Sulla Donazione di Costantino falsamente attribuita e falsificata
Titolo originaleDe falso credita et ementita Constantini donatione
1ª ed. originale1440 (stampato per la prima volta nel 1517)
GenereSaggio
Lingua originalelatino

Sulla Donazione di Costantino falsamente attribuita e falsificata (De falso credita et ementita Constantini donatione[1]) è un discorso di Lorenzo Valla scritto nel 1440 per confutare l'autenticità della cosiddetta "Donazione di Costantino": secondo il documento, l'imperatore Costantino I, o per la sua conversione al cristianesimo o perché guarito dalla lebbra grazie a Papa Silvestro I, decise di donargli la giurisdizione sui territori dell'impero romano d'occidente. Il testo fu pubblicato nel 1517, con una dedica provocatoria indirizzata a Papa Leone X scritta dall'umanista tedesco protestante Ulrich von Hutten[2]. A causa del pericolo che rappresentava per il potere temporale della Chiesa, nel periodo della Controriforma il trattato fu inserito nell'Indice dei libri proibiti nel 1559.[3]

È composto da 100 paragrafi divisi in 30 capitoli, ognuno riguardante una determinata tematica. Analizzando il documento della donazione ed applicando varie tecniche di analisi linguistica su di esso, Valla ne denuncia la falsità, dimostrando che, a causa di alcune locuzioni latine anacronistiche, era stato scritto nell'VIII secolo d.C., 400 anni dopo il regno di Costantino. L'umanista conferma così che la Chiesa, che per secoli ha utilizzato quel documento per giustificare il proprio potere temporale e rivendicare dei privilegi nei confronti dell'Impero, in realtà non ha alcun diritto di possedere territori.

Contenuto

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Capitoli I-X

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Nel I capitolo, Valla afferma di sapere il rischio a cui andava incontro e si accinge a scrivere "per svellere l’errore dalle menti"; nel II, introduce l'argomento dell'opera esponendo sommariamente le prove raccolte:

«[...]. Per prima cosa dimostrerò che Costantino e Silvestro non erano giuridicamente tali da poter legalmente l’uno assumere, volendolo, la figura di donante e poter quindi trasferire i pretesi regni donati che non erano in suo potere e l’altro da poter accettare legalmente il dono [...]. In seconda istanza, dimostrerò che anche se i fatti non stessero così (ma sono troppo evidenti), né Silvestro accettò né Costantino effettuò il trapasso del dono, ma quelle città e quei regni rimasero sempre in libera disponibilità e sotto la sovranità degli imperatori. In terza istanza dimostrerò che nulla diede Costantino a Silvestro [...]. Dimostrerò (quarto assunto) che è falsa la tradizione che il testo della Donazione o si trovi nelle decisioni decretali della Chiesa o sia tolto dalla Vita di Silvestro [...]. Aggiungerò notizie su altri falsi o su sciocche leggende relativamente a donazioni di altri imperatori. [...] aggiungerò che, anche se Silvestro avesse preso possesso di ciò che afferma di aver avuto, una volta che o lui o altro papa fosse stato deietto dal possesso non avrebbe più possibilità di rivendica [...]. Al contrario (ultima parte della mia discussione) i beni tenuti dal papa non conoscono prescrizioni di sorta.»

Dal III al VII capitolo offre come prima argomentazione l'inverosimiglianza della donazione:

«[...]. Qualcuno di voi se si fosse trovato al posto di Costantino, avrebbe ritenuto opportuno donare per sola liberalità Roma, patria sua, capitale del mondo, regina delle città [...]? e per giunta egli si sarebbe recato in una modesta cittaduzza, quella che fu poi Bisanzio? e insieme a Roma avrebbe dato in dono l’Italia, che non è una provincia, ma la signora delle province [...]? Non mi si farà mai credere che ciò possa fare uno sano di mente.»

Nessun sovrano avrebbe mai rinunciato a Roma e, in generale, a tutto l'Occidente, poiché ogni re vuole vedere accrescere i propri possedimenti e la propria ricchezza. A coloro che giustificano la decisione per la conversione dell'imperatore, risponde che questo non implica l'impossibilità di regnare sulla parte "migliore del suo impero": come quei peccatori che, dopo il battesimo, fanno ammenda dei loro peccati, allo stesso modo Costantino doveva restituire la libertà ai popoli sottomessi, non cambiare il loro padrone. A coloro che invece considerano la donazione un segno di riconoscenza per la guarigione dalla lebbra, risponde che questa ipotesi è una favola che deriva dalla storia biblica di Naaman, risanato da Eliseo, e che, anche se l'ipotesi fosse vera, mai nessun cristiano depose il proprio impero o lo diede ai sacerdoti come onore a Dio.

Utilizzando dei discorsi immaginari, Valla sostiene che i figli di Costantino, il Senato e Papa Silvestro I stesso avrebbero cercato di dissuadere l'imperatore dal donare metà dei suoi territori: i figli sarebbero stati addolorati per il tradimento del padre, mentre il Senato e il Popolo Romano lo avrebbero denunciato di star dividendo un impero creato con i loro sacrifici, non i suoi, e di star portando l'impero alla rovina. Inoltre donare i territori al papa non sarebbe stato un buon ringraziamento:

«Andiamo dunque avanti e diciamo pure che Costantino abbia voluto ringraziare Silvestro; bel modo! Sottoporlo a tanti odii, a tanti pericoli che, a mio parere, Silvestro non avrebbe potuto resistervi neppure un giorno solo. Infatti sarebbe sembrato possibile eliminare dall’animo dei romani ogni timore di dover subire cosí offensiva ingiuria solo sopprimendo Silvestro.»

Il papa avrebbe rifiutato i doni perché doveva seguire gli ideali di vita cristiana ed essere un esempio per i fedeli: piuttosto che arricchirsi e lodare più i beni terreni che Dio stesso, diventando quindi un peccatore, avrebbe preferito morire. La donazione quindi non ha alcuna plausibilità e chi la sostiene offende Costantino, il Senato, il Popolo romano, Papa Silvestro I e il pontificato.

Nell'VIII e IX capitolo, passa in rassegna le prove giuridiche e storiche: in primo luogo, non vi è alcun documento che attesti l'accettazione da parte del papa della donazione e, anche se ci fosse, non vi è alcuna prova dell'effettivo trasferimento di proprietà; in secondo luogo, anche leggendo tutte le fonti storiche latine e greche, non si trova alcuna menzione della donazione: addirittura secondo Eutropio, fu Gioviano il primo imperatore che cedette parte dell'impero romano dopo la sconfitta contro i Sasanidi. Sempre le cronache dell'epoca affermano che i papi riconoscevano Roma e l'Italia come dominio imperiale e che Costantino era cristiano fin da ragazzo. Infine, secondo una lettera di Papa Milziade, si attesta solamente che l'imperatore donò il Palazzo Lateranense e alcuni terreni al predecessore di Silvestro, appunto Papa Milziade, non l'intero impero romano d'occidente.

Nel X capitolo smentisce l'esistenza del documento ai tempi di Costantino: è stato trasmesso parzialmente dal Decretum Gratiani, ma è assente nelle sue copie più antiche. Non è quindi stato inserito da Graziano, che l'avrebbe coerentemente ricordato insieme al Pactum Ludovicianum, ma probabilmente da un certo Palea:

«Prima di tutto debbo accusare di disonestà quel pseudo Graziano, che fece delle interpolazioni a Graziano [...]. Il testo non si trova nei piú antichi manoscritti del Decretum. Se Graziano avesse ricordato la Donazione, [...] l’avrebbe collocata dove tratta del patto di Ludovico il Pio. [...] Alcuni ritengono che l’autore dell’interpolazione sia Palea, detto cosí o perché tale fosse veramente il suo nome o perché le sue aggiunte si possono ritenere paglia al confronto del frumento di Graziano.»

Capitoli XI-XXII

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Dall'XI capitolo, Valla analizza minuziosamente il Constitutum, dimostrando che le espressioni usate non sono tipiche di un latino del IV secolo d.C., ma di un latino volgare, influenzato dalle lingue barbariche:

«[...]. Nel suo privilegio si legge tra l’altro: "Giudicammo utile con tutti i nostri satrapi e tutto il senato, gli ottimati e tutto il popolo romano sottoposto alla Chiesa romana che, come san Pietro appare stabilito vicario di Dio sulla terra, cosí i pontefici ottengano, concessa da noi e dal nostro impero, il vicariato del principe degli apostoli e un potere sovrano molto piú ampio di quello che è concesso alla mansuetudine della nostra imperiale terrena serenità".»

Il filologo nega la veridicità di questo avvenimento: per molto tempo i senatori non vollero accogliere la religione cristiana, la carica del satrapo non esisteva a Roma ed un sovrano non avrebbe mai citato solo gli ottimati in un editto ufficiale, senza parlare degli altri magistrati. Continuando la sua confutazione, nel capitolo XIII fa notare che nella donazione si parla di Costantinopoli come sede patriarcale; ma all'epoca la città si chiamava Bisanzio ed era un semplice borgo fortificato:

«C’è qualcosa ancora di piú assurdo: è forse secondo natura che si parli di Costantinopoli come di una delle sedi patriarcali, quando essa non era ancora né sede, né patriarcale, né città cristiana, né era cosí chiamata, né era stata fondata, né addirittura si pensava alla sua fondazione? Infatti il privilegio fu concesso tre giorni dopo che Costantino fu battezzato, quando c’era una Bisanzio, non una Costantinopoli. Mentisco? ma se è proprio codesto stolto a dirlo! Scrive infatti in calce al privilegio: «Abbiamo considerato opportuno che il nostro impero e il regio potere si trasferiscano in Oriente e che edificassimo in un sito ottimo della provincia di Bisanzio una città col nostro nome, dove porre l’amministrazione del nostro impero».»

A coloro che lo accusano di star mentendo sulla storia della città, dimostra come l'autore stesso della donazione scriva che la nuova capitale del regno debba ancora essere costruita, sopra i resti della provincia di Bisanzio: questa contraddizione è uno dei più chiari segni della falsità del documento. Nel capitolo XV Valla riporta parola per parola la sequenza del documento dove si parla della donazione vera e propria, al fine di analizzare ogni sua falla:

««A san Silvestro trasferiamo immediatamente il palazzo Lateranense del nostro impero; poi il diadema, cioè la corona del nostro capo e insieme il frigio e anche il superhumerale, cioè quella specie di fascia che suole circondare il collo dell'imperatore, ma anche la clamide di porpora e la tunica scarlatta e tutti gli indumenti imperiali o anche la dignità imperialium praesidentium equitum, conferendogli anche gli scettri imperiali e insieme tutte le insegne e bandiere e i diversi ornamenti imperiali e tutto ciò che procede dalla altezza della potenza imperiale e dalla gloria del nostro potere. Sanciamo che gli uomini di diverso ordine, i reverendissimi chierici che servono alla santa Chiesa romana, abbiano quel vertice di singolare potenza e distinzione, della cui gloria si adorna ora il senato, cioè siano fatti consoli e patrizi. E abbiamo stabilito (promulgato) che essi siano adorni di tutte le altre dignità imperiali. Abbiamo decretato che il clero della santa romana Chiesa sia adorno dello stesso decoro che circonda la milizia imperiale. E come la potenza imperiale si fregia di diversi ufficiali, cubicularii, cioè, ostiarii, e di tutti i concubitores, così vogliamo che ne sia onorata la santa Chiesa romana. Per far risplendere più largamente la gloria del pontificato stabiliamo che i santi chierici della stessa santa Chiesa cavalchino cavalli adorni di banderuole e coperti di tela bianca e, come il nostro senato, di calzari con udonibus, cioè calze di feltro; di tali ornamenti sia fornita la Chiesa terrena come la celeste a lode di Dio».»

Valla è indignato dalle parole di questo stolto: secondo la donazione, oltre il Palazzo Lateranense, verranno donati a Silvestro anche il diadema, qui descritto come composto da pietre preziose, le tuniche, gli scettri, le bandiere e ogni ornamento imperiale. Tutto questo è semplicemente insensato: il diadema era in realtà di stoffa o seta, lo scettro imperiale era unico, e poi al papa non sarebbero servite le bandiere o le insigne romane. In più si sancisce che i chierici "abbiano quel vertice di singolare potenza e distinzione della cui gloria si adorna il senato, consoli e patrizi":

«Tu dici essere il sommo «singularis potentiae et praecellentiae» l'esser fatti «patricii consules». Chi ha mai sentito dire che i senatori o altri uomini sono anche patrizi? Questi sono eletti consoli, non patrizi, e vengono scelti o da case nobili, che sono dette senatorie, o dall'ordine equestre o dai plebei, e, in ogni caso, è sempre più importante l'essere senatore che patrizio. Senatore è uno scelto consigliere dello Stato, mentre è patrizio chi trae origine da una famiglia senatoria. L'essere senatore non portava a essere patrizio.»

Altra prova che chi ha scritto la donazione non sa di cosa sta parlando: vengono donati alla chiesa anche i concubitores, sinonimo di meretrici. Quindi Costantino dà ai chierici delle concubine, oltre che dei cavalli non sellati, ma decorati con mappulae e linteamina: le prime servono per le tavole da pranzo, le seconde per i letti. Infine sono offerte anche delle scarpe, gli udones, parola che non è stata mai utilizzata se non da Marziale nel suo distico Udones cilicei, dove si dice che sono stati ricavati "non dalla lana, ma dalla barba di un caprone", per cui non possono essere né di lino né bianchi.

Nei capitoli successivi, lo studioso riporta altri pezzi della Donazione per smontarli pezzo per pezzo. Si attesta che Costantino abbia trasferito il potere di consacrare i sacerdoti a Silvestro, ma questo è impossibile poiché il Papa aveva già questo diritto e l'imperatore non poteva ostacolarlo. Evidenzia anche come alcuni pezzi del documento presentino costrutti successivi al latino del tempo:

«Ma che dico? quel modo barbaro di esprimersi non attesta che codesta cantilena non è stata fatta nell’età di Costantino, ma in quella consecutiva? «Decrevimus quod uti debeant» invece di dire: «decernimus ut utantur». Cosí ora gli ignoranti del latino dicono comunemente e scrivono «iussi quod deberes venire» invece di «iussi ut venires». E «decrevimus» et «concessimus » come se le cose di cui si tratta non avvengano allora quando se ne parla, ma siano state fatte in un altro tempo.»

Elencati minuziosamente tutti questi particolari superficiali, il falsario descrive sommariamente tutti i territori assegnati alla Chiesa come "tutte le province, luoghi, città d’Italia e dell’Occidente", probabilmente perché ignorava tutte le province del regno di Costantino; il filologo sottolinea anche varie incongruenze linguistiche in questo passaggio della donazione:

«[...] Risparmi le parole quando sono necessarie e abbondi poi di superfluità: Dici: provincias, loca, civitates. Forse le province e le città non sono anch’esse loca? e dicendo provincias senti il bisogno di aggiungere civitates, come se queste non si comprendano sotto quelle. Non è da stupire che colui il quale aliena da sé tanta parte del mondo, trascuri di ricordare i nomi di città e province e ignori, come oppresso da letargo, ciò che dice. «Italie sive occidentalium regionum». Usa il sive come se l’Italia escluda l’Occidente mentre egli vuol donare l’una e le altre; gli fai dire «provincias regionum», mentre sono piuttosto «regiones provinciarum» e usi la forma permanendam invece di permansuram

In un passaggio, fa notare Valla, Costantino si chiama "sacro e divino", ricadendo del paganesimo e successivamente manda parole di minaccia e terrore a chiunque oserà opporsi a questo provvedimento, condannandolo alla pena eterna nell'inferno più profondo: tutto ciò non può provenire da una personalità come quella di Costantino, ma per forza di qualche "canonico bene ingrassato di corpo e di mente e che eruttava questi pensieri e queste parole nella crapula e nel calore del vino".

La donazione si conclude affermando che questa viene depositata sul corpo di San Pietro, anche se non è possibile averlo fatto dopo la sepoltura, allo stesso modo in cui Giobbe non può aver scritto l'omonimo libro perchè tratta della sua morte:

«[...] Mi ricordo che quando ero giovanetto, interrogai una volta un tale su chi avesse scritto mai il libro di Giobbe; quello mi rispose: Giobbe stesso; ma io gli feci osservare che non avrebbe potuto parlare della sua morte. Ciò si potrebbe dire di molti altri libri, ma non è ora il caso di parlarne. Come infatti può Costantino parlare di ciò che non ancora ha disposto e come può parlare in codesta pagina di ciò che egli stesso dice di essere stato fatto dopo la sepoltura, per cosí dire della carta stessa? Sarebbe come dire che la pagina della donazione morí e fu sepolta prima di nascere, senza che mai sia stata risuscitata dalla morte e dalla sepoltura; prima che fosse messa per iscritto l’imperatore l’avrebbe convalidata non con una sola ma con tutte e due le mani.»

Capitoli XXIII-XXX

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Continua dicendo di aver trasferito la capitale e il suo regno in Oriente, a Bisanzio; Valla dice che, se lui fosse davvero Costantino, avrebbe dovuto argomentare questa scelta di spostare la capitale proprio lì, avendo perduto Roma. «Ordiniamo che tutte queste cose fermamente stabilite con questa imperiale sacra scrittura e con altri divalia decreta restino intatte e immutabili sino alla consumazione del mondo». Poco prima Costantino aveva detto di essere “terreno” , mentre ora si definisce “divino e sacro”. Dice di essere divino e vuole che le sue parole restino fino alla fine del mondo, senza però fare riferimento a ciò che vuole Dio. «Se qualcuno, come non crediamo, oserà tuttavia temerariamente far ciò, soggiaccia condannato a eterne condanne e provi contrari a sé nella presente e nella futura vita i santi apostoli di Dio, Pietro e Paolo. E che finisca bruciato con il diavolo e con tutti gli empi nell'inferno più profondo». In questa parte è presente una sorta di minaccia che il falsario farebbe, sempre a nome di Costantino.

Valla continua però a sostenere che non possa essere stato Costantino a dire queste parole, ma altri al posto suo. Pensa che le parole di questa minaccia possano essere state di antichi sacerdoti ed ora della contemporanea ecclesia. Valla definisce chi dice queste parole, nascondendosi dietro la figura dell'imperatore, un ipocrita: nascondere la propria persona dietro un'altra. Oltre alle perplessità su tutto lo scritto della donazione, ci sono anche perplessità sul fatto che fosse cartacea o meno. Ad un certo punto Valla si interroga sul come possa Costantino aver scritto di un qualcosa accaduto dopo la sua morte. Vorrebbe inoltre sapere in che modo ha firmato questa donazione: con una firma o con il sigillo dell'imperatore, che avrebbe maggior valore. Si crede che questa donazione sia stata depositata nella tomba di San Pietro in modo che nessuno potesse prenderla o modificarla. Valla si domanda poi come possa essere giunta fino alla sua epoca e chi l'ha custodita, non potendo prenderla. Un'altra incertezza riguarda la data; questa è datata 30 marzo del quarto consolato di Costantino. A quel tempo la data si metteva quando una lettera doveva essere recapitata a qualcuno, in questo caso però sarebbe stata messa perché il falsario, come detto in precedenza, sarebbe stato un ignorante.

Alla fine Valla fa una lunga riflessione su ciò che pensava della Chiesa di quel tempo, dicendo che anche se Silvestro fosse stato in possesso di una Donazione, non scritta da Costantino, non avrebbe dovuto accettare i beni da lui donati. Dice che non c'è pontefice che abbia amministrato con fedeltà, ma che anzi il papa portava discordia e guerre tra i popoli. Continua dicendo che il papa vuole ricchezza e che egli pensa di poterla strappare dalle mani di chi occupa ciò che Costantino ha donato, scaturendo così la voglia in tutti gli uomini, sia per fama che per bisogno, di fare come fa la massima istituzione. Secondo lo studioso, non c'è più religione; nessuna cosa più è santa; non c'è più timore di Dio: tutti i malvagi scusano i loro delitti con l'esempio del papa.

  1. ^ Italica - Rinascimento - Cento opere - Lorenzo Valla, De falso credita et ementita Constantini donatione Archiviato il 13 aprile 2014 in Internet Archive.
  2. ^ Vittorio Frajese, La censura in Italia: dall'Inquisizione alla Polizia, Roma, Laterza, 2014, p. 48, ISBN 978-88-581-1100-0.
  3. ^ Indice dei libri proibiti (Index Librorum Prohibitorum), 1559, su aloha.net.

Bibliografia

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  • La falsa Donazione di Costantino, Discorso di Lorenzo Valla sulla Donazione di Costantino da falsari spacciata per vera e con menzogna sostenuta per vera, a cura di Gabriele Pepe, Ponte alle Grazie, Firenze 1992 - TEA 1994

Voci correlate

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Collegamenti esterni

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