto: «Arrangiati, io non posso fare nulla».[10]
  • Un'altra dichiarazione importante fu quella di un testimone visivo: uno studente di scienze dell'informazione, Stefano Talocchini, dilettante entomologo e cacciatore di farfalle notturne. Quando lesse sui giornali che un contadino aveva trovato un cadavere proprio dove lui aveva visto i due sconosciuti, fra la così detta “villa del polacco” e la buca delle fate, si recò dai carabinieri. Dichiarò che poco dopo l'una da notte tra il 18 e il 19 Maggio, mentre si trovava sul monte Castellare a caccia della acherontia atropos, aveva incontrato ad una decina di passi dalla buca delle fate, due uomini sudati e ansimanti; questi ultimi dopo aver farfugliato qualcosa a mezza bocca erano saliti in fretta e furia su una vecchia Fiat 1100 ripartendo in discesa senza aver fatto manovra.[11] In caserma Talocchini riconobbe Vincenzo Scarpellini e Glauco Michelotti come i due uomini che aveva visto sul monte e il 1 giugno 1971 entrambi vennero arrestati.
  • Lo Scarpellini fu il primo a cedere, confermando che, minacciato dal Michelotti lo aveva aiutato a portare il cadavere fin lassù e a nasconderlo tra i cespugli; aggiunse inoltre che non sapeva come era morto il Serragli, poiché quando era arrivato in bottega, verso le mezzanotte, lo aveva trovato già senza vita.[12] Inoltre dichiarò che nel febbraio 1971 Paola rimasta incinta del Michelotti, aveva abortito nel rione di San Giusto. [13]
  • Un giorno di fine giugno un'anziana signora, Tecla Puccini, cognata del Michelotti, raccontò che Paola e sua madre si erano rivolte a lei sia per il primo aborto di febbraio (già riferito dallo Scarpellini), che per l'ultimo e secondo aborto di maggio, ma quest'ultimo non era andato a buon fine perché la ragazza non sopportava la sonda che le era stata posta nell'utero; inoltre Paola non riusciva più a nascondere certi malesseri tipici della gravidanza. Sull'omicidio Serragli dichiarò che il Michelotti e lo Scarpellini erano stati costretti ad abbandonare il morto sul ciglio della strada in quanto non erano riusciti a trovare la buca delle fate. Inoltre sapeva che Alessandro Corbara, qualche giorno prima, aveva fatto un sopralluogo sul monte in quanto, in qualità di guida esperta del luogo, pensava di accompagnare i camerieri nella notte del delitto, e che in quella stessa notte aveva atteso invano quei due in via Garibaldi.[14] Riferì anche di aver saputo da Elsa che lo Scarpellini aveva paura che Luciano, quando era ubriaco, si lasciasse scappare qualcosa di compromettente sull'attentato di Marina di Pisa.[15]

Per depistare le indagini e per allontanare i sospetti dal Michelotti, la Maffei trovò un compiacente fidanzato per Paola, Steve Emody, un ragazzo del quartiere che si era prestato al gioco, confessando di essere stato lui il responsabile delle sue due gravidanze.

  • Il 21 maggio Michele Montomoli, studente di Chimica e anarchico, frequentatore dell'osteria l'Archetto assieme alla fidanzata di allora dichiarò agli inquirenti che all'Archetto si discuteva spesso di attentati dinamitardi e che la sera di venerdì 12 febbraio 1971 lo Scarpellini gli aveva detto che anche a Pisa erano in programma una serie di attentati contro commercianti fascisti che, durante gli ultimi scioperi, avevano tenuto aperti i loro negozi. In particolare gli aveva fatto il nome della macelleria a Marina di Pisa, e che avrebbe fatto passare l'ordigno esplosivo attraverso le maglie della saracinesca. Il giorno seguente al 12 febbraio lo Scarpellini confermò che l'attentato era per quella notte e durante una cena lo invitò a parteciparvi, in qualità chimico. Gli disse che la bomba sarebbe stata piazzata da tre persone tra cui un esperto di esplosivi e che sarebbero andati sul posto con l'auto di uno dei tre. La mattina dopo, domenica 14, quando aveva saputo che effettivamente a Marina era esploso un ordigno e che uomo aveva perso la vita, si era diretto all'Archetto insieme alla sua fidanzata e alla loro domanda se avesse effettivamente preso parte all'attentato, lui allargando le braccia aveva risposto: «Si, purtroppo è andata così». Successivamente avevano parlato anche con il Serragli il quale aveva risposto: «La via della rivoluzione è lunga e piena di sangue».

Inoltre il 17 maggio Paola si era confidata con la sua amica Cinzia Turrini e le aveva confessato che la madre le aveva detto che l'avrebbe fatta accompagnare dal medico dal Michelotti, se il padre fosse morto.

Testimonianze minori modifica
  • Agli inquirenti si presentò anche Giacomo Giacomelli, un infermiere dell'ospedale di Santa Chiara, la stessa dove aveva lavorato lo Scarpellini, che riferì di aver visto verso le 20:30 del 17 maggio l'ex-collega che si aggirava attorno al carrello degli anestetici, maneggiando alcuni flaconi.[16]
  • Inoltre il 17 maggio Paola Serragli si era confidata con la sua amica Cinzia Turrini e le aveva confessato che la madre le aveva detto che l'avrebbe fatta accompagnare dal medico dal Michelotti, se il padre fosse morto.
  • Elsida Parola, una donna delle pulizie all'Archetto, affermò che il giorno della scomparsa di Luciano, verso le 10:30, aveva visto Elsa appartarsi in camera con il Michelotti per una mezz'ora per farsi dare indicazioni sugli interessi commerciali del marito, contro il volere di Paola. Dichiarò inoltre una frase che le disse Elsa quel giorno a proposito di una catena d'oro che indossava con un medaglione: «Luciano non voleva che la portassi, aveva anche tentato di strozzarmi con la catena. Ora che se ne è andato me la metto»[17] era la prima dichiarazione implicita dell'omicidio Serragli.

Le prove modifica

Un altro elemento importante per incastrare i colpevoli, furono le perquisizioni ordinate dai magistrati a man mano che scorrevano le varie testimonianze. La prima perquisizione venne fatta il 14 agosto 1971 nell'ufficio del Corbara situato nel palazzo della provincia in piazza Vittorio Emanuele II; venne ordinata dal magistrato dopo varie testimonianze e alcune precise lettere anonime arrivate in questura che lo indicavano come colui che aveva ideato l'omicidio e l'attentato di Marina, oltre che il preparatore esperto della bomba di Marina di Pisa. Durante la perquisizione si trovarono esplosivi, micce, inneschi di vario tipo, detonatori. Inoltre nei suoi cassetti si trovarono degli appunti, raggruppati con il titolo Valutazioni politiche del nostro gruppo, che parlavano di azioni clandestine e gruppi armati analoghi a quelli delle nascenti brigate rosse; gli appunti nella sentenza di condanna vennero definiti «più esplosivi degli esplosivi»[18]. Venne anche rinvenuto un libro intitolato Gli esplosivi, completo di annotazioni e sottolineature e un sacchetto di plastica con una polvere rosa, il Monferrito[19] In una perquisizione all'Archetto venne rinvenuta una bottiglietta di Myotenlis dentro un buco nel muro e su di essa vi erano le impronte dello Scarpellini; in seguito si scoprì che a mettercela era stata Elsa, quando i due camerieri erano già in carcere, sotto istruzioni del Michelotti e di Tecla Puccini per dimostrare la sua estraneità dai fatti. Inoltre Elsa Maffei scrisse a Glauco Michelotti, quando questi era in carcere, una lettera che venne definita dalla Corte d'Assise una confessione stragiudiziale del delitto Serragli e del suo movente;[20] infatti la lettera, che evidenziava un legame profondo che andava oltre i vincoli di sangue, finì dentro le carte dell'istruttoria per rimanervi come uno dei pilastri dell'accusa e della condanna. Era arrivata nascosta in un pacco di biancheria pulita destinato al Michelotti e a consegnarla al magistrato fu, Niccolino Palermo, compagno di cella del Michelotti.

Il Diario del Corbara e le Brigate Rosse modifica

Stando alla sentenza, nel diario del Corbara: «si saluta con esultanza il nascere e l'avanzare dei gruppi rivoluzionari; si parla dell'influenza vaticana e americana sul nostro assetto politico e sociale, della Dc, del governo di centrosinistra e dell'affare Sifar; si sostiene che “quando si toccano le basi stesse del già scarso ordinamento costituzionale, non si può combattere solo pacificamente”. Insomma si prospetta la necessità di seguire due linee parallele: un'azione politica palese nelle forme tradizionali e un'azione clandestina che “arrechi danni materialmente concreti; distruzione del materiale della proprietà, qualche lezione anche pesante e personale al capitalista che attua il giro di vite o al funzionario di polizia troppo zelante; attacco diretta di sorpresa all'ordine costituito”».[21] Alcuni mesi prima nei Fogli di lotta di sinistra proletaria diffusi da Renato Curcio e considerati l'anticamera ideologica e operativa delle Brigate Rosse, si poteva leggere: « … L'organizzazione della violenza è una necessità della lotta di classe... Contro le istituzioni che amministrano il nostro sfruttamento, contro le leggi e la giustizia dei padroni, la parte più decisa e cosciente del proletariato in lotta ha già cominciato a combattere per costruire una nuovo legalità, nuovo potere. E per costruire la sua organizzazione».[22] Non è difficile rilevare una sintonia fra i documenti che testimoniano la nascita di gruppi terroristi al nord e gli scenari descritti nelle carte sequestrate a Pisa nell'ufficio del Corbara,[23] nelle quali si possono leggere anche appunti che «si occupano dell'organizzazione del gruppo e del suo collegamento con altri gruppi autonomi con simili; su come raccogliere informazioni su campi militari, partiti, aeroporti, caserme. Su uomini di governo o comunque occupanti posti di rilievo; su come intercettare o disturbare le altrui comunicazioni e predisporre propri mezzi di trasmissione; come curare la preparazione fisica degli uomini all'azione clandestina; come provvedere al loro armamento ed equipaggiamento»[22]. Il gruppo che si era formato all'Archetto, coagulo dei più estremisti gruppi del dopo 68, si era dato un programma che, più tardi, comparve nel bagaglio dei movimenti più determinati e militarizzati.[24]

La verità modifica

La morte di Luciano Serragli era stata architettata dalla moglie Elsa Maffei con la complicità della figlia, i camerieri Vincenzo Scarpellini e Glauco Michelotti e Alessandro Corbara.[25] Alle ventitrè del 18 maggio 1971, Paola Serragli aveva accompagnato suo padre nella poltrona della sua camera da letto per smaltire la sua consueta sbornia serale; nel frattempo in camera arrivò anche lo Scarpellini per iniettargli la sua dose terapeutica di epatoprotettore prescritta dal medico di famiglia, come di solito faceva tutte le sere. In realtà quella volta gli praticò due iniezioni: la prima con una forte dose di anestetico, un flacone intero di Myotenlis chiamato volgarmente curaro,[26] seguita da una seconda di aria, per rendere più rapida e sicura la morte. Mentre lo Scarpellini eseguiva le punture letali, Glauco Michelotti era al pian terreno con Paola e Elsa a sistemare il ristorante. Dopo che il Serragli aveva emesso gli ultimi rantoli, lo Scarpellini gli coprì il volto con un plaid rosso a scacchi appartenente a Elsa e si diresse in Corso Italia per fare due passi. Il Michelotti invece, consigliato da Elsa, si diresse al circolo Etruria per farsi vedere in giro, come faceva tutte le sere dopo aver chiuso il ristorante. Dopo circa mezz'ora, verso la mezzanotte, i due camerieri portarono a braccia il cadavere al pian terreno e poi nel magazzino dell'Archetto, che aveva un'apertura in via La Nunziatina e successivamente il Michelotti andò a prendere la sua vecchia Fiat 1100, accostandola alla porta. Sarebbe stato un attimo far scivolare il corpo dentro l'auto; tuttavia il trasporto del cadavere fu rallentato dall'arrivo in via La Nunziatina del Boghero, barcollando e schiamazzando come al solito e attirando così l'attenzione di tutto il vicinato. Superato l'intoppo i due camerieri riuscirono a partire e, usciti da Pisa, imboccarono la strada verso San Giuliano Terme e il monte Castellare. In quello stesso momento anche Stefano Talocchini si era messo in viaggio per la buca delle fate e quando i due camerieri arrivarono sul monte lo incontrarono e impauriti lasciarono il cadavere dov'era. Due giorni dopo incitati dalla Maffei, tornarono intenzionati a nascondere meglio il cadavere, ma si limitarono solo a constatare che il corpo era al solito posto rispetto a dove era stato lasciato.[27] La guida esperta che doveva accompagnare i due camerieri inetti sul monte Castellare era effettivamente Alessandro Corbara.[28]

I motivi dell'omicidio modifica

Innanzitutto il Serragli dopo aver scoperto il ménage à trois tra il cameriere Glauco Michelotti, la moglie e la figlia conosciuto da tutto il quartiere, pensò di pareggiare i conti mandando qualcuno in galera, parlando dell'attentato di Marina di Pisa. La domenica del 16 maggio 1971, Paola rimase a letto per tutto il giorno con nausea e vomito per il secondo aborto e quel giorno i sospetti che aveva Luciano sulla figlia diventarono realtà. Quella sera si ubriacò e durante la notte picchiò la moglie, tanto che lunedì 17 maggio fu costretto a rimanere a letto scontando l'ubriacatura. La paura delle imprevedibili reazioni di Luciano che molto spesso perdeva il controllo di sé, costituì – argomenta la sentenza– la spinta decisiva del delitto. Inoltre lo Scarpellini avrebbe un volta per tutte seppellito le prove dell'attentato di Marina che lo avrebbero schiacciato in tribunale e con lui si sarebbe salvato pure il Corbara.

Luciano Serragli modifica

Luciano Serragli, di professione oste, (8 luglio1927), era coniugato con Elsa Maffei (2 febbraio1927), casalinga e cuoca della Trattoria l'Archetto. La coppia ebbe due figli:

  • Walter Serragli (7 gennaio 1948 - 27 luglio 2010).
  • Paola Serragli (4 aprile 1954).

La famiglia viveva dei frutti della loro rosticceria/ristorante che gestivano personalmente in via La Nunziatina, nel cuore di Pisa e abitavano sopra di essa in un piccolo appartamento. A quel tempo Luciano Serragli era noto in città per avere il vizio dell'alcool, tanto da dirsi che fosse malato gravemente dopo gli abusi di una vita per una silicosi polmonare, un'ulcera allo stomaco e una pancreatite, al punto che i medici gli avevano diagnosticato dai 3 ai 5 mesi di vita [29]. L'oste era un uomo con una viva passione politica di impronta comunista che si era lasciato catturare dalle idee dei movimenti pisani del dopo sessantotto.[30]. Nonostante tutto si sentiva un uomo fatto di ideali coraggiosi e nobili e fra questi aveva un suo chiodo fisso, più uno stereotipo che un'ideale: la rivoluzione a portata di mano.[31]

L'Osteria l'Archetto modifica

Luciano Serragli dirigeva l'osteria, mentre la moglie e la figlia si occupavano della cucina; c'era però un' eccezione, i due camerieri che vi lavoravano, Vincenzo Scarpellini e Glauco Michelotti, due poco di buono senz'arte né parte e con alle spalle due vite balorde, espedienti e fallimenti. C'era un po' di tutto fra la clientela abituale della trattoria di Via La Nunziatina: qualche vecchio partigiano deluso dai mancati colpi di stato; giovani che si etichettavano come trotzkisti, marxisti-leninisti; cinesi, anarchici, castristi, con l'aggiunta di una manciata di operai delle fabbriche pisane.[32] Era un punto di ritrovo delle fazioni più agguerrite e velleitarie dell'estrema sinistra pisana dove si poteva discutere liberamente di colpi di stato, guerriglie armate, bombe e rivoluzione; l'osteria rappresentava un centro nevralgico diviso tra anarchici, comunisti e similari che si ritenevano eredi della insubordinazione ideologica del '68 e della lotte operaie dell'anno successivo, con una gerarchia alla quale faceva capo Alessandro Corbara.

 
Alessandro Corbara, al momento dell'arresto.

Alessandro Corbara modifica

Il Corbara, definito in una sentenza «superiore per intelletto»[33], era un disegnatore tecnico dipendente dell'Amministrazione Provinciale. Trentuno anni, divorziato, militante nelle file del Psiup e con qualche contatto con il Pci di quegli anni, ma soprattutto in cerca di nuove e più radicali avventure politiche. Nella primavera del 1971 diceva «Ormai non si può più combattere Pacificamente»[34].

Vincenzo Scarpellini e Glauco Michelotti modifica

Entrambi si erano ritrovati camerieri all'Archetto, dopo una vita difficile. Il Michelotti si era lasciato alle spalle due famiglie e tre figli, il primo avuto da una ragazza sposata quando erano entrambi sedicenni, gli altri due nati da una relazione con una donna con la quale aveva convissuto. Aveva fatto diversi mestieri, dall'imbianchino allo straccivendolo, dal raccoglitore di ferro al ladro a tempo perso; dopo queste vicissitudini si ritrovò a 36 anni in miseria e il Serragli lo assunse senza retribuzione, dandogli però vitto e alloggio gratis e con il permesso di riscuotere le mance lasciate dai clienti. Pressoché alle solite condizioni era stato assunto lo Scarpellini, un infermiere di trentaquattro anni che aveva abbandonato il posto di lavoro all'ospedale Santa Chiara, dimettendosi prima che lo licenziassero per le troppe assenze ingiustificate; anche lui era separato dalla moglie, infermiera professionale nello stesso ospedale, con due figli avuti da lei.

Le Sentenze modifica

Il 13 luglio 1974 il presidente della Corte d'Assise, Giovanni Marcello, pronunciò la sentenza:

  • Alessandro Corbara fu assolto per insufficienza di prove dall'omicidio di Luciano Serragli e dall'occultamento del cadavere, ma fu condannato a otto anni di reclusione per omicidio colposo aggravato alla persona di Giovanni Persoglio e a un anno e sei mesi per la detenzione di armi e esplosivi.
  • Glauco Michelotti fu condannato a 24 anni di reclusione per l'omicidio di Luciano Serragli, con l'aumento di tre anni per occultamento di cadavere; inoltre a un anno e quattro mesi di reclusione per il procurato aborto di Paola Serragli ed a sei mesi per la detenzione di munizioni da guerra, per una complessiva pena di 28 anni e 10 mesi di reclusione.
  • Vincenzo Scarpellini fu condannato a 24 anni di reclusione per l'omicidio di Luciano Serragli, con l'aumento di tre anni per l'occultamento di cadavere e di un altro anno per il furto del Myotenlis; inoltre a un anno e quattro mesi di reclusione per il procurato aborto di Paola Serragli ed a sei mesi per la detenzione di munizioni da guerra. A queste si devono aggiungere gli otto anni di reclusione per l'attentato di Marina di Pisa; la pena complessiva è, dunque, di 37 anni e 10 mesi di reclusione, ma la reclusione venne ridotta a 30 anni.
  • Elsa Maffei fu condannata a 24 anni di reclusione per l'omicidio del marito con l'aumento di due anni per l'occultamento di cadavere e di un anno e quattro mesi per l'aborto procurato alla figlia; inoltre a quattro mesi di reclusione per la truffa alla compagnia di assicurazione. Complessivamente le furono dati 27 anni e 8 mesi di reclusione.
  • Paola Serragli fu condannata a 12 anni di reclusione per l'omicidio del padre, con l'aumento di un anno per l'occultamento di cadavere e altri due anni per gli aborti a cui si era sottoposta. La condanna complessiva fu di 15 di reclusione. Il 14 gennaio 1976 la Corte d'Assise di Firenze confermò la sentenza dei giudici pisani, ma ridusse la pena di Paola Serragli a undici anni di reclusione; due anni dopo la Corte di Cassazione confermò definitivamente la sentenza e la motivazione dei giudici pisani.

Tuttavia, nell'estate del 1974, comparvero davanti alla Corte D'Assise di Pisa altri personaggi di minor spicco.[35]


Note modifica

  1. ^ Spesi, “Undici delitti in attesa di verità”, pag 118
  2. ^ a b Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo, cap.4
  3. ^ Meucci Giuseppe, “All'alba del terrorismo”, edizioni ETS, 2009 pag 31; SPESI Mario, “Undici delitti in attesa di verità”, 2008, Editore Mursia (Gruppo Editoriale), pag 94
  4. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo pag 31
  5. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo pag 32
  6. ^ Dalle indagini si scoprì che lo avevano portato fin lassù accomodato su una seggiola da bar; le gambe della sedia erano state tagliate per posizionare il corpo in macchina.
  7. ^ L'evidente stato di deturpamento e le indagini rivelarono che il corpo era rimasto in quel luogo senza vita per più giorni.
  8. ^ Spesi Mario, Undici delitti in attesa di verità, 2008, Editore Mursia (Gruppo Editoriale), pag. 101.
  9. ^ Spesi Mario, Undici delitti in attesa di verità, 2008, Editore Mursia (Gruppo Editoriale), pag. 100.
  10. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo, 2009, edizioni ETS, pag.39.
  11. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo, 2009, edizioni ETS, pag.16.
  12. ^ Spesi Mario, Undici delitti in attesa di verità, 2008, Editore Mursia (Gruppo Editoriale), pag.106.
  13. ^ Ovviamente il movente Scarpellini servì a spostare l'interesse principale degli investigatori su Michelotti e anche su Elsa e sua madre. Inoltre i riferimenti al veleno fatti dal Dei e il ruolo di infermiere di Scarpellini, che effettivamente aveva in quella qualità lavorato all'ospedale fecero pensare agli inquirenti che arma del delitto fosse stata l'iniezione di un potente veleno.
  14. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo, 2009, edizioni ETS, pag.66.
  15. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo, 2009, edizioni ETS, pag.
  16. ^ Spesi Mario, Undici delitti in attesa di verità pag 108.
  17. ^ Spesi Mario, Undici delitti in attesa di verità, 2008, Editore Mursia (Gruppo Editoriale), pag.102.
  18. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo, 2009, edizioni ETS, pag.31.
  19. ^ In chimica il Monferrito è un composto nitrato di ammonio e tritolo.
  20. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo, 2009, edizioni ETS, pag.77.
  21. ^ Giuseppe Meucci, All'alba dell'terrorismo, Pagg. 47-48
  22. ^ a b Lorenzo Ruggiero (a cura di), Dossier Brigate Rosse 1969-1975 La lotta armata nei documenti e nei comunicati delle prime Br, Kaos edizioni, Milano 2007
  23. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo pag.48
  24. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo pag.49
  25. ^ In realtà Alessandro Corbara non partecipò attivamente all'omicidio dell'oste.
  26. ^ http://www.torrinomedica.it/farmaci/schedetecniche/MYOTENLIS.asp; Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo, pag. 69
  27. ^ Gli inquirenti si interrogarono a lungo sul perchè i camerieri non erano tornati sul posto una terza volta per perfezionare l'occultamento del cadavere: forse per paura, forse per rinuncia o per fiducia nella bontà del nascondiglio. In realtà il fatto che la sera del 19 Maggio il Corbara salì sul treno diretto in Piemonte per andare a trovare un sua sorella che aveva partorito, venne usato dall'accusa, senza però trovare riscontro effettivo, per affermare che la mente dei tre era proprio quest'ultimo e quindi per giustificare la scarsa organizzazione dell'occultamento, venendo a mancare quest'ultimo.
  28. ^ Il Corbara fu assolto per insufficienza di prove per l'omicidio Serragli e l'occultamento del cadavere; ebbe invece una condanna, insieme allo Scarpellini, per l'attentato di Marina. considerato come un omicidio colposo, aggravato dal fatto che fu la conseguenza non prevista di un atto comunque doloso. La corte d'Assise si interrogò a lungo sul ruolo che doveva assumere e che invece non ebbe.
  29. ^ Questie voci sono riportate sulle varie fonti sottoelencate; tattuavia i pareri medici diffidano dalla diagnosi sopra indicata, puntualizzando sul fatto che le patologie sopra ricordate non rendono un malato in stadio terminale.
  30. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo, 2009, edizioni ETS, pag.18.
  31. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo, 2009, edizioni ETS, pag.19.
  32. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo, 2009, edizioni ETS, pag.25.
  33. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo, 2009, edizioni ETS, pag.54.
  34. ^ Giuseppe Meucci, All'alba del terrorismo, 2009, edizioni ETS, pag.47.
  35. ^ I personaggi in questione furono Romano Mugnaini ad un anno e sei mesi di reclusione con la condizionale per favoreggiamento; Luigi Rovina ad un anno e tre mesi di reclusione per la truffa all'assicurazione e per favoreggiamento; Steve Emody ad un anno di reclusione per favoreggiamento con i benefici di legge. Infine le donne che si erano prestate a far abortire per due volte Paola Serragli: Tecla Puccini, Luigia Verdi, Giuseppa Conti e Jolanda Marrazzini furono condannate a un anno e quattro mesi ciascuna, mentre Gina Guerrini, che materialmente interruppe le gravidanze a due anni e due mesi di reclusione.

Bibliografia modifica

  • Meucci Giuseppe, “All'alba del terrorismo”, edizioni ETS, 2009, ISBN 9788846722812.
  • Spesi Mario, “Undici delitti in attesa di verità”, 2008, Editore Mursia (Gruppo Editoriale), ISBN 8842538485
  • Meucci Giuseppe, “Sesso, bombe e veleno al curaro: il delitto dell'Archetto che si dispanò tra tresche illecite e attentati dinamitardi, La Nazione, 24-08-2008.
  • Lorenzo Ruggiero (a cura di), Dossier Brigate Rosse 1969-1975 La lotta armata nei documenti e nei comunicati delle prime Br, Kaos edizioni, Milano 2007.

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