Publio Servilio Prisco Strutto
Publio Servilio Prisco Strutto (latino: Publius Servilius P.f. Priscus Structus; fl. V secolo a.C.) è stato un politico e militare romano.
Publio Servilio Prisco Strutto | |
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Console della Repubblica romana | |
Nome originale | Publius Servilius P.f. Priscus Structus |
Gens | Servilia |
Consolato | 495 a.C. |
Biografia
modificaPublio Servilio Prisco Strutto fu console nel 495 a.C. insieme al collega Appio Claudio Sabino Inregillense.
Nell'anno del suo consolato emerse il conflitto, fino ad allora latente, tra patrizi e plebei. Infatti nei primi anni della repubblica tutte le cariche pubbliche erano in mano ai patrizi, forti del loro ruolo nella cacciata della monarchia, ed i plebei, di fatto, non erano rappresentati. Inoltre le leggi sul debito, e l'uso del Nexum, che consentivano di ridurre i debitori alla schiavitù, favorivano di fatto i patrizi, che approfittavano di questa situazione per prevalere nei confronti dei plebei.
La pratica della riduzione dei debitori in schiavitù si era poi andata aggravando negli ultimi tempi, anche a causa dei frequenti conflitti che impegnavano i romani contro i bellicosi vicini, conflitti che, nel caso migliore non permettevano ai cittadini-soldati di seguire adeguatamente i lavori nelle proprie proprietà, in quello peggiore, ne comportavano la perdita o la distruzione.
«...Un uomo già piuttosto attempato e segnato dalle molte sofferenze irruppe nel foro. Era vestito di stracci lerci. Fisicamente stava ancora peggio: pallido e smunto come un cadavere e con barba e capelli incolti che gli davano un'aria selvaggia. Benché sfigurato, la gente lo riconosceva: correva voce che fosse stato un ufficiale superiore e quelli che lo commiseravano gli attribuivano anche altri onori militari; lui stesso, a riprova della sua onesta militanza in varie battaglie, mostrava le ferite riportate in pieno petto. Quando gli chiesero come mai fosse così mal ridotto e sfigurato - nel frattempo l'assembramento di gente aveva assunto le proporzioni di un'assemblea - egli rispose che, durante la sua militanza nella guerra sabina, i nemici non si eran limitati a razziargli il raccolto, ma gli avevano anche incendiato la fattoria e portato via il bestiame; poi, nel pieno del suo rovescio, erano arrivate le tasse e si era così coperto di debiti. Il resto lo avevano fatto gli interessi da pagare sui debiti contratti: aveva prima perso il podere appartenuto a suo padre e a suo nonno, quindi il resto dei beni e infine, espandendosi al corpo come un'infezione, il suo creditore lo aveva costretto non alla schiavitù, ma alla prigione e alla camera di tortura....»
Mentre in senato si discuteva senza arrivare ad una soluzione sulla questione dei debitori ridotti in schiavitù, sul fronte militare Roma era minacciata dai Volsci, resi più audaci dalle difficoltà interne alla Repubblica. Nonostante tutto però non riuscirono a convincere le città Latine, appena uscite sconfitte dalla battaglia del Lago Regillo, ad unirsi a loro in funzione anti romana. Anzi, i Latini denunciarono al Senato romano i preparativi di guerra dei Volsci, ottenendo per questo la liberazione di oltre 6.000 soldati fatti prigionieri, e ridotti in schiavitù a seguito della sconfitta dell'anno prima.[1]
In questa situazione di crisi la plebe rimase compatta nel rifiutarsi di rispondere alla chiamata alle armi, se non fossero state accolte le proprie richieste. Il senato incaricò quindi il console Servilio, considerato più adatto di Appio per trattare con la plebe, di convincere il popolo ad arruolarsi. Servilio da parte sua, riuscì a convincere la plebe a rispondere alla chiamata alle armi,[2] facendo promesse ed emanando un editto in favore dei debitori secondo il quale:
«...ne quis civem Romanum vinctum aut clausum teneret, quo minus ei nominis edendi apud consules potestas fieret, neu quis militis, donec in castris esset, bona possideret aut venderet, liberos nepotesve eius moraretur.»
«....più nessun cittadino romano poteva essere messo in catene o imprigionato, in modo da impedirgli di iscrivere il proprio nome nella lista di arruolamento dei consoli, nessuno poteva impossessarsi o vendere i beni di un soldato impegnato in guerra, né trattenere i suoi figli e i suoi nipoti.»
L'esercito, condotto da Publio e galvanizzato dalle promesse del console, e dalla prospettiva di poter migliorare la propria situazione economica con il bottino di guerra, ebbe facilmente ragione dei Volsci e conquistò, saccheggiandola, la città di Suessa Pometia; non solo, di lì a poco uscì vittorioso da scontri con Sabini presso l'Aniene e gli Aurunci nei pressi di Aricia.[3].
Al termine di questi combattimenti il popolo si attendeva che fosse rispettato quanto promesso dal senato, ma così non fu, soprattutto per l'aperta e determinata opposizione di Appio Claudio, strenuo difensore dei privilegi dei patrizi; allo stesso Publio il Senato negò il trionfo su istigazione di Appio[4]. La situazione si trascinò quindi, non senza inquietudini e malumori, che sarebbero sfociati nella secessione del 494 a.C., fino alla fine del mandato consolare.
Nell'anno del consolato di Appio ed Aulo Postumio, Tarquinio il Superbo morì in esilio presso la corte di Aristodemo a Cuma[5], il 15 maggio fu consacrato il tempio di Mercurio (anche se l'onore della dedica non venne attribuito ad uno dei due consoli ma a Marco Letorio, un centurione primipilo[6], e la colonia di Signa, voluta da Tarquinio, venne rifondata con l'invio di un nuovo contingente di coloni[5].
Albero Genealogico
modificaNote
modifica- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par 22
- ^ Dionigi, Antichità romane, lib. VI, § 29.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par 26
- ^ Dionigi, Antichità romane, lib. VI, § 30.
- ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par 21
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par 21, 27
Voci correlate
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